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Un’immagine della poesia di Michele Sovente

Roberto Galaverni

 

 «In un rovinio-rimescolio di lingue / il bottino del re si fa più pingue», ha scritto Michele Sovente in una poesia di Carbones, il suo quinto libro di versi uscito nel 2002. E in effetti il caso di Sovente appare uno dei pochi, nell’ambito della poesia italiana contemporanea, in cui una scrittura poetica praticata in lingue diverse abbia ottenuto risultati che vanno ben oltre il mero esercizio formale e, in senso stretto, tecnico. Il rischio, in casi di questo genere, è piuttosto evidente: un’ispirazione e un’applicazione tutte esteriori, da accademia, intellettualismo, manierismo, la poesia come fatto linguistico piuttosto che di lingua (o di lingue), il virtuosismo invece della virtù espressiva e via dicendo. Forse è anche per questo che in apertura al poemetto latino Per specula aenigmatis (1990), Sovente ci ha tenuto a specificare, a mo’ di epigrafe: «‘Non ego latine scripsi. / Lingua latina me scripsit’», ponendo tra l’altro il distico tra virgolette, a sottolineare la propria diretta enunciazione d’autore e, dunque, il momento di distacco rispetto alla materia espressiva che appartiene alle enunciazioni di poetica. Anche il latino o, meglio, prima di tutto il latino è una lingua che ditta dentro, dice Sovente, riconoscendo una congenialità sostanziale e così, immediatamente, un ponte di collegamento tra la pratica della poesia latina e la grande tradizione poetica italiana e romanza. Del resto, latino italiano e dialetto (il dialetto dei Campi Flegrei e, più in particolare, della sua Cappella) non costituiscono che le tre varianti, si può anche dire i tre spartiti d’esecuzione di quella «lingua una-e-trina», così l’ha definita l’autore stesso, ch’è stata per Sovente la lingua della poesia.
 Da questo punto di vista, che è poi quello di una vocazione poetica versatile ed eminentemente rapsodica, credo che il cantiere poetico di Sovente trovi qualche analogia non di superficie forse solo con l’opera di Fernando Bandini, anch’essa impiantata sulla triade latino italiano dialetto (il vicentino, nel suo caso), sulla confidenza metrica e sulla passione per la rima, sul riconoscimento del primato del precedente pascoliano. Proprio il raffronto con l’«analogo» Bandini, può essere utile per definire alcune caratteristiche specifiche della poesia di Sovente. Fermo restando che un livello molto alto di competenza specifica, tecnica, ma anche dotta e perfino professorale, risulta una componente intrinseca a disposizioni compositive di questa natura, va notato infatti come per Bandini la lingua della poesia valga prima di tutto come istituzione poetica, convenzione, codice (parola peraltro nient’affatto estranea a Sovente), come una retorica utens le cui regole, vincoli e principi formali risultano tanto più decisivi e qualificanti quanto più i contenuti possono risultare prosastici. Rispetto a Sovente, Bandini lavora più a freddo, avvicinando e trovando la lingua poetica all’esterno come qualcosa di dato. Di conseguenza, il «lavoro poetico» consisterà per lui essenzialmente nel condurla all’interno, nel vivificarla o riattivarla rimodulandola secondo i propri principi o la propria impronta stilistica. Se si riportasse il motto di Sovente ricordato più sopra alla poesia di Bandini, questo risulterebbe in pratica capovolto: «Ego latine scripsi…».
Anche se non voglio irrigidire troppo il mio ragionamento – la poesia infatti è un organismo dalla natura per eccellenza simmetrica e reversibile, dove esistono pertanto relazioni e tensioni, spinte e controspinte, polarità, piuttosto che forze isolate e unilaterali –, mi pare comunque che in Sovente le cose funzionino in modo praticamente opposto, come se i due poeti si fossero inoltrati in un territorio poetico governato da forze non dissimili ma entrando da porte che si trovano una dirimpetto all’altra. In Sovente la spinta della lingua – e non importa per questo riguardo con quale dei suoi tre aspetti essa di volta in volta si presenti – arriva da dentro, è qualcosa di viscerale e di scomposto, di mediterraneo, si può anche dire, rispetto al più nordico e compassato Bandini. La lingua in Sovente insorge come una vento che trascina o come un’acqua che preme; e il compito del poeta, allora, è sì quello di trasmetterla e, alla lettera, di «parlarla» («tante lingue l’anima parla, / quella dei pesci e del vento», dice il poeta in una poesia di Cumae, il libro del 1998), ma insieme quello di non farsene travolgere, di non farsi incenerire mente e voce, e dunque di renderla distinta e praticabile, in qualche misura di civilizzarla, di sciogliere il crogiuolo o magma in cui suoni e lingue sono ancora raggomitolati e sguscianti come in un intreccio indiscernibile di piccole serpi appena nate. Tellurico, ctonio, magmatico, uterino, sono tutte definizioni care alla critica di Sovente, quando non anticipate dalle auto-definizioni così frequenti negli stessi versi del poeta. Ed è senz’altro giusto, ma a patto di aggiungere subito, perché si tratta del contrappeso che determina poi l’esito finale del suo procedimento creativo: controllato, consapevole, intellettualizzato, funambolico, ironico, letteratissimo, padrone e signore della sua parola poetica. La presenza stessa, pressoché costante lungo l’intera opera in versi di Sovente, di un affilato discorso meta-poetico, e in particolare di un più che ricorrente tema-lingua, è molto indicativa su questo punto. «Io dire, io filologizzare, io decrittare», scrive come fosse il proprio comandamento di poeta in Per specula aenigmatis.
 Si trova in Sovente una miscela non semplificabile tra un sentimento di onnipotenza-veggenza poetica e una percezione ironica, relativistica e anche un po’ sarcastica del proprio ruolo di artifex. Direi che il tono fondamentale, quasi la base sonora dei suoi versi si trovi proprio in questa congiunzione. Basti pensare da un lato a quella specie di doppio tante volte ricorrente nei suoi versi che è la figura della Sibilla cumana, la «poetessa», come esplicitamente la chiama, che scrive nell’antro buio – «da sempre mi sobilla la SIBILLA» –, e dall’altro ai molto frequenti richiami minimizzanti, al pugno di mosche catturato dai versi, tra semplice senso delle cose e consapevolezza della propria capitolazione: «e sono io / il bricoleur – leggi: scriba – che raccatta / scarti latini e a uno a uno li saggia nell’ / attrito infinito di un’altra lingua che mai / vedrà nascere». In questo senso, ancora in Per specula aenigmatis, si trova una dichiarazione che può valere un po’ come il manifesto di tutta la sua poesia (riporto anche questa nella versione italiana):
 
Io il vate Sovente, nella sottoluce di questa
sfera, vado da sempre cercando la mia lingua
sepolta nel ghiaccio e un’altra figura; io
ultimo vate, a voi, selve, i miei turgidi versi
consacro, voi canto da tempo infinito sommerse
nell’enigma delle sottoselve. Io: l’istrione
soave. Io: il feroce straccione che gongolando
fugge strappando nella sottonotte le fulgide
insegne imperiali agli dei abissali.
 
Questi versi sembrano lanciare la situazione poesia del Sovente che personalmente prediligo: il poeta della solitudine e della penombra, lontano da tutto eppure a tutto vicino, delirante e lucidissimo recluso tra le mura della casa di famiglia (lares et penates) come dentro a una sfera magica, il poeta assediato da suoni, spezzoni di frase, frammenti in codice, il poeta che avverte i fantasmi e a cui sono consentiti stranissimi incontri («popolo le carte di fantasmi», in Cumae), il poeta degli «oroscopi lunari», dei «papiri/vampiri» e delle «porose icone fra / sonno e veglia nate», il poeta che percepisce il franare delle ere, l’inabissarsi del tempo, le cancellazioni e la violenza della storia, la mortalità delle vite individuali, ma anche la reviviscenza imprevista del tutto. Un alchimista, dunque, in possesso di una superiore confidenza con la lingua della poesia vissuta come lingua morta, a partire da concetti e operazioni poetiche che rimandano inevitabilmente, come detto, al capostipite Pascoli. Nel suo antro oscuro, nella sua «grotta», come anche la chiama in Bradisismo (2008), Sovente è un poeta che «sente», un poeta dell’orecchio anche più che degli occhi e della vista. Sempre in ascolto, è il poeta delle lingue, o meglio, come dice in un suo verso, della «sottolingua», quasi che nel proprio lavoro di auscultazione e di scavo aspirasse a sintonizzarsi su di una specie di lingua prima o di ur-lingua anteriore a «questa che si spalanca era di fiele e babele». Il suo gesto di poeta possiede in questo qualcosa di primordiale, di basico o di archetipico, in quanto bordeggia continuamente, pur coi necessari antidoti, il grande mito della mitopoiesi.
Sottoluce, sottonotte, sottolingua, ultimo vate, istrione, straccione, dei abissali: nel frammento che ho riportato sopra c’è tutta la dismisura e insieme l’impotenza dei turgidi versi di Sovente. Nella sua poesia è presente una componente barocca molto forte, tanto più viva nei casi in cui il discorso poetico è sottratto a un’osservazione diretta della realtà, ma si confronta invece, come accennato, col tutto pieno del vuoto, lì dove la parola, pur consapevole della propria vanità (detto in senso veterotestamentario e leopardiano), amplifica ed espande il proprio rigoglio per colmare lacune che non sono tanto esistenziali quanto della Storia e della realtà tutta. Walter Benjamin aveva colto la specificità del barocco nella sua inclinazione a cogliere la «facies hyppocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo». E così: «sotto il sole – lassù – a perdifiato / parlano i ruderi oscuri della storia», scrive Sovente in Cumae. Per questo riguardo Sovente non può certo essere considerato il cantore della «bella Napoli». Mentre non si può non riconoscere come qualcosa d’essenziale di quella particolare, rovinosa e allucinata percezione o visione delle cose, anche attraverso il grande barocco partenopeo, sia storico sia meta-storico, si trovi ben presente e attiva nella sua poesia, trovando tra l’altro una specie di correlativo oggettivo nel suo concretissimo paesaggio di rovine e crateri, che spesso diventa tanto più evidente proprio in absentia, quando le tante frane, detriti e perdite della Storia sembrano confluire in un punto soltanto (non senza qualche ironia, in un sonetto o quasi-sonetto di Bradisismo, rottami può allora far rima con tsunami). E questo paesaggio, che è il paesaggio di Sovente, appare tanto esteriore quanto interiore, indifferentemente. «E forse per l’ultima / volta perlustro questi desolati e fiammeggianti / crateri», scrive ad esempio in un passaggio di Per specula aenigmatis; ma poi, in una pagina trilingue o meglio una-e-trina di Carbones: «Dentro ho / sangue acqua rovine»; ovvero: «io tèngo / ’ncuórpo sanghe acqua ruvine»; vale a dire: «In me sunt sanguis et aqua / et ruinae». E come se non bastasse, di nuovo in Cumae: «Stringere ombre con ombre. / Custodire semi d’amore. / Rime unire a rovine». Apparizioni, presenze, voci, sibili e brusii attraversano o assediano i «vuoti / della mente», come in una prigione di specchi. Così accade in Quelle, sì proprio quelle (nella variante latina Illae sunt lucis stillae), una poesia di Carbones che col suo sentimento di costrizione, di perdita e disorientamento, ma anche con le sue aperture e riverberi cosmici, è possibile leggere come il racconto della condizione stessa che in Sovente presiede all’invenzione poetica:
 
Quelle, sì proprio quelle
sono gocce di luce e fremono
in seno al legno che arde
e scricchiolano a schiere fuggendo
per l’aria sommerse figure
che sprizzano dal fondo del tempo
sono minime schegge di notti
per sempre nel budello infinito
del buio affondate quelle
con i sogni fugaci discorrono
e i nodi occulti del vivere
mostrano con furia sono mille
che mille volte il vuoto percorrono
e con le ombre discorrono le scintille…
 
Tutt’altro che solare, Sovente è un poeta «rovistato da ombre», che parla «dalla soglia obliqua del la notte»; un figlio della luna o di Saturno. C’è per fino qualcosa che ricorda Tasso, quando dalla sua reclusione scriveva di sentire sferragliare e stridere nella propria testa come i meccanismi di un orologio. Per fare allora un altro esempio, ecco in versi iniziali di La specchio e il fuoco: «Qui è lo specchio / qui è il fuoco, più scintillano / tra fluttuanti ombre / i fiotti di sangue / le scure schegge mentali / e più s’infrangono le croste / nella voragine del mare».
In realtà, in Sovente il tema della rovine o cimiteriale o catacombale unito al tripudio della vitalità – questo particolare conflitto ma anche miscuglio di trionfo della morte e trionfo della vita – risulta pressoché continuo. Rovina, rovine, rovinio, sono tutti termini che ritornano ossessivamente. E anche se si può riconoscere una sua vena più creaturale e accordata con l’esistenza – penso ad esempio ad alcune poesie sugli uccelli e sui gatti che rimangono tra le sue più belle –, oppure una disposizione più giocosa e disimpegnata, quasi onomatopeica, e ancora un’altra ch’è invece fantastica, detto in senso etimologico, e grottesca, mi pare che il vero nucleo di fuoco, il carbone davvero rovente della sua poesia risieda appunto nelle zone più ombrose. Credo che sia questo il Sovente con cui un poeta di grande consuetudine con i traffici col vuoto, col semisonno, con i fantasmi e i barlumi della vita e della storia come Giovanni Raboni, riconobbe una certa affinità poetica al color nero, o bronzo, o rosso fuoco (ricordo soltanto che Raboni aveva voluto pubblicare Cumae nella collana di poesia da lui stesso diretta presso l’editore Marsilio; per parte sua Sovente ha dedicato a Raboni Tanti secoli fa, un testo scritto «dopo aver letto La notte degli storni», quindi posto alcuni suoi versi in epigrafe a Carbones). Del resto, come detto, è proprio qui, è su questo evanescente ma determinatissimo territorio che prendono forma e parola le presenze e le figure più evidenti di questa poesia; è questo luogo antico, «segnato» e tuttavia aperto all’imprevisto – stanza, antro o paesaggio che sia – a rappresentare la condizione stessa del ritorno della vitalità. «Eppure l’erba / sta lì nelle grotte – stremata – a rinascere», ha scritto Sovente, mostrando così di avere fatto proprio l’insegnamento non solo poetico, ma civile e antropologico dello scrittore testamentario della Ginestra, il Leopardi dell’arida schiena del Vesuvio e del fiore del deserto che poi, non a caso, è il Leopardi napoletano.

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