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JEAN-CLAUDE VILLAIN, Ithaques, Bruxelles, Le Cormier, 2011, pp. 99.

 

 

Da intendersi, secondo il proposito stesso dell’autore, come una «suite» a Thalassa pour un retour (Paris, L’Harmattan, 1997), Ithaques ripropone alcuni componimenti apparsi in riviste e libri d’arte, cui si aggiungono nuovi testi, suddivisi in otto sezioni. L’autore degli Essais de compréhension mythologique, che ha fatto del Mediterraneo il suo luogo d’elezione per «fatalité topologique», ripropone in questa raccolta i temi del «tragique solaire» a lui caro. L’indeterminazione del plurale confonde già, nella sezione eponima, «Ithaques», le coordinate del nostos, inteso come una vana teleologia in nome di un sostantivo chiave che apre la raccolta: «Présence». Ad uno stesso intento deve senz’altro ricondursi quel drammatico style coupé che caratterizzava anche Thalassa: l’impiego sistematico del punto fermo, inteso ad impedire la progressione logica, è come una enclave sacra: nel presente, sorta di cerchio magico che delimita lo spazio rituale («des insectes noirs barrent ta route») non vi è discorso, non vi è tempo, solo statica evidenza balenante che produce stupore e, etimologicamente, incanto.
Un’alterità femminile vagheggiata, solo contraddistinta dal pronome, è onnipresente; insieme erotizzata e divinizzata, ha movenze fastose di danzatrice, insieme sensuali e solenni; procedendo a passi lenti e ritmati, sembra voler rievocare il virgiliano: «Et vera incessu patuit dea». Essa è là per trasparire, come Iside svelata («Tu vis par transparence. Sans aucun voile. Sous aucune loi»), perché la nudità è, la Grecia qui evocata insegna, più sacra della veste. E il bagno nelle acque dell’origine – familiarità dell’effimero con l’infinito – è lavacro purificatore che ci fa rinascere ogni volta dalla schiuma del mare: «Nageras-tu. Vers ce large. Que l’horizon te désigne» (p. 11). Ed il mare, elemento femminile, è la sua dimora («demeure de mer») così come lo sono i fiori, altro attributo attraverso cui il nome – proferito, o scritto – si dissolve e svanisce. Sensibile appare l’influenza di Nietzsche (e, con lui, di Camus) nel filosofo Villain, che aspira ad una denegazione salvatrice del concetto contro i miasmi del razionalismo e della cultura cristiana. Si afferma, infatti, quella noluntas che riscatta nella pura presenza: vana la scrittura, dal momento che si è scritti, e si è pensati, mentre Archiloco insegna col suo sonno ispiratore, «le som meil aussi est une vie» (p. 17). Ma, se, come Villain ricorda nei suoi Essais, «le soleil est noir pour les Méditerranéens», sole che incanta, calcina e uccide, la sensuale «jubilation de la lumière» (p. 38) sta alla morte come il gelsomino, fiore venereo («sans fin ils fleurissent», p. 77) sta all’asfodelo, che, refrattario all’incendio, orna le tombe greche e i prati dell’Ade (questa antinomia ritorna in Diurnes, dove al poema titolato Tu décapites les asphodèles fa eco Naïfs les jasmins, pp. 65-77). Ed ecco che alla serenità di natura si sostituisce, progressivamente, la coscienza della morte. Al culto delle tombe onnipresente e associato alla donna, che sigla la istanza della morte nella vita, si affianca l’altrettanto opprimente ricordo del sacrificio; il coltello che fonda sul sangue la civiltà; o il becco del rapace che divora i visceri di un Prometeo oramai calcinato come la sua rupe, sollevandolo dal suo dolore ancestrale: «Corbeau. Viens. Viens de ton bec affreux. Tirer la pierre. Qui pèse dans mon cœur» (p. 38). Anche il cielo mitico continua a sfidare il poeta con le sue prove di azzurra crudeltà; il suo morso rapace è, come ben vide Baudelaire, figura del ri-morso cristiano: vi sono, ovunque, a terra, canne spezzate, e sulle falesie nere si frangono lamentose e pietose, evocando il sacrificio di Cristo sulla croce, delle «vagues d’éponges et de fiel» (p. 40). La perdita dell’innocenza come perdita della memoria storico-religiosa ha un correlativo metaforico, caro a Villain (si veda: Dix stèles et une brisées dans un jardin, 1998) nella stele frantumata: «Tu le sais. On brisera ta stèle. Morceaux éparpillés. Sur la tombe voisine. D’une enfant». (p. 46). E vani appaiono i tentativi della donna di strappare il cuore a Citera, per impossessarsi della sua eternità. «Et soudain tu comprends. Pourquoi la ville antique. Est triste. Ce soir» (p. 47). Il simulacro della morte si approssima a farsi realtà letterale: «Tu te rapproches de ta mort. Quelle stèle choisir. Et quelle palme pour ombrer ta tombe» (p. 60). Così, infatti, anche alla fine di Tu décapites les asphodèles: «Et toi tu t’allonges. Nuque contre terre. Tu sens ton corps peser. […] L’éternité est une tombe. Tournée vers la mer» (p. 70). Se il mare, che fu già per Baudelaire il «cruel miroir/de mon désespoir» è qui il «violent miroir des sépultures» (p. 48), la medesima evidenza solare indica l’«ultime port» (p. 61). Ove «visage» è «rivage», tanti frantumi, tante Itache perdute, nella speranza vana d’una sola: «Cet unique poème. Que tu n’écriras. Même. Pas» (p. 56).

(Michela Landi)

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