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AURELIO PRUDENZIO CLEMENTE, Le corone. Con testo a fronte, a cura di Luca Canali, Firenze, Le Lettere 2005, pp. 330, € 21,00.

Provvidenziale impresa, questa del latinista e scrittore Luca Canali, che mette a disposizione del pubblico italiano una nuova traduzione di uno dei capolavori della poesia cristiana tardo-romana, la cui precedente versione, quella di Ermanno Neri, risale al 1932 ed è ovviamente consultabile solo in biblioteche ben fornite, così come quella di Concetto Marchesi del 1917. Prudenzio di Calahorra è stato uno dei maggiori poeti latini cristiani, e in assoluto forse il maggior poeta latino degli ultimi secoli insieme al più leggero ed elegante Ausonio e a Claudiano. Il Medioevo e il Rinascimento lo coltivarono come autore da studiare a scuola, e la sua Psychomachia, la battaglia dell’anima (fra vizi e virtù), fu il bestseller assoluto di un’epoca che su quel modello sviluppava il genere del poema allegorico. Queste Corone sono invece una serie di inni per martiri, quasi tutti spagnoli o romani, di cui il poeta rappresenta il martirio in versi lirici: per questi, oltre che per gli «Inni della giornata» (Cathemerinon), ha ricevuto l’appellativo di «Orazio cristiano» anche se atmosfera e umori sono completamente diversi, e anche se rispetto ad Orazio Prudenzio produce ulteriori innovazioni metriche. La breve prefazione di Canali ci presenta senza entusiasmo tutti i difetti di quest’opera: vi trova infatti «sgradevoli esagerazioni» e «un’ansia ultramondana, quella della congiunzione con Cristo e con la Trinità – che ha in sé, almeno a giudizio d’una sensibilità ‘moderna’, qualcosa di disumano». Vi vede il «tentativo, non sempre riuscito ma sempre appassionato, di fondare una vera e propria epica cristiana, laddove i ‘vinti’ non sono i martiri, ma i magistrati pagani che possono sembrare gli effimeri ‘vincitori’». In realtà questa di Prudenzio, se si vuol ricorrere a categorie classiche, è più una innodica sacra e pubblica che un’epica, fondata invece da altre sue opere come la Psychomachia e i poemi sul conflitto fra Ambrogio e Simmaco (Contra Symmachum) e sulla generazione delle eresie (Hamartigenia), e si avvicina per qualche aspetto alla definizione di Marchesi di «racconto popolare» e «cantastorie medievale». Ma naturalmente può tollerare l’accostamento all’epica per quello che di eroico, disumano o sovrumano che dir si voglia, questi personaggi hanno. Il cristianista Manlio Simonetti, citato da Canali ad avallo delle sue riserve, parla di «moralismo scontato» per la forte carica didascalica e l’assenza di sfumature psicologiche che affligge questa come tanta altra poesia cristiana. Ma è un tratto che affligge anche tanta poesia epica pagana, dove però il forte gap religioso rende meno fastidioso il problema ammantandolo di esotismo culturale. Questi testi, che fondano poeticamente il rapporto di una comunità urbana ogni volta diversa con il suo protettore, hanno invece una loro bellezza, e questa va valorizzata una volta che si decida di affrontarli: il II, la passione di Lorenzo, presenta un bellissimo quadro delle infermità e delle miserie umane come la vera ricchezza della chiesa, contrapponendogli la squalifica delle classe alta della romanità come moralmente miserabile. Il III, la passione di Eulalia che ispirò Garcia Lorca e che traducemmo in versi in un lontano numero di «Semicerchio» (1990), è celebre per la delicatezza del personaggio e per sua suggestiva scenografia del paesaggio di Merida dopo la morte della donna (vv. 176-180): «Ecco il glaciale inverno sparge / la neve e ammanta tutta la piazza. / Come un lenzuolo di lino / copre il volto di Eulalia disteso / sotto la volta del gelido cielo» (Canali); il IV, per i 18 martiri di Saragozza, inventa l’immagine delle città che presentano a Dio i propri martiri e il personaggio di Encratis, martire vivente perché sopravvissuto a un atroce tormento, che racconta al poeta le storie degli altri. Nel V, passione di Vincenzo, Prudenzio contrappone alla creatività del male nella tipologia delle torture una creatività del bene nella fioritura dei cocci che dovevano invece tormentare il santo. Il VII, per san Quirino vescovo di Siscia, offre una mirabile scena di spettatori assiepati sulla riva del fiume per assistere a un martirio spettacolare e un altrettanto mirabile finale con Quirino inghiottito dalle onde all’ultimo verso, senza morale della storia né preghiera conclusiva. L’VIII introduce una delle caratteristiche della nuova poesia, il passaggio da un significato all’altro della stessa immagine, interpretando le ferite di Cristo come annuncio di storie future e collegandolo agli episodi narrati. Il IX esibisce con particolare evidenza un tratto tipico di Prudenzio, la personalizzazione della cornice narrativa e l’invenzione dell’ecfrasis: qui descrive il martirio perché l’ha trovato raffigurato su una pittura ammirata durante un pellegrinaggio a Roma, ma la storia – quella del povero Cassiano ucciso dai suoi allievi a colpi di stilo, un’idea degna di Golding e del Signore delle Mosche - a sua volta è narrata dalla custode del tempio che conserva l’immagine. Lo stesso espediente ecfrastico dell’affresco è usato nel n. XI su Ippolito, dilaniato da cavalli lanciati a corsa, che contiene anche una descrizione suggestiva dei giochi di luce della cripta, mentre la passione di Agnese al n. XIV è ispirata da una sorta di erotismo del sacrificio, e fra i suoi passaggi forti ha un’impetuosa descrizione dello scorrere del tempo: quod mundus omnis volvit et implicat. / rerum quod atro turbine vivitur, / quod vana saecli mobilitas rapit ecc.

Ma il capolavoro, accanto a episodi di maggiore piattezza, è senza dubbio il X, dedicato a san Romano e lungo 1140 versi, in cui la figura del martire, che fra le altre torture subisce il taglio della lingua ma continua a parlare, è chiaramente e raffinatamente collegato al tema della scrittura poetica che ne celebra le gesta. A lui infatti il poeta chiede il dono della voce, per esaltare la testimonianza di una verità che non può essere soffocata, anche se espressa in una «lingua impotente», che «balbetta e stenta in ritmi scomposti». Questo poemetto è una summa delle capacità e dello spessore culturale di Prudenzio, che in passato classicisti afflitti da allergia al religioso e cristianisti interessati solo all’aspetto teologico spesso non sono riusciti a cogliere. L’aspetto eroico di Romano che irrompe nell’aula trascinandosi dietro il carnefice (vv. 75 ss.) ha il suo contrafforte nell’illuminismo cristiano che emergerà con forza nel Contra Symmachum ma affiora qui in versi come 174 sg.: si me movere rebus ullis niteris / ratione mecum non furore dimica («Se vuoi tentare in qualche modo di convincermi, / combatti con la ragione, non col furore»). Questo razionalismo, che per i cristiani era una facile arma contro i retaggi di una religione arcaica e quindi incomprensibile ai contemporanei, si cristallizza in punte epigrammatiche come a 265 si numen ollis, numen et porris inest («Se c’è un dio nelle pentole, c’è un nume anche nei porri», dove però la traduzione italiana perde inevitabilmente l’assonanza maliziosa) e in formule liriche come 590 nil diurnum nox capit («la notte non riesce ad accogliere nulla del giorno»), ma soprattutto nella grandiosa parata di assurdità della religione romana che occupa decine di versi e a cui Prudenzio contrappone con passo solenne la spiritualità razionale e solidale del cristianesimo. Questa lucidità si rovescia, o si sublima, nell’ebrezza del martirio che qui come in tutte le Corone coglie il santo, e che viene esaltata soprattutto nel racconto dell’episodio dei 7 Maccabei sacrificati dinanzi alla madre che li incoraggiava, in una sorta di trionfo del sacrificio che ha costituito la grandezza di questa terribile stagione di una civiltà sanguinaria come quella romana, e che forse oggi possiamo purtroppo capire meglio di qualche decennio fa. Il Prudenzio narratore ironico viene fuori anche da dettagli come gli sforzi dell’ustore nel riattizzare l’esca del rogo, mentre il lato più truce emerge nella descrizione della scena del chirurgo che taglia la lingua e nella ancora più cruenta scena del taurobolium pagano, dove i sacerdoti si calano in una fossa sulla quale viene fatto grondare il sangue di un toro scannato. Il naratore lirico viene fuori invece da certi particolari come al v. 1121 l’angelo che spiega a Dio i fatti disegnandoli dinanzi a lui.

Ma l’elemento certamente più moderno di Prudenzio, oltre a questo gusto del sangue che ahimè ritorna di moda – e che viveva in Seneca e Lucano come negli Acta martyrum, senza esclusive cristiane – è l’autocoscienza che nell’episodio di san Romano viene esaltata in quanto si tratta di martirio della lingua, ma che viene alla luce in quasi ognuno di questi Peristephanon: nel II Prudenzio si scusa in quanto poeta rusticus indegno del compito che affronta, nel III il suo inno è una corona di versi dattilici offerta in onore di Eulalia, nel IV si ferma a riflettere sui nomi dei martiri che non entrano nel verso metrico, nel VI, peraltro poco appassionante, il saluto finale è stilnovisticamente dedicato ai suoi «dolci endecasillabi», in san Romano la scena finale è quella del giudizio finale che coinvolge il poeta, il quale spera di cavarsela per il dono di sé che ha prodotto mediante la sua poesia, così come nel martirio di Cipriano la sua offerta è la sua scrittura pastorale, e in altri poemetti ancora il poeta come abbiamo visto è personaggio metanarrante che non rinuncia perfino a esporre i sentimenti di un pellegrino lontano da casa (la Spagna): «tunc arcana mei percenseo cuncta laboris, / tunc quod petebam, quod timebam murmuro, / et post terga domum dubia sub sorte relictam / et spem futuri forte nutantem boni» (IX 101 ss.: «ripenso tutti i miei dolori segreti / e ricordo in silenzio le mie speranze, i miei timori, / la casa lontana, abbandonata a un incerto destino, / e la dubbiosa speranza di un bene futuro»). Questa modernità si concretizza sul piano poetico in espressioni sintetiche e incisive, su cui non possiamo soffermarci, e che per essere valorizzate avrebbero richiesto forse una tradizione lirica, rischiosa invece per altri aspetti e giustamente evitata. La pregevole versione di Canali segue invece il suo (altissimo) standard, con la scelta quindi di una prosa interlineare che rinuncia al verso ma non sempre al ritmo (e nemmeno alla rima, se c’è in latino: vd. II 78 ss. Foedis auctionibus – sanctis parentis «in aste infamanti, … genitori santi») e trova sempre la limpidezza di una lingua alta e forte, forgiando un italiano scorrevole, sicuro, deciso, efficace.

Francesco Stella


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