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VALERIO MAGRELLI, Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006, pp. 83, Euro 9,50.
 
Attutito, in parte, per il fatto di avere un posto all’interno di una ‘forma libro’ mai così strutturata, il lascito del finale Post-scriptum, Addio alla lingua: «Adesso è un mondo invaso da ultracorpi», dove si strappa «ciò che avevo di più caro: / il sogno di una lingua condivisa», ha effetto contundente, per il suo nero messaggio che espelle autore e lettore fuori dal testo, provocando insomma il disturbo più grave tra quelli annunciati dal titolo. Ma, per quanto leggibile nei termini di ‘alienazione politica’, la perdita dichiarata di una lingua condivisa ‘disturba’ perché, nel contesto dell’ampio consenso che ne circonda l’opera, dall’esordio precoce come puer senex delle lettere italiane, e soprattutto di fronte all’influsso esercitato dalla ‘maniera’ di Magrelli su larghe zone della scrittura poetica (e critica) degli ultimi anni, ci si chiede se l’autore si smarchi o se cerchi (come invece è) di fare un serio tentativo per l’assunzione di (nuove) responsabilità. All’interno del ‘sistema Magrelli’, lingua condivisa voleva dire una metascrittura disponibile a tutte le trasformazioni del soggetto sulla strada di una minuziosa ékphrasis di sé stesso, e ciò sempre nei termini di una fenomenologia gentile, di una gestione lineare dell’ansia, straniata e aristocratica, così da essere insieme sperimentatore e scienziato di sé. Le tecniche acquisite di «resa oggettuale della soggettività» (Cecilia Bello Minciacchi) avevano quindi potuto essere usufruite a vantaggio della rappresentazione di temi attuali nelle Didascalie per la lettura di un giornale (1999), «libro-progetto» che «appare come una delle poche strade percorribili, oggi per una poesia civile» (Andrea Cortellessa). D’altro lato, con le prose di Nel condominio di carne (2003), l’ékphrasis lineare di un ‘oggetto’ che decade nel tempo qual è il proprio corpo, metteva a nudo i limiti interni del campo d’azione, la condizione del sé come protesi in comunicazione difettosa verso il mondo, ma tutto comunque con una nitidezza di segno che riallacciava i lembi estremi in una pacifica ‘comunicabilità’ della scrittura. Si aveva, a tale altezza, netta la sensazione che la poesia di Magrelli, nel segno dell’«ostinata autoscopia iniziata con Ora serrata retinae» avesse compiuto «il primo, coscienzioso periplo intorno a se stessa» (Cecilia Bello Minciacchi). Con Disturbi del sistema binario l’io ha finalmente doppiato sé stesso e riprende il mare affidandosi ad una organizzazione ‘macro-strutturale’ del libro che, si diceva, è una novità per Magrelli – che ci aveva piuttosto abituati a corone di strutture, raffinate installazioni dominate dalla figuralità tautologica di Escher, stratigrafie memoriali – e ci sorprende almeno quanto la metafora neurologica nel titolo, questa non certo per la sua imprevedibilità, ché anzi in un autore attento ai rapporti tra neuroscienze e scrittura ha sapore quasi di auto-citazione (colpisce invece come continui un itinerario in parallelo con Durs Grünbein, e non solo con la celebre Lezione sulla base della scatola cranica: i due autori hanno notevoli risonanze comuni, nel segno del referto circolare, kafkiano), ma in quanto orienti ‘dall’alto’ la direzionalità della lettura. Il ‘centro pensante’ del libro, battezzato – ed è ulteriore effetto di ‘disturbo’– come ‘appendice’, è L’individuo anatra-lepre, vero e proprio ‘poemetto-Gestalt’: commentario a due voci della figura ambigua (ideata dallo psicologo Jastrow e utilizzata da Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche), consistente in un disegno che può essere visto sia come una testa di lepre che come una testa d’anatra. L’articolazione ‘animata’ del disegno riposa sul fatto che se ciascun modo di vedere è incompatibile con l’altro, spostando pendolarmente lo sguardo, si può passare dall’uno all’altro e rendersi conto che ‘l’uno è l’altro’. L’instabilità della percezione porta a un effetto di disturbo del soggetto che può innescarne, e qui il poema funziona come un test dello psicologo Magrelli, l’applicazione «alla sfera dell’etica». Delle due voci, una, in corsivo, è la voce ‘etica’ («Ecco il segreto dell’anatra-lepre: / come essere colpevoli / rimanendo innocenti»), che progressivamente si afasizza e si fa ‘agrammaticale’ («Voci-vespe ronzano, bzzzz»). L’altra è la voce ‘ottica’ («Mi accanivo sull’Etica, / quando il problema riguardava l’Ottica»), che inseguendo un’ékphrasis questa volta impossibile, si scopre etica. Questa voce, che si permette anche un po’ di metafisica in rima alla Caproni («È soltanto un problema di capienza: / trovare spazio per l’indifferenza», vedi anche, in altra sezione: «Dio non è morto / è soltanto scaduto»), svela la «radice / della doppiezza» nascosta nello sguardo «fisso e vuoto, da animale / weltlos, il ‘senzamondo’ di cui parla il filosofo», non per niente Heidegger. Lo sguardo mette infatti a nudo la radice del male: «Per questo certe lepri sono in grado / di fare paralumi in pelle umana, / mentre l’inconsapevole anatra / volge il viso», svelando insomma che la guerra non è mai finita (viene in mente il Sabato tedesco di Sereni, e si vedrà perché Sereni), e che anche il punto di vista dell’autore è contaminato: «Bello, il mio becco giallo, / ma a chi appartengono quei dentini affilati?». Si potrà a questo punto sottolineare come tra il resto del libro e l’appendice esista una polarizzazione per figure (comportamenti, Gestalten) tipizzabili, come già i testi del ‘poemetto’, in ‘forme esperienza’ indissociabili dal loro insieme. Si prenda un caso macroscopico, quello del testo d’apertura, dove l’isomorfia è lessicalizzata nel titolo, guace (‘guerra’ + ‘pace’), e dove: «La porta del Tempio di Giano / è diventata quella di Duchamp», anticipa il citato Post scriptum: «Quel giorno compresi lo scopo del Giano animale: / vanificare, ossia ‘gianificare’, ogni scambio verbale». Ma è più interessante valutare, caso per caso, come il gioco delle isomorfie attragga e condizioni dall’interno testi appartenenti ad altre maniere, tendenzialmente irrelati (cosa che, insieme a un uso intelligente del non finito, tende a un effetto di post moderno e di ‘opera-mondo’ per l’insieme del libro). È il caso della bellissima contraffazione in falsetto di Su un’aria del ‘Turco in Italia’ («Riposa tutta quanta la Penisola / avvolta da una trepida collana / di affogati. Ognuno di loro è una briciola / fatta cadere per ritrovar la strada. // Ma i pesci le hanno mangiate e i clandestini, / persi nel mare senza più ritorno, / vagano come tanti Pollicini / seminati nell’acqua torno torno», sorta di plazer straniante, da accostare al De Signoribus di «affacciato all’oblò vedi in un punto / una nave mobile e allegra / che per un caso incendia e fuma / rendendo i curiosi inquilini / leggere carbonelle» sul rogo del Moby Prince, in Istmi e chiuse), o dell’‘araldico’ (secondo uno dei modi di cristallizza zione formale individuati da Cortellessa, in sostanza altrettanti ‘cammei morali’) sonetto ‘francese’ in settenari ribattezzato Canzonetta delle sirene catodiche, avvitato alla specularità di TV : TU (innescata da Kafka citato in esergo che annette l’avanguardia alla sfera della ‘colpa’, trasformando Dada nel pronome ‘doppio’ Dudu). Senza esagerare per questo la centralità della tautologia televisiva nell’universo dell’umanista Magrelli, sono i due scarni appunti (sempre il non finito) onirico/televisivi sull’11 e 12 settembre 2001, che mostrano chiaramente ciò che è minacciato nell’era dell’Anatra-lepre. Alla catastrofe delle torri si oppone infatti il feticcio apotropaico del patron di cartone bianco «che tiene in piega le camice», mostrando quanto il campo del ‘domestico’, pateticizzato all’estremo e con una sovraesposizio ne più forte di quanto visto finora in Magrelli, diventi il tempo dell’ansia, tempo sereniano per eccellenza, compresenza al soggetto ‘privato’ di tutte le paure, prime e seconde, esperienza del «terrore che accompagna ogni felicità». La paura tocca la famiglia-Nido «un calcestruzzo di polvere, di paglia, di saliva, / povero intreccio nato da secrezioni e steli» (Guardando le colonne di profughi da casa mia), e muove il gioco d’ombre di «la voce / di mia figlia che gridando / dalla cucina chiede / a suo fratello / se davvero la Bomba, / quando scoppia, / lascia l’ombra / dell’uomo sopra il muro», che ha in filigrana il Sereni di Sarà la noia (il poeta infastidito dalla piccola Laura le torce il braccino, sprigionando con quella breve ferocia l’ombra dell’«angelo / nero dello sterminio»). A Sereni rimanda tutto il campo dell’affettività familiare nella sezione: La volontà buona con i bambini alle prese con l’apprendimento, l’insonnia, e a vegliare inconsapevolmente sui grandi, così come una variazione su Sereni sembra Elegia dove nel tipico dissanguarsi dell’estate si intaglia il sillogismo: «Ciò che ti è caro muore, ciò che muore / ti è caro, se qualcosa ti è caro, / è perché muore. Ed ecco il corollario: ‘Ciò che ti è caro, è solo la sua morte’», che sembra una lunga chiosa a «Quattro settembre, muore / oggi un mio caro...» (Niccolò). Al centro della casa-libro il capofamiglia Magrelli, ‘classicamente’ nevrotizzato nella sua pacifica acedia dalle aggressioni della modernità: l’invasione psichica dell’inglese, il computer (Si riparano personal [computer], è una raffinata sestina in settenari dove la poca perizia dell’utente è riscattata per competenza di tecnica poetica), si trova esposto alla propria inadeguatezza nel corso di una memorabile seduta domestica di agopuntura. In un’inusuale ‘forma-appunto’ (il non finito è qui molto anni ’70), il testo elabora la rinuncia al desiderio come rinuncia alla dimensione pubblica che è il lavoro, scaduto per il soggetto nei termini di un diritto al dovere, un sacrificio la cui ara è «il posto di lavoro» (è preoccupante che per l’autore questo coincida con l’Università). Dove il posto di lavoro di Sereni era la misura della catastrofe quotidiana provocata dal consumarsi del tempo, per Magrelli è il luogo emblematico della sua solitudine pubblica. L’interruzione tra esterno ed esterno è data come definitivamente accampata nel campo di esperienza del soggetto. Riprendendo allora Post-scriptum («Fino ad allora avevo ciecamente / creduto nella sacra liturgia del colloquio. / Comunicare, per me, significava comunicarsi / nella comunione di una parola comune»), viene da chiedersi se il congedo dalla comunicazione faccia del libro l’ultimo frutto dell’era in cui questa era ancora possibile o se invece sia la ‘prima volta’ del relazionarsi con una nuova fase. Ma si tratta probabilmente del punto di crisi in cui sono vere entrambe le cose. La scoperta è ormai quella di una scrittura ‘disincapsulata’, fuoriuscita da sé stessa, passata dal tempo della lingua condivisa al tempo insidioso dello sguardo condiviso, libero in apparenza, ma orientabile da una serie di a priori al di fuori delle capacità politiche del soggetto, terra di conquista per la volontà di potenza dell’anatra-lepre. È nel disegno di mantenere uno sguardo etico nella scrittura, di mantenere il verso legato ad un fine, malmenato o perso l’atto della comunicazione, ma puntando allora sulla sua potenza, mai così impura, sulla ‘comunicabilità’ dello scrivere, che continua ad esserci cara la poesia di Magrelli.

Fabio Zinelli

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