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ANDREA TEMPORELLI, Il cielo di Marte, Torino, Einaudi, 2005, pp. 65, Euro 9,50.
 
Esordio ‘secondo’ sotto mentite spoglie di un giovane redattore di «Atelier» (classe ’73), la raccolta si fa notare subito per l’uso sistematico, con le specificazioni che diremo, della forma più nobile della tradizione poetica italiana classica, ovverosia la canzone di endecasillabi e settenari, in 30 testi titolati e quasi tutti pluristrofici (12 da due, 6 da tre e quattro, tre da cinque, uno solo da sei), con stanze fra 8 e 35 versi (ma per lo più contenute fra 10 e 20), organizzate secondo schemi rimici finissimi specie per l’uso di sdrucciole, ritmiche, irrelate ed interne. All’allusività ‘categoriale’ dello pseudonimo il titolo somma l’ambiguità tra il riferimento dantesco agli spiriti militanti (legittimato da un tono ‘civile’ solo latamente) e una metaforica più ‘analitica’ dei singoli componenti del sintagma: così l’autore «martire fra schiere / di mamertini in festa / con le baldracche di Baudelaire» del testo d’esordio, inaugurando un lessico non soffocante ma diffuso in tutta la raccolta (tregua, coraggio, sangue, guerra, disfatta, battaglia, vittoria, armi), sembra privilegiare l’accezione militare di un Marte non più «soltanto un dio dei campi», piuttosto che quella del pianeta su cui si posa il Primo passo del testo finale, metafora di «un angolo / dell’universo vergine e inondato / di luce». Dall’altra parte, se non a offrire uno scampo alla diffusa violenza del l’esistenza, almeno a sovrastarla, è proprio il cielo, insostenibile perché terso, inesplorato, col valore metafisi co di una metafora semplice che rappresenta l’essenza, e rinforzato da riferimenti espliciti alla divinità e ai testi sacri (La tenda di Mamre dal Genesi). Intanto l’affabulazione si dipana a ridosso di altri asili, terrestri e un po’ più fragili, a cominciare dal l’oikos: la casa comunque tua, animata di oggetti e ricordi di Novecento, teatro dell’Indagine domestica che ricompone storie nella memoria («le forbici cadute sotto al letto / schiudono varie trame»), o scena non più straniera e non ancora tua della neonata convivenza di Canzone dello sposo, magari nella variante del giardino depositario di sapienze arcaiche e di un aratro oracolo di padri contadini / fuggiti qui per rimanere vivi, materia li tutti soggetti a una forte rarefazione, come qui una situazione moralmente ‘virgiliana’ si piega ad una astratta Retorica del luogo. Ancor meno rassicuranti, e dunque ulteriormente esposti al rischio della pretestuosità proiettiva dell’‘occasione’, si affacciano tasselli di contesti scolastici: il quadro di una maestra-pittrice, i compiti dei propri alunni delle medie (Verifica della storia, Grammatica contrastiva), persino i loro turbamenti (Favola). La polarizzazione tra una materia più opaca che scandalosa e un anelito almeno filosoficamente metafisico si ripropone in un certo senso anche sul piano stilistico, sebbene nell’opposizione fra i caratteri dominanti dei diversi livelli espressivi piuttosto che all’interno di ciascuno di essi. Da una parte, infatti, il lessico resta quotidiano nel concreto (fogna, fango, sperma; fa eccezione colostro) quasi quanto nell’astratto (varco, particola d’immenso; ma cruore), e le sue vette espressive, se si escludono i tecnicismi contadini di Italia ’57 (brugo, migliarolo e brida) e il neologismo sgonnano, si risolvono in una serie di attributi dotti che si contano sulle dita di una mano (embricate, immemoriali, gemmante, manetici, sdutto) e soprattutto scompaiono nel mare di un’ag gettivazione tanto frequente quanto familiare (con qualche sintomatica insistenza: incontrastabile, incredibile, insormontabile, impossibile, inesprimibile, insensata, irreversibili, invisibili, indecente, inflessibile, in conclusa, insospettabili, inaudita, immediato, indiscreta, infinito, inutile, impensabile), che è scelta consapevole e fatta oggetto di autoironia: «L’aggettivo si insinua nella voce: / tra dire il vero e tradire sincero / con questa musica fine è lo stesso» (Infrapensieri del giovane uomo). È la stessa linea che non disdegna una fraseologia comune (giurando e spergiurando, puzza di pesce marcio, rialzare il capo) e, sul piano sintattico, una conservazione ‘disarmante’ dell’ordine naturale delle parole, appena mitigata da qualche ellissi (in compenso i figurati sono spesso introdotti dai nessi di raccordo) e da un uso delle parentetiche atto sì a provocare scarti verticali nell’elocuzione, introducendo logiche alt(r)e a commento dell’occasione ‘esistenziale’, ma talora con effetti di amplificazione narrativa. Al medesimo risultato cospira anche una retorica elementare, che pare a tratti mimare trite figure del parlato, negli accenni dei cataloghi come in ripetizioni banali’ nei materiali («Si deve / dire ciò che si sa, ciò che sappiamo»; ci fu…ci fu…) o nella dispositio (ecco l’anadiplosi: ma inseguito da lei, lei che…; non so incantare più le bestie, bestia / io stesso…; così la struttura a cornice, anche in attacchi ‘solenni’: «Il giorno che sarà quel giorno…»). Tale colloquialità si riflette, letteralmente, nell’uso della seconda persona (con imperativi o tu generico), e nelle diverse e anonime voci dei personaggi a cui sono attribuiti interventi («Ma ovunque uno diceva»; «dice uno», «diceva l’innamorato a una donna», «Uno / dice», «ma la voce insisteva a dire» «Come quest’altro: ‘Giuro / – e parla da una stanza / piena di libri …’») anche solo ipotetici («sembra pensare», «Uno direbbe…», «pensava il viaggiatore», «diranno»). In questo quadro l’innalzamento (relativo) del tono è affidato, più che alla scelta dei materiali, al loro scontro ossimorico (gioia feroce) o alle loro giunture metaforiche, specie in attriti tra astratto e concreto che ricordano certo Marinetti (impalcatura delle ore, vetrofanie di futuro passato, scrigno di una favola inconclusa), solo retaggio di tradizione simbolista di una poesia che privilegia il ricorso (discreto) ad un immaginario mitologico-letterario lontano ma ‘intero’ (Parsifal, Orfeo, Amfortas). E in un certo senso proprio il compito di rappresentare il corrispettivo stilistico di questa tensione ‘totalizzante’ spetta, come anticipato, all’imponente investimento costruttivo metrico delle stanze di canzone di endecasillabi e settenari, forma classica con queste avvertenze: a) la misura del verso è sempre perfetta, ed è frequente l’utilizzo di rime tronche, sdrucciole, e talora ritmiche, mentre sono rare le assonanze; b) lo stesso non si può dire dello schema rimico, nel quale sono inserite sempre una o due rime irrelate, che talora cambiano posizione da una stanza all’altra, compromettendo così l’isometrìa delle strofe, altrove minacciata da cambiamenti della formula sillabica a parità di schema rimico (cioè da sostituzioni fra settenari ed endecasillabi nella medesima posizione dello schema tra una stanza e l’altra); c) la divisione tra piedi e sirma è solo parzialmente rintracciabile, e per lo più solo nell’esaurirsi dei primi tre-quattro rimemi nei sei-otto versi iniziali, e non anche in una divisione sintattica. L’esperimento è molto interessante, e meriterebbe altra analisi, indipendentemente dal fatto che riesca o meno a riscattare la prosaicità della materia («Certamente in Turchia si scava ancora, / mentre questo sobborgo dell’Europa / declina ogni lamento / e il problema più urgente è solo un’eco / leggera: la fine del Novecento»); ma è problema di cui Temporelli è conscio: «E se verranno giorni senza il fuoco / dell’amicizia mi esporrò al confronto, / sebbene non dimostri / la retorica di versi infelici / come questi tanta forza. A momenti / conterai le mie sillabe e per poco / scoprirai la misura che non è / sicura come credi. / È lo spazio da te a me, da me a te / che può mandarla all’aria in un istante / e senza indugi travisare il gioco / in vizio, equivocarne la sapienza. / Ma ti cedo le redini / perché sia tu a inventarne l’innocenza».


Attilio Motta

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Il testo-natura. Presentazione di Semicerchio 70 e 71, Roma Sapienza.

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