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Poeti degli anni zero, a cura di Vincenzo Ostuni, Roma, numero 30 di «L’illuminista», Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2010, pp. 352, €20,00.
 

 
 Ogni antologia ha nel suo destino la genesi di una pur minuscola polemica. Prima ancora del gioco stucchevole delle inclusioni e delle esclusioni, a essere messa in discussione è proprio la sua stessa esistenza. A che servono, in fondo, le antologie? C’è chi se lo chiede, fino a contestare il diritto che qualcuno si arroga di affermare, nella sostanza, cosa vale e cosa no. Si chiama critica (inutile richiamarne l’etimo), ma quella è un’altra storia. Più interessante è stabilire, invece, l’utilità di un’antologia, la sua necessità storica e storiografica, la sua capacità di apportare almeno un minimo di conoscenza sull’oggetto che propone o sul clima nel quale compare. La gamma delle antologie si può agevolmente ridurre a due tipologie fondamentali: l’antologia di compendio, che risponde a una vocazione storiografica, e quella di proposta o di tendenza, decisamente più militante, più «esposta». Ora, nelle prime righe dell’introduzione a Poeti degli Anni Zero, numero 30 del la rivista «L’Illuminista», Vincenzo Ostuni affronta di petto il problema, dichiarando che il volume che si sta per leggere è «una creatura ibrida: non una mera ricognizione ma neppure un’antologia di tendenza». Insomma, un’impresa a metà, ma non, si intenda, per il mancato conseguimento di uno dei due obiettivi, per una scelta moderata a priori, bensì proprio perché entrambi gli obiettivi, la ricognizione e la tendenza, sono perseguiti insieme e finiscono per sovrapporsi. È il rischio peculiare di ogni scelta fatta sul presente, alla quale non viene in soccorso la distanza storica. In effetti, l’antologia è articolata in maniera ineccepibile: una introduzione generale, una breve premessa a ciascun poeta antologizzato, una scelta di testi piuttosto corposa, una piccola silloge critica, ma soprattutto una nota di autopresentazione dell’autore. Si tratta di uno dei punti di maggior forza del lavoro di Ostuni, nonché uno degli elementi che contraddistinguono esattamente le antologie di tendenza. Accompagnare i testi con le parole dell’autore riguardo alla propria poetica costituisce sempre un’ottima scelta. Come ottima è la selezione dei poeti. Al lavoro di Ostuni si potrà imputare quel che si vuole (magari che il progetto è troppo debole o troppo marcato), tranne che gli autori inseriti non sono di qualità. Forse l’unica assenza di rilievo è proprio quella di Ostuni medesimo, anch’egli esordiente negli anni Zero, la cui presenza attribuirebbe una maggiore compattezza all’intero corpus. Così la tendenza, che pure c’è, ancorché sfumata, coincide con la mappatura degli anni Zero. Non a caso la prima esclusione, la più polemica, riguarda la poesia «elegiaca, suicentrica», fondata sulla «metafisica del poeta», esclusa innanzi tutto per esaurimento interno. In quanto «epigonismo lirico», essa è ormai uscita dall’orizzonte storico, entro il quale invece deve ancora concretizzarsi seriamente l’altro oggetto di esclusione, la poesia della performance, tutta da verificare alla prova dei testi. Il senso della proposta sta inscritto nello stesso titolo dell’introduzione firmata da Ostuni, Poesia fuori del sé, poesia fuori di sé. Si tratta dei due elementi che legano poeti per altri aspetti assai diversi tra loro: la sostanziale fine del soggetto, o meglio la sua impraticabilità quale motore del fare poetico, e il rapporto della poesia con forme espressive estranee alla più stretta testualità. A fare da testimone della fine della soggettività poetica, e quindi della lirica, non sta soltanto la pura e semplice assenza del pronome io, cui fanno da contraltare forme pronominali, come il noi di Lidia Riviello o la scrittura allocutiva di un Annovi (ma non solo). La novità non consiste, appunto, in questa evidenza grammaticale – comunque non trascurabile –, frutto di una precisa evoluzione storica della poesia, non solo italiana. È il soggetto in sé, inteso alla maniera novecentesca, a non sussistere più nella sua centralità. Nella rapida ricognizione del nuovo che l’antologia consente, con la giustapposizione di percorsi singoli già noti, sono soprattutto altre le prospettive emergenti, in relazio ne a quel «fuori di sé» che Ostuni eleva a vessillo della poesia degli anni Zero. Si tratta, in fondo, di elementi di natura formale. A leggere tutti e tredici i poeti antologizzati (Gian Maria Annovi, Elisa Biagini, Gherardo Bortolotti, Maria Grazia Calandrone, Giovanna Frene, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Giulio Marzaioli, Laura Pugno, Lidia Riviello, Massimo Sannelli, Sara Ventroni, Michele Zaffarano) si percepisce la netta sensazione che si sia conclusa un’epoca, quella, grosso modo, dell’autonomia del poetico. Nella prevalenza dell’elemento visivo, che è tanto tematizzato quanto assunto quale nucleo operativo della scrittura, la parola si fa icona, gesto che rimanda ad altro, all’immagine, certo, ma anche all’universo mediatico che ci avvolge. Il baricentro della poesia ricade dunque altrove, non tanto perché la poesia sia divenuta insufficiente a sé stessa, ma perché è finita l’antitesi tra esterno e interno, tra parola e immagine, parole e cose, appunto. La scrittura poetica invade il terreno extraverbale e se ne lascia invadere a sua volta. Sul piano formale, gli effetti sono molteplici. Da una parte il verso sembra non rispondere più aesigenze prevalentemente ritmiche, bensì visive, gestuali, spaziali addirittura; dall’altra l’insofferenza nei confronti del verso piega le forme in direzione dell’infrazione dei confini di genere (poesia e prosa, e qui vale soprattutto l’esempio di Bortolotti), della discontinuità, di una esplicita mancanza di chiusura. Se fino a qualche anno fa la scrittura poetica faceva i conti con il flusso ininterrotto della televisione, oggi essa rimanda alle dinamiche della rete, che sono infinitamente aperte e discontinue. Poesia nell’epoca del click, si potrebbe dire con un facile slogan, ma anche poesia che non si chiude e non chiude. Dalla lettura dell’antologia salta all’occhio un altro dato che accomuna pressoché tutti gli autori. Siamo di nuovo sul terreno della grammatica, ma stavolta le onde sismiche hanno una portata maggiore rispetto alla mera questione del pronome. Con l’io sembra infatti scomparso anche l’aggettivo, mentre predominano gli elementi minimi della grammatica e della comunicazione, sostantivo e verbo. C’è da chiedersi, allora, se non sia davvero finita una certa retorica, quella della predicazione tipica della poesia, quella, estremizzando, della metafora. Da oggettiva la poesia si è fatta oggettuale. E allora quello zero cui l’antologia si intitola va in terpretato, com’è ovvio, quale termine per una periodizzazione, tuttavia forse contiene anche un’indicazione programmatica: è lo zero di un azzeramento, di un inizio dal quale ripartire. Tutto sommato, siamo all’inizio di un nuovo millennio.

(Massimiliano Manganelli)

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