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GILDA POLICASTRO, Antiprodigi e passi falsi, Massa, Transeuropa 2011, pp. 33, €15,00.
 
 
 
Antiprodigi e passi falsi è un libro che si tiene. Nata intorno ai due blocchi di cui il titolo dà conto – i primi Antiprodigi, pubblicati nel 2009 in Poesie all’inizio del mondo, e i Passi falsi, quasi tutti inediti – la raccolta mostra infatti l’acquisto sicuro di una personalità ritmica e di una coerenza psicologica. Più forse di quanto non accadesse in altre serie di Policastro: penso in particolare a Stagioni e altre, pubblicata nel Decimo quaderno italiano a cura di Franco Buffoni. Lì la separazione tra l’io e gli altri era più netta; a questa prospettiva ‘aristocratica’ se ne alternava poi una per così dire elegiaco-crepuscolare, che scandiva un diverso momento, una distinta disposizione psicologica. Anche nella nuova raccolta ci sono tracce di un crepuscolarismo rivissuto, ma sono allusioni scoperte, travestimenti letterari: «Perché tu la chiami poetessa, / se scrive la stessa / cosa del marito in prosa»; «Non ha che un nome la poesia: / bugia, / di quando la dici / poet-essa» (Essa). Qui aristocrazia e elegia si fondono nel medesimo carattere, che si riconosce patologicomentre (o forse perché) isola i sintomi di una malattia generale: quella concreta, fisiologica; e quella metaforica – la malattia dei sentimenti e dei rapporti, che nessun protocollo terapeutico può curare. In questo, il nesso tra le poesie di Gilda Policastro e il suo recente romanzo, Il farmaco, è stretto; tanto quanto la relazione tra la scrittura in versi e quella in prosa, che nei libri di Policastro si avvicinano e si contagiano. Il testo iniziale della raccolta, L’amour du prochain, è emblematico: «Dell’amore finito in morte / solo dilazione / in prolungata agonia / da farmaco / che corrode, non guarisce / come una cura all’incontrario». L’esperienza del corpo altrui, provato da un male ricevuto e patito, è condizione per infliggere al proprio corpo una sofferenza cercata e autoimposta con metodo. È la disposizione stessa dei testi a suggerire una disturbata causalità: per esempio, ai versi di L’amour du prochain III («Inerti / nel dolore inconvertibile / ti poso addosso le dita / per la misurazione delle masse») succedono quelli della poesia eponima, Antiprodigi: «Tutta la fila si alzò per farmi passare: dovevo andare a darmi una coltellata». ‘Anti-prodigio’, cioè osservazione perturbante della realtà dal punto di vista di un soggetto ossessivo; surreale negativo, che nasce da una contemplazione morbosa del reale. La relazione tra le due specie di sofferenza, la propria e l’altrui, dice che l’io è malato come gli altri e non ha la lucida autorità per prendere le distanze e stilare un referto, se non in modo provvisorio e idiosincratico. Per questo, sembra fuori posto – ed è forse l’unico caso in un insieme saldo anche stilisticamente – quel «cappotto figo» che la protagonista deve mettere, nonostante il dolore, per la «festa / a cui bisogna subito andare» (Hora). Fuori posto non per una questione di registro, ma per difetto di empatia: perché si tratta della concessione a una lingua estranea, da cui il soggetto si tiene a distanza e del quale certifica l’alterità nel momento in cui ne assume mimeticamente l’intonazione. La condivisione del disagio è invece la soluzione con cui Antiprodigi e passi falsi compone un’altra frattura di Stagioni, quella tra sfera privata e sfera sociale. Talvolta l’io sceglie la via della confessione esplicita, con il rischio di farsi ipostasi di istituti psicanalitici: «Ho ucciso mia madre / per farmi moglie buona di mio padre / (Ho ucciso mia madre per dirle / non sono normale, non sarò – mai – madre)» (Torti). Ma quel rischio va corso, perché porta il soggetto a chiarire i moventi personali del proprio stare (o non stare, o voler stare senza potere) nei ranghi delle vite ordinarie: «ho deciso che basta, mi fidanzo / un medico ambulatoriale / e vado in chiesa, coi bambini, al parco, al mare /…/ oppure no, / non mi fidanzo / continuo a disprezzare l’altre gravide, / l’amica di scuola coi tre pargoli» (da Passi falsi: ‘falsi’ come le ipotesi scartate di un’altra vita; ma viene da pensare anche al ‘falsetto’ sul quale l’io modula la voce, qui e nelle altre poesie che fanno da pendant brillante agli Antiprodigi). Come ogni volume della collana «Inaudita» di Transeuropa, anche Antiprodigi è accompagnato da un CD, a cura di Massimilano Sacchi e della stessa Policastro, che a volte, mentre legge le proprie poesie, ne imposta già l’interpretazione. Per esempio i versi di Torti, citati poco sopra, vengono sussurrati, come a proteggere il segreto nucleo emotivo da cui scaturisce la vicenda dell’io. La lettura si presta anche alla definizione di quella personalità ritmica di cui si accennava all’inizio. In effetti, la scansione che Policastro dà ai suoi versi sembra corrispondere a una regola diciamo postmetrica: blocchi prosodici, di cui la voce stabilisce la quantità al di là del conteggio sillabico e della mise en page. Così per esempio, ancora nei Torti, la frana delle misure («I torti che faccio / li ricordo / meno / di quelli che ricevo») è contraddetta dalla costanza del passo vocale («I tòrti che fàccio li ricòrdo»). Dico ‘postmetrica’, dando per implicita un’intenzione di superamento; questo perché la metrica per così dire scritta appartiene pure al repertorio di Policastro, ma è qua si sempre soggetta comunque al ritmo, e spesso straniata. Se fosse possibile ricavare una sostanza psicologica dal dato formale, si direbbe per esempio che l’incalzare del ritmo e l’esibizione della rima servono a prendere le distanze dalla forma mentis dell’enunciatore: «Riprenditi la vita che avevi, / con costoro poi cosa centravi, / cavernicoli fanatici ossessivi / e, finanche nella faccia, / primitivi» (per L.). Sennonché quell’enunciatore è, o può confondersi, con l’io. In questa dimensione, trova ancora spazio l’endecasillabo, magari stirato e assorbito in un verso più lungo («le masse denutrite non proliferano in meno / di sei/dodici mesi»), ma è come un frammento casuale, ritaglio stupefatto di un di scorso doloroso che la forma rende forse più memorabile, non più tollerabile.

(Niccolò Scaffai)

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