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« indietro ANTONIO ROSSI, Sesterno, Castel Maggiore-Bologna, Book, 2005
Docente di letteratura italiana nei licei ticinesi, filologo (si è occupato di poesia quattrocentesca e di Serafino Aquilano), critico letterario (è stato nella redazione del semestrale «Idra»), traduttore (delle poesie di Robert Walser) e poeta, Antonio Rossi ha al suo attivo tre importanti raccolte, Ricognizioni (1979), Glyphé (1989), e Diafonie (1995), le ultime due presentate da firme autorevoli, rispettivamente quella di Giovanni Raboni e di Stefano Agosti. L’uscita di questo nuovo libro è un avvenimento da considerare con attenzione, vista la scarsa propensione dell’autore al presenzialismo editoriale, che va a favore di una scelta oculata dei materiali e di una meditata costruzione delle sue raccolte poetiche. Sesterno è un libro che si regge su un’intelaiatura rigida, come un sesterno, appunto, che nelle sue parti tiene insieme un quaderno di un libro o di un manoscritto. Ma un sesterno, va ricordato, è quasi sempre una parte di un tutto e allude, nella sua modestia, a qualche cosa di piccolo, di contenuto, rispetto ad un sapere maggiore che ancora non può manifestarsi. Il poeta chiede infatti alle cose minime di guidarlo negli enigmi del l’essere, nell’invisibile geometria del l’universo, nelle sue infinite combinazioni. Cerca, si interroga, scruta e sonda le cose attraverso microcosmi, che sono quelli offerti dalla natura: un sentiero di rovi, un agitato cirro nel cielo e poi squame, pollini, schegge, pulviscoli, impercettibili abitatori di fessure. E ancora: stormi di uccelli, gambi di fiori, aghi. Cerca nella mente una bussola per orientarsi, ma trova soltanto ombre, anche se «ombre sicure», come quelle di Una mente volgerla della terza sezione, Lusinghe o dissuasioni: «Una mente volgerla / dove? A striature / ombre sicure massi / o giù rimbalzando / da felci sul discontinuo / abitato e nomade / a serre padiglioni / fetide cataste da cui / passero fanello gazza / trae felicità». Prevale lo stile nominale, la dimensione iconica delle cose, che non concede però spazio agli orpelli e alle digressioni: la poesia si sviluppa spesso in un’enumerazione poggiata su un unico elemento forte finale, come in Utensili parametri, che chiude la medesima sezione: «Utensili parametri / alimenti tenui / modellisti una chiglia / sorretta oblique / fenditure cinghietti / rasi dimore presto / sorte a congetture / diffrazioni succinte / traiettorie preludono / a ostico detto». Tutto ciò che lo sguardo restituisce e che offre in occasioni di ripetibile stupore, giunge comunque in modo deformato: lo attesta la scelta dei verbi, da dissestare a svuotare, sopraffare, disseminare, sformare, sfrangere, scompigliare. Quasi a voler dire che anche se l’indagine si con centra su microcosmi e su forme di coesione apparentemente compatte, è impossibile poi rendere lo schema, rappresentare il reale o il soggetto. Restano solo schegge, materiali resi dui della percezione, microscopiche impronte, impercettibili sensazioni di qualcosa che tuttavia sfugge e non si lascia mettere a fuoco nella sua totalità. Non rimangono che le azioni, come quelle enumerate in Calibra fissa, testo conclusivo della seconda sezione Impulsiva: «Calibra fissa / lambisce sbanda / transige dista / frappone intrude / distorce scansa / omette svia / trafuga latita / ricusa esclama / cifra dissipa / effigie sforma». La secchezza quasi epigrammatica di questa poesia si adagia su una regolarità ritmica, che è la sola certezza e delimitazione di una ricerca nella mutabilità delle cose.
Raffaella Castagnola
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