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« indietro «Una personalità»
di Carlo Caruso
L’invito a dire qualche parola di circostanza in apertura del convegno dedicato a Renato Poggioli era giunto inaspettato ma – grazie a due piccole e felici coincidenze – non intempestivo.
Appena una settimana prima di ricevere l’invito, infatti, il nome di Poggioli mi era casualmente passato sotto gli occhi mentre scorrevo le bozze del carteggio Gianfranco Contini-Giovan Battista Angioletti (ora a stampa per le cure eccellenti di Liliana Orlando: La libertà dell’arte. Carteggio 1941-1961, Milano, Mimesis 2023). Negli anni Trenta del Novecento Angioletti aveva diretto quell’Istituto Italiano di Cultura di Praga dovean che Poggioli era transitato, fungendovi da segretario: le loro strade si saranno incrociate allora. In una lettera a Contini, del gennaio del 1945, Angioletti lamentava che Poggioli non militasse, o non militasse più, nella schiera di coloro che conducevano la «battaglia» – come è detto altrove nel carteggio – «per la poesia pura». Quale il motivo della rimostranza? L’adesione di Poggioli, proseguiva Angioletti, a una letteratura «sociale», e aggiungeva lo stizzito: «Che m’importa se un Poggioli dall’America inneggia a Silone…», quel medesimo Silone il quale, concluso il periodo di internamento in Svizzera, era stato da poco restituito all’Italia già in parte liberata. Nell’accenno di Angioletti, ancorché deformato dall’impazienza polemica, si riconosce senza difficoltà il Poggioli di quegli anni: il critico e intellettuale votàtosi all’espatrio negli Stati Uniti e subito entrato in contatto con la cerchia di Gaetano Salvemini; il suo ingresso nella Mazzini Society; l’impegno nello sforzo bellico a sostegno dei servizi informativi statunitensi. Quanto a Silone, era stato Poggioli ad avviare i contatti con lo scrittore abruzzese nel settembre del ’39 per ottenerne ragguagli sull’attività dei letterati italiani in esilio (come mostrano i regesti del Centro Studi Ignazio Silone di Pescina [AQ]: https://silone.it/regestisilone/, regesto n. 618).
Ancora il caso aveva voluto che, nei giorni prece denti il convegno, mi imbattessi nel necrologio di Poggioli dettato dal principe dei comparatisti, René Wellek, per il numero zero della gloriosa rivista «Comparative Literature Studies» (1963). Come ho avuto modo di apprendere in seguito, si tratta di un testo assai noto; ma a me, profano in materia, si palesava allora nel corso di una di quelle ricerche un po’ oziose su Jstor, così caratteristiche dei giorni nostri, durante le quali si scorrono i numeri passati delle riviste come un tempo si sfogliavano le annate in formato cartaceo (con esiti, tutto sommato, non meno fortuiti, non meno – avrebbe commentato Horace Walpole – serendipitous). La sollecitazione a riflettere su Poggioli veniva a questo punto ribadita dal cortese invito delle Organizzatrici. E non c’è dubbio che un magistero, quale è stato ed è quello di Poggioli, possa esercitare il proprio fascino su specialisti e profani, cioè su lettori variamente partecipi degli interessi del critico. Proprio il modo in cui tale magistero opera sui meno esperti può anzi essere buon indicatore dell’efficacia del magistero stesso: di come cioè esso arrivi ad agire oltre la propria sfera di influenza più prossima. Figure come quella di Poggioli offrono infatti valide occasioni per fare paragone di sé – si capisce da minore a maggiore – con il fine di riesaminare natura e qualità del proprio lavoro, di là dalla maggiore o minore affinità di interessi. Chiunque abbia svolto o svolga la propria attività accademica all’estero, o si trovi in frequente contatto con civiltà letterarie diverse da quella italiana, finisce spesso per essere, per forza di cose, un po’ comparatista; finisce cioè per screziare l’oggetto della propria disciplina di venature suggeritegli da incontri e incroci di cultura che non si sarebbero altrimenti manifestati con altrettanta frequenza e urgenza. La specificità del contributo alla propria disciplina potrà forse soffrirne, quantomeno in apparenza; ma si troverà compenso e consolazione in una più variegata consapevolezza del fatto letterario e in una maggiore propensione al dialogo. Certo, in questi ultimi tempi si è esagerato non poco con la retorica dell’inter- e della trans-disciplinarità; il che non è però motivo sufficiente a invocare, per reazione, l’opposta retorica dell’integrità della disciplina (i cui contorni e la cui natura sono comunque sempre e soltanto definibili in rapporto ad altre discipline). E quando ci si trovi a operare – ed è stato anche il caso di Poggioli – in contesti diversi dal proprio originario, senza cioè il conforto di ciò che a casa propria si può e anzi si deve dare per garantito o addirittura per scontato, diventa spesso necessario rivedere molti presupposti: ritenuti fino a poco tempo prima intangibili, ma che nelle mutate circostanze richiedono invece di essere giustificati secondo criteri nuovi e nuovi valori, perché il contesto e i parametri di riferimento sono mutati. L’assestamento in un ambiente diverso da quello consueto non è mai cosa facile: chiunque abbia esperito ciò potrà darne testimonianza o quantomeno ricordare celebri rievocazioni del disagio provato, siano esse confessioni di natura personale («La mia reazione all’ambiente [di Liverpool] prese la deplorevole forma di criticare tutto e tutti, che era un modo indiretto di nostalgia per l’Italia»: Mario Praz, La casa della vita, Milano, Adelphi 1986, p. 111), ovvero ammonimenti espressi in forma impersonale («la più parte de’ viaggiatori, mentre viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo, e lo preferiscono con una specie d’ira a quelli dove si trovano»: Giacomo Leopardi, Pensieri, a cura di Emilio Russo, Milano, Mondadori 2022, p. 88). Senza un vero assestamento, o forse meglio riposizionamento, senza cioè una chiave che apra il varco allo scambio di idee con il mondo circostante, il rischio è di finire condannati a una sorta di afasia intellettuale. Un altro grande studioso, la cui carriera si era svolta in larga parte all’estero, paragonò una volta le proprie cognizioni a un «peculio» pronto a essere mutato nella valuta straniera locale, ma nella totale incertezza circa l’esatta quotazione di un cambio non determinabile a priori, da calcolarsi e negoziare lì per lì, con tutti i rischi, i dubbi, gli inconvenienti – talora anche i vantaggi – del caso (Carlo Dionisotti, Appunti su arti e lettere, Milano, Jaca Book 1995, pp. 7-9). L’opera di Poggioli è istruttiva anche per questo, per il suo essere il frutto felice di molteplici e proficui ‘scambi di valuta’ occorsi man mano che la sua carriera andava snodandosi attraverso la Firenze dei tardi Anni Venti, la Cecoslovacchia e la Polonia degli Anni Trenta, gli Stati Uniti degli intellettuali antifascisti fuoriusciti e delle grandi università della costa orientale durante la guerra mondiale e nel dopoguerra.
Ogniqualvolta si torni a leggere i lavori di Poggioli, non si può se non ammirare quella sua eccezionale disponibilità al dialogo. Per limitarmi a un unico esempio, ricordo in questa sede gli studi sul genere pastorale degli anni Quaranta e Cinquanta, stimolati in parte dall’incontro con il libro assai noto di William Epson Some Versions of Pastoral (1935). Come tutti i lavori che affrontino fenomeni letterari di lunga durata, quei saggi illustrano assai bene la necessità di ingegnarsi per affinare concetti e strumenti critici atti all’uso, magari inventandoli all’occorrenza; e sono saggi ispirati a un’inesausta e al tempo stesso ragionevole fiducia di poter colmare il gap – che a molti pare quasi un abisso invalicabile – tra l’antico e il moderno. Non diversamente pensava, del resto, il già rammentato René Wellek, il quale così concludeva il commosso ricordo del collega e amico: «Poggioli era diventato un vero comparatista, e aveva fatto dell’intera letteratura occidentale la propria provincia. La contemplava da un punto d’osservazione situato molto in alto, con sensibilità contemporanea, ma anche con un forte senso del passato e dell’elemento classico, e portava nel proprio midollo l’intera tradizione italiana da Dante in poi, e insieme con essa il fascino per la più recente delle grandi letterature: la letteratura russa. Ma Poggioli non era un semplice erudito, ancorché dotato di straordinaria apertura e di un’altrettanto straordinaria abilità espositiva. Era una personalità; ed era un uomo che aveva elaborato una propria fisionomia intellettuale, un modo personalissimo di vedere le cose, unico e indimenticabile come la sua persona: onde tanto maggiore è il rammarico per la sua scomparsa (The more the pity)».
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