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« indietro L’antologia La violetta notturna.
Struttura e spirito della raccolta
di Stefano Garzonio
La raccolta Il fiore del verso russo costituisce il punto d’arrivo di un antico progetto letterario che Poggioli aveva già pensato alla fine degli anni Venti. Di questo progetto una prima realizzazione era stata la raccolta di traduzioni: La violetta notturna pubblicata nel 1933[i].
Prima della pubblicazione di questo volume Poggioli aveva già offerto prove della sua maestria di traduttore. Nel 1928 aveva tradotto Sergej Esenin (Tovarisc e Inonia, «Rivista di Letterature Slave» III, n. 1 [1928] pp. 70-82) e pubblicato un articolo su Konstantin Bal’mont (L’arte di Costantino Balmont, «Rivista di Letterature Slave» III, nn. 4-6 [1928] pp. 474-507). Erano seguite nel 1929 traduzioni da Anna Achmatova (Proprio sul mare; Prima di primavera c’è dei giorni; Risvegliarsi quando albeggia; Sul lago s’è fermata ora la luna, «Rivista di Letterature Slave» IV, 4 [1929] pp. 277-286), Nikolaj Gumilёv (Il violino magico, Memoria, «Rivista di Letterature Slave» IV, 5 [1929] pp. 369-372, Due canzoni, «Rivista di Letterature Slave» IV, 6 [1929] pp. 453 454), Fёdor Sologub (La rete della morte, L’altalena del diavolo, Semplice canzonetta, Dal ciclo ‘Maschere di Antevite’: ‘Sta la luna come un disco’, «Rivista di Letterature Slave» IV, 6 [1929] pp. 454-458), mentre nel 1930 Poggioli pubblicò un articolo su «Solaria» (V, nn. 7-8 [1930] pp. 55-58) dedicato a Majakovskij, nel quale si rapportava l’opera del poeta futurista con quella di Velimir Chlebnikov e Boris Pasternak. Interessante subito notare che malgrado l’alta considerazione rivolta a questi due ultimi poeti, nessuna opera di Chlebnikov sarà poi inclusa nella raccolta La violetta notturna.
In effetti, il 1930 fu un anno particolarmente fertile. Poggioli pubblicò Tre poeti russi [Blok, Gumilёv, Esenin] su «Il convegno» (XI, 3-4 [25 aprile 1930] pp. 81 87), Aleksandr Blok, La violetta notturna («Il convegno» XI, 3-4 [25 aprile 1930] pp. 88-97). Nikolaj Gumilёv, Lo spavento stellare su «Il convegno» (XI, 3-4 [25 aprile 1930] pp. 94-103) e Sergej Esenin, Rus’ (XI, 3-4 [25 aprile 1930] pp. 105-108). Uscirono inoltre gli Studi su Blok («Rivista di Letterature Slave» 1 [1930] pp. 38-59), e ancora di A. Blok Il giardino degli usignoli e altre poesie sulla rivista «Vigilie letterarie» (gennaio 1930), e di Sergej Esenin La canzone del cane, ancora su «Vigilie letterarie» (marzo 1930).
Nel 1931 Poggioli pubblica un articolo dedicato a Michail Kuzmin («Rivista di Letterature Slave» n. 5, pp. 307-315) e una recensione al Panorama de la Littérature russe contemporaine di Vladimir Pozner («Rivista di Letterature Slave» n. 6, pp. 451-460, riproposto su «Civiltà moderna» III, n. 5, n. 6, pp. 1047-1055). Escono anche il saggio Anna Achmatova («Il convegno» XII, 3 [marzo 1931] pp. 103-106) e di Anna Achmatova la traduzione di Proprio sul mare («Il convegno» XII, 3 [marzo 1931], pp. 107-115). Sempre nel 1931 Poggioli aveva pubblicato sulla rivista «Circoli» un lungo saggio dedicato a Mandel’štam, Commento a Mandelstam (I, 2 [marzo-aprile 1931] pp. 79-103) che seguiva la pubblicazione nello stesso anno su «Solaria» (VI, n. 1 [gennaio 1931] pp. 37-39) delle traduzioni di due liriche di Mandel’štam, Jane uvižu znamenitoj Fedry (1915) e Voz’mi na radost’ iz moich ladonej (1920), rese in italiano con i titoli Phèdre e Sole e miele. Nel 1932 Poggioli presenta infine, sempre su «Circoli», alcune traduzioni da Vl. Chodasevič (Episodio, Mezzogiorno, La scimmia e Frammento (II, n. 3, pp. 35-44) e di Aleksandr Blok Tre poemi [Il giardino degli usignoli; La sconosciuta; Danza della morte], («L’Italia letteraria», 25 settembre 1932, p. 3).
Riferendosi alle due poesie di Mandel’štam apparse su «Solaria», in nota al già ricordato Commento a Mandelstam, Poggioli aveva scritto: «Due sue liriche da me tradotte in versi, Sole e miele e Phèdre, sono già apparse nel numero di gennaio di ‘Solaria’. Altre ne appariranno nella mia antologia: Poeti russi del Novecento»[ii].
Ecco, dunque, che il progetto di pubblicare un’antologia di poesia russa risultava già in nuce proprio subito dopo che Poggioli si era laureato nel 1929 a Firenze in Letteratura Russa con una tesi sulla poesia di Alessandro Blok, discussa con Nicola Ottokar.
Dopo aver notato a margine che sarebbe opera meritoria raccogliere in volume tutti i saggi e articoli di Poggioli dedicati alla letteratura russa negli anni 1928 1933, cioè prima della pubblicazione della raccolta La violetta notturna, vediamo più da vicino la struttura di questa piccola antologia poetica.
Prima di concentrarci sulla sua vivace introduzione, volgiamo lo sguardo al contenuto della raccolta. Ampio spazio è dedicato alla poesia di A. Blok. Sono inoltre presenti i seguenti autori: M. Kuzmin, V. Chodasevič, N. Gumilёv, A. Achmatova, O. Mandel’štam, G. Ivanov, I. Severjanin, V. Majakovskij, S.Esenin, M. Cvetaeva e B. Pasternak. Come si vede un numero limitato di poeti russi contemporanei, se vogliamo confrontare questo volume con l’Antologia dei poeti russi del XX secolo pubblicata da Raissa Naldi-Olkienizkaia nel 1924[iii]. Si noterà inoltre, a parte Blok, l’evidente preferenza attribuita alla scuola acmeista. La Naldi-Olkienizkaia aveva presentato al lettore italiano tutti i massimi esponenti del decadentismo e del simbolismo e anche una serie di autori minori rivelando così una più ampia conoscenza dell’entroterra poetico russo del cosiddetto ‘secolo d’argento’, per non dire poi che nell’Antologia del 1924 si offriva un ampio panorama della poesia femminile (non solo Achmatova e Cvetaeva, ma anche Z. Gippius, M. Lochvickaja, L. Stolica, S. Dubnova, M. Škapskaja e M. Šaginjan).
In questa prospettiva, La violetta notturna ha un raggio d’azione più limitato e solo con Il fiore del verso russo Poggioli riuscirà a fornire un quadro quanto più completo della poesia russa del Novecento, inserendo peraltro in appendice traduzioni da Lomonosov, Puškin, Lermontov, Tjutčev, Nekrasov e Fet. Un’altra circostanza balza subito all’occhio. Nella Violetta notturna Poggioli utilizza solo in parte le traduzioni presentate su rivista negli anni 1928-1932. Troviamo tra queste tre liriche di Chodasevič, tre liriche di Gumilёv, tre liriche di A. Achmatova, buona parte dei testi di Blok e le due già ricordate liriche di Mandel’stam. Il resto delle poesie proposte sono tutte nuove traduzioni. Alcune delle traduzioni degli anni 1928-1932 non inserite nella Violetta notturna troveranno posto più tardi ne Il fiore del verso russo[iv].
In questa prospettiva si può considerare La violetta notturna come un lavoro intermedio e di preparazione alla grande antologia già progettata nel 1930, ma che vedrà la luce solo nel 1949. A questo si aggiunga che i due poeti più amati dallo studioso furono antologizzati in due volumetti specificamente dedicati alla loro opera. Mi riferisco a Sergio Esenin, Liriche e frammenti (Firenze, 1940) e Alessandro Blok, Poemetti e liriche (Modena, 1947).
Per definire i criteri generali che motivarono le scelte operate da Poggioli nella Violetta notturna risulta fondamentale prendere in esame le linee generali espresse dall’autore nella sua introduzione. L’importanza attribuita a questa introduzione dal suo autore è con fermata dal fatto che essa fu riutilizzata in parte per la ben più ampia introduzione, un vero e proprio saggio storico-letterario, che Poggioli inserì sedici anni più tardi nel suo Il fiore del verso russo. Come sappiamo l’introduzione a Il fiore del verso russo costituisce, a sua volta, un lavoro preparatorio al noto panorama storico critico I lirici russi: 1890-1930, pubblicato in inglese nel 1960 e in traduzione italiana nel 1964.
Per quanto riguarda ancora La violetta notturna, vorrei subito mettere in rilievo il ruolo svolto nella sua organizzazione dalla lettura del Panorama de la Littérature russe contemporaine di V. Pozner, che, come ho già ricordato, il Poggioli aveva recensito nel 1931.
Sia nell’introduzione a La violetta notturna, sia in quella a Il fiore del verso russo, Poggioli esordisce con uno specifico riferimento al XIX secolo. Leggiamo in fatti:
«Nel primo trentennio d’un secolo che qualcuno s’ostina a chiamare ‘lo stupido’, nacquero in un paese freddo e lontano sei o sette uomini eroici che introdussero da soli l’Impero di Tutte le Russie nello stato disumano del Re-Spirito. E le loro grandi ombre ci han fatto dimenticare la Spagna e l’Oriente pittoresco, contrade predilette dei nostri nonni romantici, i fiordi scandinavi e il golfo mistico di Bayreuth, paradiso dei nostri padri decadenti, per farci sognare steppe desolate e i villaggi di capanne, l’ubriachezza, gli sgomenti e le gioie d’un popolo magnifico e stravagante»[v]. Nel testo de Il fiore del verso russo l’espressione «stato disumano del Re-Spirito» è corretta in «stato sovrumano del Re-Spirito»[vi].
La riflessione proposta da Poggioli parte da una definizione, quella di ‘secolo stupido’, che fa evidente riferimento al discusso libello di Léon Daudet Le stupide XIXe siècle (1922). Nell’introduzione Poggioli tende a confutare con una certa dose d’ironia la rappresentzione offerta dal Daudet dell’Ottocento, secolo che per gli effetti perniciosi delle idee sorte dalla Rivoluzione francese risulterebbe del tutto privo di quei valori morali e culturali che il Daudet attribuiva invece alla monarchia e al patriottismo. Come è noto, Daudet, medico e scrittore, fu nazionalista e antisemita, attivista con C. Marras di ‘Action française’, nonché amico di Marcel Proust.
Mi sembra evidente che il riferimento a Daudet celi un’evidente vena polemica nei confronti di una possibile sintonia con le idee dello scrittore francese da parte di ambienti della destra intellettuale italiana. Ma quello che qui è più interessante è che l’idea del ‘secolo stupido’ viene confutata proprio sulla base della comparsa e della affermazione della grande stagione letteraria russa dell’Ottocento (i sei o sette uomini eroici). Nell’introduzione a Il fiore del verso russo Poggioli muta leggermente il senso della frase: se prima era «Nel primo trentennio d’un secolo che qualcuno s’ostina a chiamare ‘lo stupido’ […]» ora è «che qualcuno volle chiamare ‘lo stupido’ […]»[vii]. Nel 1933 la questione è ancora aperta, nel 1949 è solo un retaggio del passato.
Certo, si potrebbe anche leggere l’affermazione del Poggioli come un riconoscimento del ruolo della cultura russa del XIX secolo nel superare i tratti di ‘stupidità’ dell’Ottocento grazie a Puškin, Lermontov, Turgenev, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj e Čechov (questi dovrebbero essere i sei o sette uomini eroici cui fa riferimento Poggioli).
Passato alla specifica disamina della periodizzazione della poesia russa, Poggioli ripropone i concetti di età dell’oro e età dell’argento della letteratura russa, in sintesi la grande fioritura dell’epoca puškiniana e poi l’epoca del modernismo, quest’ultima definita «età malata, peccaminosa e alessandrina». Quello che magari vale la pena qui sottolineare è l’individuazione di una successiva età del ferro, quella legata alla nascente epoca sovietica.
Scrive infatti Poggioli che «i prìncipi dell’intellighenzia»:
«…apostoli ed eresiarchi ad un tempo, poveri e dissipatori, prepararono con le loro mani una sorte più grande di loro, un destino che li ha rinnegati e distrutti, e che gli ultimi di loro non vogliono né vedere né riconoscere: una nuova età di ferro, vaticinata fin dai loro tempi dalle bombe degli attentati, che ebbe il suo avvento con la rivoluzione d’ottobre…»[viii]
Si tratta di uno schema che in realtà aveva avuto nella cultura russa già nel XIX secolo diverse interpretazioni. Basti pensare alla poesia di P. Vjazemskij Triveka poetov [Tre secoli dei poeti] o ancora alla celebre lirica di E. Baratynskij Poslednij poet [L’ultimo poeta]: «Vek šestvuet putëm svoim železnym» [Il secolo avanza con il suo cammino di ferro][ix]. Se nella tradizione ottocentesca l’età del ferro si identificava nel mercantilismo e nella commercializzazione della poesia, in definitiva l’affermarsi del capitalismo, ora nel XX secolo si tese a identificare l’età del ferro con la violenza della guerra e della rivoluzione. Ne troviamo ampio uso nella pubblicistica del tempo e anche nel dibattito relativo al cosiddetto ‘terzo rinascimento’ o ‘rinascimento slavo’, perorato dal grande filologo Faddej Zelinskij [Tadeusz Zieliński][x].
Vittima sacrificale di questo processo è, secondo Poggioli, Aleksandr Blok con la sua delusa fede in un ‘secolo luminoso’. Ed è proprio dalla poesia di Blok che si diparte la nuova antologia che non a caso porta il titolo di un suo celebre poemetto: Nočnaja fialka [La violetta notturna]. Di fatto l’antologia di Poggioli aspira a fornire un quadro della poesia russa in questa dolorosa fase di passaggio dall’illusione alle tenebre. Non a caso essa si chiude con la poesia di Pasternak Caos.
Certo, nell’introduzione Poggioli informa il lettore di quello che fu il cammino letterario, artistico, filosofico e religioso della cosiddetta ‘età dell’argento’. Si tratta di una lunga riflessione sulle diverse fasi, da quella decadente a quella del simbolismo teurgico, che peraltro si fonda su studi e approfondimenti che il Poggioli aveva già pubblicato o che si accingeva a pubblicare. Oltre ai saggi su Bal’mont, Sologub, Šestov, penso alle traduzioni da Remizov, Bunin e Merežkovskij[xi]. Particolare attenzione è rivolta alla triade Ivanov, Belyj e Blok.
Sui ‘giovani simbolisti’ Poggioli si sofferma con particolare attenzione. Definisce Belyj «seducente maestro d’una loggia massonica e mistica, cieco alla luce dei fatti e sordo alla voce delle catastrofi»[xii], e Ivanov «saggissimo» e «magnifico»[xiii]. Ma è su Blok che poi Poggioli si concentra per scrivere di lui che «la grandezza poetica di Blok fu quella di essere la Cassandra di questa tempesta, e di morire, come Cassandra, vittima del proprio presagio»[xiv]. Interessante qui aggiungere che Mandel’štam dedicò nel 1917 ad Anna Achmatova la lirica A Cassandra (1917).
Ed è al tema della morte che Poggioli tende a collegare l’inizio dell’età del ferro. Scrive perciò di Gumilёv e poi di Esenin e, infine, di Majakovskij. Qui, a me pare, l’interpretazione proposta da Poggioli riproduce quanto aveva scritto due anni prima Roman Jakobson nel saggio O pokolenii, rastrativšem svoich poetov [Su una generazione che ha disperso i suoi poeti, 1931] con tuttavia una evidente omissione, quella del nome di Velimir Chlebnikov. Ricordo che nel suo saggio Majakovskij del 1930 Poggioli aveva contrapposto a Majakovskij Pasternak e Chlebnikov, non celando una propria preferenza proprio per questi ultimi due. Eppure, l’atteggiamento di Poggioli nei confronti dell’avanguardia futurista appare sempre assai distaccato, se non negativo. Egli non amava certamente Majakovskij e nella Violetta notturna ne propone soltanto un testo, Marina da guerra in amore, che insieme al Ditirambo di Igor’ Severjanin costituisce il limitato contributo del traduttore alla diffusione di testi del futurismo russo. Se ne Il fiore del verso russo l’interesse per Majakovskij tese a crescere (Poggioli propose anche il poema Il flauto di vertebre) il destino di Chlebnikov non mutò di molto (Poggioli inserì una sola traduzione: Villa di notte, gengis-khan!). Evidentemente il grande poeta della zaum’ doveva aspettare le traduzioni di A.M. Ripellino per essere pienamente apprezzato anche in Italia. Poggioli si dedicherà a fondo all’avanguardia solo molti anni più tardi nel suo lavoro Teoria dell’arte d’avanguardia (Bologna 1962).
In effetti, come già accennato, accanto agli amati Blok e Esenin, la parte del leone la fa la poesia acmeista, anche se colpisce la stringatezza del frammento dedicato nell’introduzione ad Achmatova, Chodasevič e Mandel’štam. Di loro, lo abbiamo già detto, Poggioli aveva già scritto. Peraltro, Achmatova era in quegli anni oggetto di studio dell’amico e compagno di studi Tommaso Landolfi. Io vorrei concludere questa mia breve disamina soffermandomi proprio sull’interesse manifestato da Poggioli per Mandel’štam, interesse che tuttavia non si apprezza a pieno ne La violetta notturna.
Franco Fortini nel recensire la raccolta Il fiore del verso russo (1949), ebbe a scrivere che da quelle traduzioni Osip Mandel’štam appariva al lettore italiano un «poeta di grande statura»[xv]. Rispetto a quel volume, La violetta notturna non conteneva la lirica Tristia, ma già erano in essa presenti le traduzioni Phèdre, Lupus in Fabula, Sole e miele e Nomen-numen. I titoli alle traduzioni italiane erano stati arbitrariamente attribuiti dal Poggioli secondo la sua prassi traduttiva che poi egli teorizzerà con i concetti di The Added Artificier e Metamorphic translation[xvi]. In concreto si tratta della traduzione dei seguenti testi: «Я не увижу знаменитой ”Федры”...» (1915), «От лёгкой жизни мы сошли с ума...» (1913), «Возьми на радость из моих ладоней...» (1920), «Образ твой, мучительный и зыбкий...» (1912). Su «Circoli. Rivista di Poesia» nel 1931 Poggioli aveva pubblicato il già ricordato saggio Commento a Mandelstam. Nello scritto, alla ricerca di consonanze con la poesia italiana contemporanea, Poggioli parla di Mandel’štam come di un poeta ermetico:
«La poesia di Mandel’stam è ermetica soltanto in parte. L’ermetismo è dunque punto di arrivo, chiave di volta e quintessenza della sua lirica»[xvii].
Un po’ più in basso, egli individua nel ‘mitico’ e nel ‘riflessivo’ i due motivi essenziali della poesia del gran de poeta acmeista.
Concretamente, il mondo lirico di Mandel’štam s’incarnerebbe in immagini ora contenute in forma di aforisma, ora liberate in un accento di rivelazione. Aforisma ed allegoria sono considerati da Poggioli come due elementi lirici contigui.
Poggioli parla inoltre di dialettica della meditazione, dove tempo e morte sono i motivi essenziali.
Nello sviluppo del testo lirico di Mandel’štam il critico individua la dialettica della meditazione. Il tempo e la morte sono i motivi principali di questa meditazione poetica. L’infinito rappresenta il senso del tempo. Al tempo si contrappone la morte, cioè la vita, e solo Pietroburgo può essere il luogo della morte.
Il tempo come negazione del mondo, come infinito e quindi come increato e informe, si traduce nel simbolo della musica. Il celeste e il sublime si incarnano nel tempo in forma di musica. Il Verbo è Dio, e se l’eterno è musica, allora “terrestrità significa silenzio”. L’anima ci dà il senso del canto, mentre il corpo parrebbe inutile prigione. Ma a differenza di Chodasevič che nel contrasto tra anima e corpo fa prevalere l’anima, in Mandel’štam i due termini si mantengono in equilibrio: «io son il fiore e sono il giardiniere…».
Così, Mandel’štam, dice Poggioli, attraversa la «regione della tragedia», «il tempo degli eroi». Da qui il misticismo della passione e dell’impotenza di fronte al sortilegio dello spavento. L’eroe lirico è un «passante disperso» (l’immagine è ripresa dalla poesia di Mandel’štam Il luterano)[xviii], immagine vicina, secondo Poggioli, all’‘uomo di pena’ della poesia Ungaretti. Uomo che sta cercando la salvezza dal tragico nel mondo dell’arte, della rappresentazione.
In Mandel’štam, continua ancora Poggioli, è vivo anche il momento cartesiano. Se la creazione tende alla musica, allora la convenzione mira all’architettura. L’aridità intellettiva di questo gioco s’esercita spesso su una mitologia pedante ed erudita, alla ricerca di sottili parodie e palinodie, rifacimenti e caricature.
È interessante notare di sfuggita come nel suo panorama della letteratura russa, – libro che lo stesso Poggioli cita nel suo articolo – Vladimir Pozner esprima un’opinione simile sulla poesia di Mandel’štam:
«Mandelstam fait disparaitre de son œuvre tout tra ce de romantisme pour le remplacer par un sentimentalisme de grotesque»[xix].
Alcune opere di Mandel’štam, continua Poggioli, ricordano il ‘delizioso ed erudito neoclassico, alessandrino e prezioso’ Michail Kuzmin (opinione anche questa espressa da Pozner), che però nella sua mondanità è lontano dall’atmosfera da laboratorio metafisico e faustiano di questo momento dell’esperienza del nostro poeta.
L’ermetismo di Mandel’štam ricorderebbe sorprendentemente l’ermetismo di Mallarmé: il suo intreccio di leitmotiv sarebbe ciò che Mallarmé chiamava ‘il demone dell’analogia’. Improvvisamente, Poggioli confronta la poesia di Mandel’štam con la pittura di De Chirico e poi passa ad analizzare la poesia Sole e miele. In essa egli evidenzia le parole sole e miele e le definisce parole-pilota, riprendendo il concetto ancora una volta dal libro di Pozner[xx]. Alle api è legato il miele, al sole il suo contrario: l’ombra, e per analogie e contrari Poggioli mette in evidenza tutto un tessuto di ‘nodi-parole’ che, in un moto circolare, ci riconducono all’immagine dell’eterno sole. Ecco un’immagine, un aforisma e un’allegoria. La musicalità si coniuga con la plasticità architettonica. Il poeta è già un demiurgo. Poggioli definisce il poema di Mandel’štam un’opera di ‘realismo magico’, definizione questa assai interessante e che ad oggi non ha ricevuto la dovuta attenzione.
In conclusione, Poggioli riconosce nella convenzionalità la legge del mondo fantastico di Mandel’štam e la sua anima nel mito. Da qui il suo estremo classicismo[xxi]. Da notare che nel saggio introduttivo a Il fiore del verso russo Poggioli non riprenderà queste considerazioni, a parte il confronto con la pittura di De Chirico, e inserirà Mandel’štam non più tra i poeti acmeisti (Neoclassici e neoromantici), ma nella sezione Tradizione e rivoluzione con Chodasevič e Pasternak. In chiusura è necessario precisare che Poggioli poteva all’epoca basarsi soltanto sulle prime raccolte di Mandel’stam, Pietra e Tristia, e anche nel 1949 dubito potesse disporre almeno della raccolta Stichotvorenija [Poesie] del 1928.
In conclusione, possiamo affermare che Poggioli programmò fin dagli esordi una grande antologia della poesia russa e cominciò subito a lavorare a questo progetto, ma già nel 1933 sentì la necessità di proporre una prima scelta concentrandosi sui poeti più vicini nel tempo, in definitiva quelli che lui collegò all’età del ferro, la fine dell’illusione teurgica e la ricerca di una nuova concretezza poetica. Il saggio su Mandel’štam costituisce un tentativo di operare sulla viva carne della poesia del suo tempo, lontano da una prospettiva di rielaborazione storico-letteraria: è un esempio di lavoro di ricerca e non di sistemazione. È questa, a mio avviso, anche la natura de La violetta notturna, lavoro in fieri piuttosto che di sintesi, ma proprio per questo affascinante e ancora vivo tutt’oggi.
NOTE
[i] R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Torino, Einaudi 1949; R. Poggioli, La violetta notturna. Antologia di poeti russi del Novecento, Lanciano, Giuseppe Carabba Editore 1933. Su Renato Poggioli e la sua formazione di slavista cfr. L. Béghin, Uno slavista comparativista sotto il fascismo. Gli anni di formazione di Renato Poggioli (1928-1938), «Archivio Russo italiano» IV (2005) pp. 395-432, e dello stesso Bibliografia di Renato Poggioli (1925-1938), cit., pp. 433-446. [ii] R. Poggioli, Commento a Mandelstam, «Circoli. Rivista di Poesia» I, n. 2 (marzo-aprile 1931) p. 79. [iii] Raissa Naldi Olkienizkaia, Antologia dei poeti russi del XX secolo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1924. Sull’approccio alla traduzione e raccolta della poesia russa in Italia in quegli anni cfr. B. Sulpasso, Canone e antologie poetiche del Novecento 1923-1933: verso ‘La violetta notturna’, «Europa Orientalis» XL (2021) pp. 245-296. [iv] È il caso, ad esempio, delle traduzioni da F. Sologub che come poeta non è rappresentato nella Violetta notturna, ma è presente invece ne Il fiore del verso russo. [v] R. Poggioli, La violetta notturna, cit., p. 11. [vi] R. Poggioli, Il fiore del verso russo, cit., p. 5. [vii] Ibidem. [viii] R, Poggioli, La violetta notturna, cit., p. 13. [ix] Qui naturalmente l’espressione “putëm…železnym” può far sorgere un collegamento al francese chemin de fer. [x] Su questo si veda N. V. Braginskaja, Slavjanskoe vozroždenie antičnosti. Russkaja teorija 1920.1930-e gody, in Materialy 10-ch Lotmanovskich čtenij, Moskva, 2002, Izd. RGGU, pp. 49-80; e in italiano il mio saggio L’opposizione di ‘Rinascenza’ e ‘Decadenza’ (Vozroždenie e Vyroždenie) nell’opera di Nikolaj Bachtin, in Rinascimento e Antirinascimento. Firenze nella cultura russa, Firenze, Leo S. Olschki 2012, pp. 77-88. [xi] Mi riferisco ai volumi A. Remizov, Sorelle in Cristo (Torino, Slavia 1930); I. Bunin, Valsecca (Lanciano, Carabba 1933) e D. Merežkovskij, Gesù sconosciuto (Firenze, Bemporad 1934). Da notare che il libro di Bunin esce sempre nel 1933 nell’anno della Violetta notturna proprio presso lo stesso editore Carabba. [xii] R. Poggioli, La violetta notturna, cit., p. 19. [xiii] Ibidem. [xiv] Ibidem, p. 23. [xv] F. Fortini, Il fiore del verso russo. Un’occasione mancata, «Avanti» 1 dicembre 1949, p. 3. [xvi] R. Poggioli, The Added Artificier, in On Translation, ed. By R.A. Brower, Harvard, Harvard University Press 1959, pp. 137-147. [xvii] R. Poggioli, Commento a Mandelstam, cit., p. 81. [xviii] Mi riferisco alla poesia Ljuteranin del 1912. Su questa poesia si veda il mio saggio: Le immagini del luterano in Tjutčev e Mandel’štam. Due liriche a confronto (in corso di stampa). [xix] V. Pozner, Littérature russe contemporaine, Paris, Editions KRA 1929, p. 261. [xx] Scrive Pozner: ”Mandelstam recueille les mots à leur naissan ce et les entoure d’une nébuleuse d’associations musicales, poétiques, logiques et surtout alogiques <…> Ces mots-pi lotes guident Mandelstam à travers ses poèmes”. Ibidem, p. 264. [xxi] Per un’analisi più dettagliata della lettura di Mandel’štam offerta da Poggioli si veda il mio saggio: Renato Podžioli – perevodčik Mandel’štama (Mosca 2022, in corso di stampa).
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