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« indietro «Una è la chiave del miracolo»: tradurre mantenendo il ritmo.
Ancora su Poggioli traduttore
di Giuseppe Ghini
In una famosa conferenza sulla Commedia, Borges ebbe a paragonare l’unica intonazione poetica di Milton – lo stile sublime – alla varietà musicale che si trova in Shakespeare e Dante. In questi ultimi, sosteneva
la música va siguiendo las emociones. La entonación y la acentuación son lo principal, cada frase debe ser leída y es leída en voz alta. Digo es leída en voz alta porque cuando leemos versos que son realmente admirables, realmente buenos, tendemos a hacerlo en voz alta. Un verso bueno no permite que se lo lea en voz baja, o en silencio. Si podemos hacerlo, no es un verso válido: el verso exige la pronunciación. El verso siempre recuerda que fue un arte oral antes de ser un arte escrito, recuerda que fue un canto[i].
Il mio intervento su Renato Poggioli verte appunto sull’intonazione e sull’accentazione della sua traduzione poetica e, seguendo il consiglio di Borges, mi propongo di leggere a voce alta, come fossero canti, una dozzina di componimenti nell’originale russo e di confrontarli con i corrispondenti ritmi adottati da Poggioli. Un po’ come fanno gli ingegneri del suono, che, analizzando un brano musicale, sono in grado di silenziarne la voce, isolare le diverse sezioni musicali e far scoprire la ricchezza musicale e ritmica che soggiace alla sua dimensione semantica.
Analogamente, vorrei operare come una sorta di ingegnere del suono del Fiore del verso russo di Renato Poggioli. Vorrei abbassare il volume – silenziare non è possibile, né corretto, ovviamente – dell’aspetto semantico delle poesie russe tradotte da Poggioli e fare ascoltare la sua musica, i suoi diversi ritmi, il suo miracolo ritmico. In questo sono mosso anche dalla convinzione che, appunto, senza un ingegnere del suono, gli italiani non sentono il ritmo di una poesia, o lo sentono pochissimo. Mi riferisco qui, occorre precisare, al ritmo in senso prettamente musicale come «successione regolare di una cellula composta di accenti forti e deboli in un dato spazio di tempo»[ii] e non alla vaga e onnicomprensiva definizione del ritmo come «organizzazione delle marche attraverso le quali i significanti, linguistici ed extralinguistici (nel caso della comunicazione orale soprattutto) producono una semantica specifica, distinta dal senso lessicale» data da Henri Meschonnic[iii].
La scarsa sensibilità al ritmo è dovuta – ritengo – alle caratteristiche della metrica italiana, metrica che ognuno di noi, volente o nolente, interiorizza. Naturalmente i 14.233 versi della Divina Commedia hanno un certo ritmo: il fatto che presentino tutti un ictus sulla decima sillaba, che siano cioè segmenti identicamente accentati sulla decima, fa sì che abbiano un ritmo. Due elementi, tuttavia, riducono la carica ritmica della Commedia: anzitutto, il fatto che i suoi endecasillabi presentino una grande varietà di modelli di accentazione – almeno 20, stando a una recente ricerca che segue la scansione dell’Archivio Metrico Italiano, se non si contano i modelli con contraccento[iv]; in secondo luogo, il fatto che la metrica italiana sia sostanzialmente sillabica, basata cioè su una cellula – la sillaba – di per sé priva di ritmo, com’è invece il piede[v].
A partire dal XVIII secolo invece, gli inventori della metrica russa rielaborano in chiave tonica il piede della metrica quantitativa classica, dando vita a una metrica sillabo-tonica[vi]. Questo significa che il verso regolare russo per tutto il corso dell’800 e comunque fino a che non si indebolisce il suo rigore metrico, presenta un ritmo ben più marcato dell’italiano. Il piede, infatti, che costituisce l’unità minima del verso, è dotato di un suo ritmo, e questo ritmo si ripete per un certo numero di volte all’interno del verso e in ogni verso (salvo laddove viene sostituito da piedi senza accenti – pirrichio o tribraco – che non confermano esplicitamente, ma neanche ne contraddicono il ritmo). Il ritmo diventa così una componente fondamentale della metrica russa. Tanto fondamentale che Jurij Tynjanov apre il suo Il problema della lingua poetica con un capitolo dal titolo Il ritmo come fattore costruttivo del verso[vii]. Per ché è certo evidente che in poesia «tutto significa»[viii], e che «l’opera letteraria, poetica o prosastica che sia, si costruisce a più livelli [e] che essi (tematico, simbolico, ideologico, stilistico o discorsivo, morfosintattico, lessicale, fonico-timbrico, ritmico, metrico) vadano relazionati è programma ormai così dichiarato dai tempi dei formalisti russi ad oggi da considerarsi una costante della moderna riflessione ed attività critica»[ix]. E tuttavia è altrettanto chiaro che questi diversi livelli che interagiscono tra loro sono organizzati, almeno nella poesia russa, in maniera gerarchica e che il ritmo costituisce «il fattore costruttivo [che] deforma i livelli che gli sono soggetti»[x].
Ai traduttori italiani si presenta dunque il problema già individuato da Ėtkind[xi] e più recentemente da Eco[xii]: individuata una dominante – il riferimento, evidentemente, è alla definizione di Jakobson – non potendo prendere in considerazione tutti gli elementi formali, è lecito per il traduttore prescindere da questa componente così significativa? La risposta dei due studiosi è negativa: il traduttore dovrebbe privilegiare l’elemento dominante.
Si potrebbe pensare che nell’individuazione della dominante, tanto Tynjanov, quanto Ėtkind ed Eco, abbiano agito in modo arbitrario, che cioè la loro sia stata una scelta più che una scoperta. In realtà, la tesi della centralità del ritmo non è un’affermazione solo della traduttologia: essa riceve infatti piena conferma dalla critica letteraria e soprattutto dalla pratica della traduzione, per esempio dalla riflessione metatraduttiva di coloro che hanno reso in italiano l’Onegin di Puškin. Lo Gatto, Giudici, Pia Pera, tutti concordemente affermano di voler rendere in italiano proprio il ritmo dell’originale. Lo afferma perfino Eridano Bazzarelli nel presentare la sua versione in prosa, tanto è avvertita la centralità del ritmo[xiii].
E ne è un’ulteriore riprova il fatto che diversi traduttori, dagli anni Trenta del Novecento ad oggi, si siano appunto sforzati di rendere quel ritmo in lingua italiana: Poggioli, Küfferle, Landolfi ecc[xiv].
Nel caso di Poggioli, quella che ha identificato come dominante, e che pertanto ha deciso che non poteva essere esclusa dalla ‘scommessa interpretativa’, è l’intera dimensione metrico-ritmica (compresa la rima, ripetizione di suoni a partire dall’ultima sillaba accentata di un verso, la quale rappresenta anch’essa, stando all’analisi di Tynjanov ma anche alla definizione musicale sopra riportata, una componente del ritmo). Ha deciso di conservarla a costo di qualche inevitabile sacrificio dell’aspetto semantico, anche perché, dal momento che la lingua italiana è più lunga di un 15% rispetto alla lingua russa, la strategia di Poggioli di mantenere nelle sue versioni lunghezza e ritmo del verso russo risulta davvero ardua.
Date queste premesse, ho deciso di mostrare la strategia di Poggioli in tutta la sua varietà e ricchezza: non selezionando una singola poesia e analizzandola in profondità, bensì verificando l’estensione di questa strategia nel Fiore del verso russo (che nella sua interezza apparve per la prima volta nel 1949). Questo lavoro non può naturalmente prescindere dalla prima analisi complessiva dei metri utilizzati da Poggioli nel Fiore, analisi fornita da Alessandro Niero nel 2019[xv]. Contemporaneamente, mentre riprende quell’analisi profonda e imprescindibile, ne discute in specifico alcuni risultati puntuali e prova ad approfondirne gli aspetti metrico-ritmici e, soprattutto, a dar loro voce e intonazione anche grazie ai rimandi ai file mp3.
La prima poesia è di Puškin, si intitola Čto v imeni tebe moëm? e risale al 1830[xvi]. Il poeta russo utilizza qui la tetrapodia giambica (U– U– U– U– U)[xvii], nesso che esprime compiutamente la dimensione metrico ritmica del componimento[xviii]. Poggioli (Fiore 600)[xix] adotta un novenario anch’esso giambico (traduzione isometrica e isoritmica) e costruisce strofe perfettamente corrispondenti all’originale dal punto di vista rimico: così che, quando la rima incrociata ABBA delle prime due strofe passa a rima alternata ABAB, anch’egli modifica la sua traduzione. Da notare ancora che Poggioli adotta anche l’accento extraschemico in anacrusi (i versi che iniziano con Čto in russo – il verso che inizia con giorno in italiano) e alcuni enjambement dell’originale. Morirà esso, invece, è un esempio di contraccento che la metrica russa non consente, ma che è funzionale invece a una resa italiana più mossa (ricordiamo che l’italiano non dispone della ricchezza di rime tronche – maschili – del russo, e infatti presenta tutti versi piani). I testi si possono ascoltare, in versione originale e in italiano, nei file audio al link indicato.
Anche i successivi due brani, di cui presento solo l’incipit, appartengono a Puškin e sono composti in tetrapodie giambiche. Il primo di questi brani, Il poeta e la folla, venne pubblicato nel 1828[xx], mentre il cosiddetto Cantico del presidente nel 1832[xxi]. Anche in questi due casi (Fiore 593; 596), la scelta di Poggioli ricade sul novenario giambico, segno di una strategia ormai consolidata. Da notare, nel secondo caso, il cambiamento costante della struttura rimica da AABCBC a ABABCC.
Pagato il debito alla tetrapodia giambica, verso principe della poesia russa dell’800, se è vero che il 55% dei versi di Puškin, come pure il 53% di quelli di Lermontov e il 68% di quelli di Baratynskij sono composti in questo metro, è tempo di vedere la strategia di Poggioli di fronte ad altri ritmi. Dar naprasnyj, dar sluč ajnyj è una delle più famose liriche di Puškin[xxii], scritta in tetrapodie trocaiche (–U –U –U –U) in occasione del suo ventinovesimo compleanno, il 26 maggio 1828 e pubblicata due anni dopo. Colma di pessimismo, la poesia ricevette una degna risposta, anch’essa in tetrapodie trocaiche, dal metropolita di Mosca Filarete. Il ritmo trocaico fa evidentemente arretrare gli accenti di una sillaba e Poggioli adotta con seguentemente un ottonario trocaico (Fiore 599). Da notare le ‘forzature’ a cui il traduttore sottopone il suo testo al fine di mantenere una versione isoritmica: la ‘perdita’ dell’importante ripetizione di dar [dono] del primo verso, della contrapposizione duša-um [anima-mente] nella seconda strofa e di toska [angoscia] nel penultimo; l’inserimento di un raro niuno nella terza strofa, ecc[xxiii].
Il fiore del verso russo presenta un’unica lirica di Nikolaj Alekseevič Nekrasov, Utro [mattina] del 1874[xxiv]. Il metro russo è una tripodia anapestica (UU– UU– UU– U) per la quale Poggioli sceglie un decasillabo ugualmente anapestico, per preservare il quale ‘sacrifica’ l’unità semantico-sintattica del primo verso in favore di un enjambement, e impone una lettura di esempio o squallide (II strofa) e cielo (III strofa) con dieresi.
Dal momento che stiamo esplorando il confine tra poesia ritmica e canto può essere interessante notare che il ritmo anapestico non è rimasto estraneo a quell’oratoria musicale che è il rap. Come nota infatti Luca Zuliani riferendosi all’ambito italiano, il rap «spesso presenta in maniera più marcata rispetto alla canzone cantata […] la tendenza a misurare il tempo sugli accenti, ossia a costruire la propria struttura su successioni regolari di accenti linguistici, (indotti dal ritmo sottostante)»[xxv]. Così, The way I am di Eminem, non a caso, è un perfetto esempio di trimetro anapestico e come tale può essere utilizzato per insegnare la metrica versale[xxvi]. Così non deve stupirci che questa poesia di Nekrasov sia stata presentata in forma di rap straordinariamente efficace.
Puškin e Nekrasov appaiono nell’appendice del Fiore del verso russo in qualità di Antecedenti. Questo perché l’antologia di Poggioli è centrata sui poeti del Novecento, il primo dei quali è K. Bal’mont. La poesia Bezglagol’nost’, del 1903[xxvii], presenta una tetrapodia anfibrachica (U–U U–U U–U U–U) per la quale il tra duttore sceglie un analogo dodecasillabo anfibrachico (Fiore 215), un ritmo che pare sottolineare la tenerezza spossata del primo verso, il languore profondo della terza strofa.
Una delle più note liriche di Aleksandr Blok, Nezna komka [La sconosciuta], venne pubblicata nel 1908[xxviii]. La tetrapodia giambica dell’originale alterna qui clausole dattiliche a versi maschili (U– U– U– U– U U / U– U– U– U–), e corrispondentemente Poggioli sceglie novenari giambici in cui versi sdruccioli si alternano a rari versi tronchi (Fiore 314-315). Si tratta di preziosi novenari che riprendono perfettamente lunghezza, ritmo e rime/assonanze del testo di Blok. Per mantenere questa adesione alla dominante ritmica, il traduttore è disposto a perdere alcuni elementi della sfera semantica (gorjačij, dik, vesennij), a modificarne profondamente altri (dissipa), a introdurne addirittura di nuovi (offuscano), a giocare con rime ardite (dernier cri / dandì). Dalla strofa finale di questa poesia viene il titolo che ho scelto per la mia relazione: Una è la chiave del miracolo: […] / nel vino sta la verità.
Zvёzdnyj užas [Lo spavento stellare] è un poema che Nikolaj Gumilev pubblicò su un almanacco nel 1921, l’anno stesso della sua morte[xxix]. È scritto in pentapodie trocaiche senza rime (–U –U –U –U –U) che Poggioli sceglie di rendere con decasillabi trocaici pure senza rime (Fiore 365-371). Notiamo anche in questo caso la scelta di un raro il lepre che consente al traduttore di guadagnare una sillaba e mantenere il metro decasillabico grazie alla sineresi come il lepre che l’uso del femminile la lepre/una lepre non avrebbe reso possibile.
Delle cinque liriche di Anna Achmatova antologizzate da Poggioli due sembrano particolarmente interessanti ai nostri fini. La prima è la giovanile Dver’ poluotkryta…, del 1912[xxx], che il traduttore sceglie di rendere con L’uscio spalancato (Fiore 398) forse per esigenze di rima (nell’originale la porta è semi-aperta). Scritta in tripodie trocaiche viene resa con senari trocaici e rime corrispondenti ( –U –U –U)[xxxi].
Anche la seconda lirica presenta un ritmo trocaico, esteso questa volta a 4 piedi ( –U –U –U –U), per il quale Poggioli opta per un ottonario anch’esso trocaico, metricamente simile a quello della celebre Canzona di Bacco di Lorenzo De’ Medici. Da notare che le esigenze ritmiche impongono al traduttore una doppia negazione – ed a nulla non pensare – tanto comune in russo, quanto rara in italiano.
La ballata di Vladislav Chodasevič dall’incipit Sižu osveščaemyj sverchu del 1922[xxxii] è costruita con tripodie anfibrachiche (U–U U–U U–U) che Poggioli restituisce con un novenario anch’esso anfibrachico (Fiore 416-417). L’attenzione alla dominante ritmica è confermata ancora una volta dalla scelta di lessemi non sempre in linea con l’originale (kruglyj può sicuramente dire molte cose – rotondo, intero – ma certo non fedele; šestnadcat’ è chiaramente sedici e non venti), dall’adesione alle variazioni dattiliche del testo (e musica, musica, musica / e perfida, perfida, perfida) della sesta strofa, nonché dalla rima seguita solo dov’è presente nel russo (versi pari).
Analoga alla pentapodia trocaica del brano di Gumilëv è l’unica lirica di Georgij Ivanov (V seredine sentjabrja pogoda, 1921)[xxxiii] che il Fiore del verso russo presenta (435) e che Poggioli nuovamente rende con un decasillabo trocaico (–U –U –U –U –U ) e con attenta mimesi delle rime alternate[xxxiv].
Nell’ampia raccolta di poesie di Esenin, il Fiore (549-550) presenta un brano con tripodie anapestiche in rima alternata (UU– UU– UU– U): Sukin syn [Il figlio della cagna], del 1924[xxxv]. Poggioli sceglie di renderlo con corrispondenti decasillabi anapestici, a costo di trasformare la camomilla del secondo in verso in un raro plurale femminile le prata.
L’ultimo esempio che vorrei presentare è ancora diverso. In Naš marš[xxxvi], che Majakovskij scrive nel 1917 in pieno clima rivoluzionario, il poeta fa uso di un akcentnyj stich[xxxvii], un verso che si caratterizza unicamente per il numero di accenti, che possono essere intervallati da 1, 2, 3 o anche più sillabe. Siamo qui evidentemente di fronte a un indebolimento del rigore metrico del verso e questo indebolimento sembra minare anche le certezze metriche di Poggioli. La resa dei trisillabi martellati dei versi 5 e 7 (Dnej byk peg / Naš bog beg) con due versi sostanzialmente fluidi come Gaio è il pelo dei giorni / Dio è una cosa senza ritorno, pur nella libertà del verso accentato, mostra quanto a Poggioli sia più congeniale la traduzione dei metri classici russi.
Dovrebbe essere a questo punto chiara la strategia traduttiva di Poggioli: stabilita la dominante ritmica della poesia russa, lo slavista fiorentino sceglie di rendere la complessità metrico-ritmico-rimica del testo originale, adattando il verso italiano ai giambi, trochei, anapesti, anfibrachi e dattili organizzati in tripodie, tetrapodie, pentapodie. La resa è straordinaria per flessibilità, coerenza e ampiezza: davvero, in questa «trasmutazione ritmica»[xxxviii] ‘si sente’ il verso e il ritmo russo dietro il verso e il ritmo del testo italiano!
Chiudo con una nota personale. La strada tracciata da Poggioli, strada ardua e difficile, non è stata percorsa da molti, soprattutto in epoca recente. Spinto dallo studio delle traduzioni di Poggioli, ormai 15 anni fa, ho deciso invece di avventurami in questa direzione e di approntare una traduzione in novenari giambici dell’Onegin che Puškin aveva reso in tetrapodie giambiche. Era una cosa che, secondo Poggioli, si poteva fare? In una sua recensione critica alla traduzione in endecasillabi di Lo Gatto, Poggioli affermava esplicitamente che una soluzione diversa da quella del classico endecasillabo si può adottare «per dei frammenti sì, per l’intero poema no. È evidente che non si poteva continuare, seguendo uno schema ritmico contrario allo spirito della nostra lingua, per oltre quattrocento strofe e per cinque o seimila versi: e in fondo il Lo Gatto ha fatto bene a fare di necessità virtù»[xxxix]. Lascia tuttavia aperta la possibilità a «un nuovo eventuale traduttore»[xl].
Ecco: il mio Onegin[xli], pur con i limiti legati alla mia limitata competenza, segue la strada tracciata da Poggioli e testimonia contemporaneamente la vitalità del suo insegnamento a tanti anni di distanza. In parte questionando idealmente con lui – ho sacrificato le rime, tanto per fare un esempio – ho provato infatti ad adottare una strategia che, pur nella diversità, segue appunto la traccia lasciata da questo grande studioso e traduttore. In un senso che ritengo non improprio, mi considero un allievo di Poggioli traduttore.
Perché, dopo tanti anni in università una cosa mi è chiara: molti sono i professori, pochissimi i maestri, quelli che ti possono lasciare un insegnamento, un segno, quelli in grado di ispirare e formare degli allievi. Ma perché i maestri come Poggioli possano continuare nel loro magistero è necessario ascoltare la loro voce, studiare il loro lavoro e diffonderne i principi. Quello che, appunto, stiamo facendo qui, oggi.
NOTE
[i] J.L. Borges, Siete noches, México D.F., Editorial Meló 1980, p. 4. [ii] È questa la definizione generale che viene usualmente premessa alle diverse teorie musicali: cfr. per es. B. Polacchi, Corso base di teoria musicale, Cervia, Blu editore 2017, p. 38; per una discussione più approfondita cfr. L. Azzaroni, Canone infinito. Lineamenti di teoria della musica, Bologna, Clueb 1997, p. 185. [iii] Cfr. H. Meschonnic, Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Lagrasse, Verdier 1982, p. 216; cfr. anche G. Dessons – H. Meschonnic, Traité du rythme: des vers e des proses, Paris, Dunod 1998. [iv] Cfr. U. Conti, Per uno studio ritmico-sintattico della terza rima: prime osservazioni sulla ‘Commedia’ dantesca, Tesi di dottorato di ricerca in Italianistica, Università degli Studi di Firenze 2020, p. 120. Occorre aggiungere, come mi suggerisce lo stesso Conti che qui ringrazio di cuore, che tra quei venti modelli di accentazione dodici presentano inoltre una 4a sillaba accentata e otto una 6a sillaba accentata, con il risultato di avere una accentazione su 4a, 6a e 10a in 6 dei 20 modelli sopra citati. Ciò che può forse indurre a parlare di una certa tendenza ritmica su 4a e 6a sillaba nella struttura versale della Commedia. [v] Una discussione più articolata della questione si può trovare nel mio Tradurre l’Onegin, Urbino, Quattroventi 2003, pp. 20 26. Il primo capitolo del libro di Luca Zuliani (L’italiano della canzone, Roma, Carocci 2018) spiega efficacemente questa scarsa sensibilità al ritmo musicale in termini di contrapposizione tra isocronia sillabica italiana e isocronia accentuale inglese. [vi] Per una sintesi dell’evoluzione della metrica russa cfr. S. Garzonio, La metrica russa, in Storia della Civiltà Letteraria Russa, v. II, Torino, Utet 1997, pp. 617-634. [vii] Ju.N. Tynjanov, Problema stichotvornogo jazyka, Leningrad, Academia 1924, p. 7. [viii] M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani 1976 p. 108. [ix] Ibidem, p. 125. [x] Ju.N. Tynjanov, cit., p. 120. [xi] E. Ėtkind, Poėzija i perevod, Moskva-Leningrad, Sovetskij pisatel’ 1963, p. 41. [xii] U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano 2003, p. 53. [xiii] Cfr. G. Ghini, La lotta con l’angelo. Per una traduzione ritmica dell’Onegin, v: Russkaja literatura v rossijsko-ital’janskom dialoge XXI v.: kritika teksta, poėtika, perevody, Moskva, IMLI RAN 2020, pp. 21-22. [xiv] Ibidem, p. 24. Sulla traduzione di Küfferle rimando naturalmente a S. Fumagalli, La lettera di Tat’jana a Onegin nella versione ritmica di Rinaldo Küfferle. Note di presentazione, analisi e contesto, v: Russkaja literatura v rossijsko-ital’janskom dialoge XXI v.: kritika teksta, poėtika, perevody, Moskva, IMLI RAN 2020, pp. 38-49. [xv] Mi riferisco, evidentemente, al ricchissimo capitolo intitolato: Il fiore del verso russo di Renato Poggioli, visibilissimo traduttore, in A. Niero, Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi, Macerata, Quodlibet 2019, pp. 107-183. [xvi] A.S. Puškin, Polnoe sobranie sočinenij v 10 tt., Leningrad, Nauka 1977-79. T. 3 Stichotvorenija 1827-1836, p. 155. [xvii] Indico con U le sillabe atone e con – quelle toniche. Il piede giambico è pertanto reso graficamente così: U–. L’ultimissima sillaba atona del verso, che è aggiunta ai quattro piedi giambici, può esserci – verso cosiddetto femminile russo corrispondente al nostro verso piano – oppure non esserci – verso maschile russo corrispondente al nostro verso tronco. L’osservazione va estesa a tutti i metri russi presentati nel testo. [xviii] Nella tabella in cui confronta metri originali e metri della traduzione, Niero definisce i primi tre metri di Poggioli che qui presento «novenari (4a, 8a)», mentre i versi della traduzione di Dar naprasnyj, dar slučajnyj vengono qualificati come «otto nari (3a, 7a)» (A. Niero, cit., pp. 124-125). Si tratta, mi pare, di una prima approssimazione tutta interna alla metrica italiana, che poi lo stesso Niero riprende e corregge, quando parla di «come Poggioli disponesse di una abilità di versificazione non comune e si permettesse, sul patrimonio metrico della tradizione italiana saldamente padroneggiato, di innestare suggestioni straniere in una sorta di contaminatio che riempie di senso compiuto ibridi definitorii come ‘novenario giambico’ e consimili» (Ibidem, pp. 138-139. Cfr. anche le pp. 130-133 dove l’Autore tratta in specifico della mimesi dell’ottonario italiano sul modello della tetrapodia trocaica russa). Confortato una volta di più da questa osservazione, continuerò ad adottare le definizioni ibride, appunto, che ho sempre utilizzato per descrivere i metri adottati da Poggioli nelle traduzioni dal russo. Poggioli, mi pare di poter affermare, si poneva infatti di fronte all’opera versificatoria non con l’approccio del poeta italiano che ha in mente l’ottonario con accenti di 3a, 7a ed eventualmente lo «ipertrocaizza» aggiungendovi accenti sulle altre sillabe dispari, oppure che ha in mente il novenario con accenti di 4a e 8a e lo «ipergiambizza» aggiungendovi accenti sulle altre sillabe pari (Ibidem, p. 133); no, nel creare versi italiani, a me pare, Poggioli ha in mente ritmi trocaici e giambici, con il loro gioco di pirrichi e di accenti in anacrusi, esattamente come un poeta russo. E si consente, in sopraggiunta, la libertà del contraccento proprio della metrica italiana. Solo così si spiegano novenari come Un vate con negletta mano e Chiamata dalla messe agreste, che non presentano accenti di 4a, ma solo sulla 2a, la 6a e 8a. Merita qui un rimando anche il testo di L. Organte, Poesia e traduzione a Firenze (1930-1950), Padova, Libreria Universitaria 2018: se pure dal punto di vista tecnico non aggiunge nulla all’articolo di Alessandro Niero, inquadra tuttavia l’opera di Poggioli nella tradizione della traduzione poetica fiorentina degli anni Trenta e seguenti, preliminarmente indagata da Macrì e che lo stesso Niero tratta nel paragrafo 4.19. [xix] D’ora in avanti rimanderò in questo modo alle pagine del Fiore del verso russo, Milano, Mondadori 1991. [xx] A.S. Puškin, T. 3 Stichotvorenija 1827-1836, cit., p. 85-86. [xxi] A.S. Puškin, T. 5 Evgenij Onegin, Dramatičeskie proizvedenija, cit., p. 351-359. [xxii] A.S. Puškin, T. 3 Stichotvorenija 1827-1836, cit., p. 59. [xxiii] Sono quegli «accomodamenti dettati dalla costruzione del ritmo» che tanto irritarono alcuni dei primi recensori del Fiore (cfr. A. Niero, cit., p. 145). [xxiv] N.A. Nekrasov, Polnoe sobranie sočinenij i pisem v 15 tt., Leningrad, Nauka 1982. T. 3 Stichotvorenija 1866-1877, pp. 117-118. [xxv] L. Zuliani, cit., p. 118. [xxvi] T.C. Hunley, Teaching poetry writing. A five-canon approach, Clevedon-Buffalo-Toronto, Multilingual Matters 2007, pp. 71 72. [xxvii] K.D. Bal’mont, Polnoe sobranie stichov. T. 4. Izdanie 3., Moskva, Skorpion 1913, p. 91. [xxviii] A.A. Blok, Polnoe sobranie sočinenij i pisem v 20 tt., Moskva, Nauka 1997–. T. 2 Stichotvorenija. Kniga vtoraja (1904-1908), pp. 122-123. [xxix] N.S. Gumilëv, Polnoe sobranie sočinenij v 10 tt., Moskva, Voskresenie 1999–. T. 4 Stichotvorenija. Poėmy (1918-1921), pp. 107-113. [xxx] A. Achmatova, Sočinenija v 2 tt., Moskva, Chudožestvennaja literatura 1986. T. 1 Stichotvorenija i poėmy, p. 27. [xxxi] Anche in questo caso la definizione ibrida ‘senario trocaico’ per il verso scelto di Poggioli permette di spiegare versi come Il frustino e un guanto, oppure Chi ha dimenticato che una definizione tutta interna alla metrica italiana non consentirebbe. Il primo ha infatti accenti sulla 3a e la 5a, mentre il secondo ha solo un accento sulla 5a. Più adeguata mi sembra dunque una descrizione dei due versi come senari trocaici costruiti alla russa l’uno con pirrichio sul primo piede, l’altro addirittura con due pirrichi. [xxxii] V.F. Chodasevič, Sobranie sočinenij v 4 tt., Moskva, Soglasie 1996. T. 1 Stichotvorenija. Literaturnaja kritika 1906-1922, pp. 241-242. [xxxiii] G.V. Ivanov, Sobranie sočinenij v 3 tt., Moskva, Soglasie 1994. T. 1 Stichotvorenija., p. 213. [xxxiv] Anche in questo caso l’ibrido definitorio ‘decasillabo trocaico’ intende spiegare il procedimento di Poggioli che non parte, a me pare, da un ottonario classico italiano per orientarsi poi su soluzioni rare come quelle di un Chiabrera, ma si immerge piuttosto nella costruzione metrica russa e la trasferisce nella metrica italiana. [xxxv] S.A. Esenin, Polnoe sobranie sočinenij v 7 tt., Moskva, Nau ka-Golos 1995–2005. T. 4 Stichotvorenija., p. 207-208. [xxxvi] V.V. Majakovskij, Polnoe sobranie proizvedenij v 20 tt., Moskva, Nauka 2013–. T. 1 Stichotvorenija. 1912-1923, p. 115. [xxxvii] La definizione di Niero «dol’niki a 3/4 ictus» (cit., p. 121) mi pare solo formalmente diversa dalla mia. [xxxviii] È l’indovinata definizione sintetica del metodo di Poggioli dovuta alla penna di Alessandro Niero. [xxxix] R. Poggioli, Nota su alcune versioni italiane dalla poesia di Pushkin, «Letteratura» I.3 (1937) pp. 134-135. [xl] Ibidem, p. 135. [xli] A.S. Puškin, Evgenij Onegin, Milano, Mondadori 1922. ¬ top of page |
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