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Il flauto di canna di Renato Poggioli tra ‘ideale pastorale’ e pastorali americane
 
di Carla Francellini
 
L’opera critica di Renato Poggioli – complessa e multiforme come, del resto, la personalità di questo «intellettuale dal profilo spiccatamente internazionale e cosmopolita»[i] – è chiaramente leggibile come un progetto unico, che, sebbene declinato su diversi fronti, mira ad un’ampia ridefinizione della cosiddetta ‘world culture’. Il suo lavoro ininterrotto di slavista, italianista e comparatista dotato di grande senso del passato e di una spiccata propensione a immaginare il futuro degli studi letterari gli consente di individuare e diffusamente esplicitare nei suoi scritti una fitta rete di interconnessioni tra tradizioni culturali diverse e, solo apparentemente, lontane nel tempo e nello spazio.
 
Poggioli had become a genuine comparatist who took all Western literature for his province. He saw it from a high vantage point, with a contemporary sensibility, but also with a strong sense of the past, of the nature of classicism, of the whole Italian tradition since Dante in his bones, while fascinated by the newest of the great literatures: Russian[ii].
 
Nella scrittura di Poggioli idea e azione si sovrappongono secondo una dinamica che caratterizza anche i suoi saggi sull’avanguardia e sulla pastorale, in cui non manca di mettere in guardia il lettore rispetto ai pericoli di una cultura letteraria in cerca di rifugio nei paradisi (anche pastorali) di evasione. Il suo progetto di rinnovamento culturale, indirizzato essenzialmente ai lettori e agli studiosi di domani, sorprende e coglie impreparati gli intellettuali italiani, perplessi di fronte a metodi e prospettive ancora inediti nel panorama internazionale[iii], finendo così per aumentare la distanza emotiva tra Poggioli e l’Italia e, purtroppo, anche viceversa. I principi ispiratori della sua ricerca – già rintracciabili nelle prime prove, dall’introduzione critica a La violetta notturna (1933), poi ripubblicata in «Solaria»[iv], a Pietre di Paragone (1939), a Il fiore del verso russo (1949) – si fanno più espliciti in Teoria dell’arte d’Avanguardia (1963) – «lo studio che ha affermato in maniera più duratura la [sua] fama […] come comparatista e teorico della letteratura»[v] – e poi in Poets of Russia. 1890-1930 (1960), il cui ruolo essenziale nella diffusione della poesia russa in Italia è ormai indiscusso. Sono presenti a maggior ragione anche negli scritti su cui stava lavorando al momento della sua tragica scomparsa nel 1963[vi]. Si pensi, in particolare, a The Oaten Flute e The Autumn of Ideas, il primo concepito come una trattazione monumentale della pastorale – considerata non solo come genere, ma anche come modalità del pensiero –, e il secondo come una monografia sulla nozione di decadenza, da intendersi come negazione del mito classico dell’età dell’oro, un ideale opposto eppure, per certi versi, complementare a quello pastorale[vii].
Nella prefazione al volume postumo The Spirit of the Letter. Essays in European Literature (1965) – che raccoglie a due anni dalla scomparsa dello studioso saggi fondamentali come «Tragedy or Romance? A Reading of the Paolo and Francesca Episode in Dante’s Inferno» – l’amico e collega di Harvard, Harry Levin insiste proprio sul valore monumentale della ricerca di Poggioli sulla pastorale. I suoi saggi sull’argomento confluiranno – almeno in parte – nella raccolta pubblicata postuma The Oaten Flute, curata da Bartlett Giamatti nel 1975 e caratterizzata stranamente da un’organizzazione storico-letteraria del materiale, inusuale in uno studioso quasi sempre sbilanciato verso l’analisi tematica delle opere[viii].
Se Theory of the Avant-Garde può essere certamente definito «a brilliant scheme which fully exploits his knowledge of all Western literature and pertinently reflects on the whole phenomenon of modernism and the alienation of the artist in a social context»[ix], The Oaten Flute è piuttosto una trattazione scientifica della pastorale, un genere al centro di importanti studi critici tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Tra questi, ricordiamo i lavori di Edmund K. Chambers, Jeannette Marks e Walter Greg, che sottolineava, in particolare, la continuità organica e la permanenza del genere in culture ed epoche diverse[x]. Di fatto, la pastorale non subì mai il destino di diventare arcaica o obsoleta[xi], come dimostrano i numerosi tentativi di darne una definizione univoca, tra cui vale la pena di menzionare almeno English Pastoral Poetry (1952) di Frank Kermode o The Machine in the Garden di Leo Marx (1964)[xii]. Quest’ultimo, in particolare, distingueva la pastorale ‘sentimentale’ – caratterizzata da un atteggiamento positivo di fronte a scenari naturali gradevoli – da quella ‘complessa’ – in cui alla visione ideale della natura si giustappone quella reale e concreta. Annabel Patterson, alla fine degli anni Ottanta, analizzava i diversi usi che della pastorale sono stati fatti in epoche diverse a partire dal ‘pre-testo’ per eccellenza costituito dai carmi bucolici di Virgilio, mentre J.M. Coetzee accusava il genere di aver perso la sua carica rivoluzionaria e di sostenere più che sfidare l’ordine precostituito[xiii]. La pastorale finisce così anche al centro dell’ampio e controverso dibattito sulla poetica postcoloniale, da cui provengono alcune prove letterarie piuttosto significative nel genere per mano di scrittori caraibici, australiani, irlandesi, nigeriani e sudafricani[xiv]. Negli anni Novanta, dagli studi di Lawrence Buell e Paul Alpers – convinto quest’ultimo della necessità di restringere il significato del termine solo ai racconti rappresentativi della difficile vita dei pastori – emerge, non a caso, la duttilità e la multi-valenza ideologica della pastorale, un genere conservatore e rivoluzionario allo stesso tempo, non privo al suo interno di contraddizioni e istanze ossimoriche[xv].
Nel panorama critico di cui abbiamo voluto offrire una rapida e, necessariamente incompleta, rassegna, lo studio di Poggioli – facendo affidamento sulla lucidità del filologo e sull’equilibrio critico del comparatista di formazione europeista – anticipa, di fatto, molte delle direttrici di ricerca sulla pastorale che si svilupperanno nei decenni successivi. Il critico disegna, infatti, la parabola di un genere che, provenendo dalla classicità, arriva ad imporsi come sostrato, sempre attivo e fertile, della letteratura moderna e contemporanea. Individua, inoltre, con precisione chirurgica tutti gli elementi caratterizzanti della scrittura pastorale e ne preconizza le potenzialità, toccando in modo non sempre esplicito le grandi questioni – la marginalità del mondo rurale, la nascente problematica ecologica, il mondo dei pastori come utopia, il ‘ritiro nella natura’ come modalità di contrastare l’alienazione, e molte altre – ancora oggi al centro del dibattito critico. Non a caso, «The Oaten Flute» – intendo la prima versione del saggio, quella pubblicata su «Harvard Library Bulletin» nel 1957 – viene citato nella prestigiosa Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics (1965) sotto la voce dedicata alla pastorale come ultimo studio critico di rilievo in ordine cronologico dopo i lavori di J.E. Congleton, E. Wasserman, M.K. Bragg, E.C. Knowlton, W.W. Greg, N. Drake[xvi].
Prima di entrare nel merito dell’analisi letteraria degli scritti di Poggioli, tuttavia, sembra opportuno riflettere sull’eventuale rapporto tra la complessa vicenda biografica dello studioso e l’oggetto della sua ricerca, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Che la scrittura propria del genere pastorale – anche quella teoricocritica – possa incidentalmente evidenziare punti di contatto con quella di matrice diasporica, incentrata sulle problematiche del displacement[xvii], è comunque un’ipotesi suggestiva. Del resto, l’Arcadia, che nulla ha a che fare con la terra d’origine, resta un luogo dalle coordinate spaziali imprecisate – le cui origini si perdono nella notte dei tempi della classicità – che, proprio per questo, si presta a divenire il luogo dell’‘in-betweeness’. Anche i testi letterari che Poggioli scelse come oggetto della sua indagine potrebbero fornire un’indicazione, per quanto vaga e indiretta, della misura in cui l’autopercezione di essere un ‘espatriato’ possa aver influenzato le sue scelte di critico. Dal 1938, in fatti, l’intellettuale fiorentino aveva lasciato l’Europa e si era trasferito negli Stati Uniti accettando in un primo momento un incarico di insegnamento presso lo Smith College da cui avrebbe poi preso l’abbrivio la sua brillante carriera di italianista a Brown University, di slavista, e presto di comparatista a Harvard. Questo ‘esilio’ volontario – sostiene Mattia Acetoso – era per lui quasi una condizione psicologica – «that of an uprooted intellectual, whose physical and cultural delocalization obliges him to re-contextualize his own roots in the new ground of a cultural project» –, un’utopia in sé e per sé, che trova la sua realizzazione solo ed esclusivamente nel progetto di rinnovamento culturale di cui abbiamo già trattato[xviii]. La sua naturale «inclinazione a favorire il dialogo tra le opere letterarie, e attraverso queste, tra le culture cui appartengono»[xix], gli consente di muoversi tra la critica militante e quella accademica, misurando così di volta in volta – e, dunque, anche nei saggi sulla pastorale – la distanza emotiva dalla cultura italiana, sempre ‘sorvegliata speciale’ da Poggioli che la osserva dalla prospettiva privilegiata del suo ‘espatrio’ americano. L’‘ideale pastorale’ descritto nei suoi saggi è intriso, infatti, di un profondo senso di perdita, interpretabile – almeno indirettamente – come conseguenza ineludibile della sua esperienza di vita. Un analogo sentimento di perdita ritorna nelle moderne (e postmoderne) rivisitazioni del genere nella letteratura nordamericana, accanto a quel ‘doppio desiderio’ di innocenza e felicità che costituisce la spinta fondamentale per la scelta del ‘ritiro’ nella natura alla base del ‘mode’ pastorale. Si pensi, ad esempio, ad American Pastoral (1997) di Philip Roth, un romanzo pervaso da un vago quanto diffuso sentimento di perdita e dominato dalla contrapposizione/giustapposizione di reale e ideale nella trama, in cui i miti della pastorale americana si mischiano alla memoria storica del popolo ebraico. Sarà poi la ‘perdita’ effettiva dell’amatissima figlia Merry a determinare, di fatto, il destino di disgrazia del protagonista, lo ‘Svedese’, il cui ‘ideale pastorale’ viene spazzato via di colpo da una contropastorale di violenza e sopraffazione: «And then the loss of the daughter, the fourth American generation, a daughter on the run who was to have been the perfected image of himself […] transport[ed] him out of the longed-for American pastoral and into everything that is its antithesis and its enemy, into the fury, the violence, and the desperation of the counterpastoral — into the indigenous American berserk»[xx].
Sembra probabile che il senso di perdita alla base del genere pastorale possa aver interessato in qualche modo anche Poggioli, che, però, riesce a trasformare l’assenza in una spinta propulsiva potente verso la progettualità teorico-critica e l’impegno accademico negli Stati Uniti e in Italia, con la quale «non rescisse mai i [suoi] legami»[xxi]. Si tratta, volendo insistere sul tema dell’espatrio, di una forma spirituale e sublimata di ‘ritorno a casa’[xxii]: l’allontanamento, infatti, viene trasformato da «figure of rupture» a «figure of connection»[xxiii] e diventa una potente lente d’ingrandimento con cui osservare con disincanto la cultura letteraria del suo Paese di origine[xxiv]. Del resto, la distanza (e la discronia) dall’Italia – Poggioli aveva raggiunto gli Stati Uniti nel 1938 – si avverte chiaramente nei commenti alla situazione della penisola nelle lettere amichevoli e sempre garbate che si scambiava con Cesare Pavese[xxv]. Questo lo spinge ad abbracciare per sempre la condizione di intellettuale ‘in-between’ e la ‘condizione di straniero’ negli Stati Uniti che gli garantisce una grande libertà intellettuale e a rinunciare così ad un possibile ritorno in Italia, come testimonia questa lettera a Montale del 7 aprile 1947: «[f]rancamente, senza retoriche citazioni […], io godo fino in fondo della mia condizione di straniero, o meglio di atlantico, di uno di quelli che sono sospesi nel Limbo fra due continenti (o due epoche? o semplicemente due gruppi? Chissà)»[xxvi].
La progettualità operosa, la convergenza dei suoi ultimi studi sull’ideale pastorale, l’esperimento di «Inventario» e il gioco di specchi che la traduzione della poesia russa gli consentiva di ingaggiare con una cultura letteraria ‘altra’, non solo da quella italiana di provenienza, ma anche da quella americana di adozione rispetto alla quale era persino ‘contrapposta’, permettono così al «coltissimo slavista e comparatista di Harvard»[xxvii] di approdare a opere più distaccate come Theory of the Avant-Garde, The Oaten Flute e The Autumn of the Ideas, testi chiaramente leggibili come il lascito consapevole, per quanto in fieri, del lavoro di un’intera vita. Da una prospettiva sempre centrata contemporaneamente sugli Stati Uniti e sull’Italia, Poggioli rilegge il passato, soprattutto quello dei generi letterari – uno degli interessi fondanti della sua ricerca – nel tentativo di definire l’‘ideale pastorale’ che, lungi dal suggerire una fuga verso paradisi arcadici tanto quanto utopici, indica, invece, una direzione percorribile per conciliare, almeno dialetticamente, passato e futuro. Nasce così intorno agli anni Cinquanta (ma for-se anche prima) un progetto di ampio respiro sul genere, in parte pubblicato sia in Italia che negli Stati Uniti, in parte solo abbozzato, in gran parte ancora inedito al momento della sua scomparsa nel 1963. L’impianto teorico solido e la novità del progetto sono evidenti nei quattordici saggi raccolti nel volume dal titolo di miltoniana memoria, The Oaten Flute[xxviii] o, come traduceva lo stesso Poggioli nello studio Zampogna e cornamusa («Inventario», 1956), Il flauto di canna[xxix].
Nell’incipit del primo saggio di The Oaten Flute – peraltro l’unico tradotto in italiano[xxx] – sono enunciati i nuclei tematici principali che Poggioli poi svilupperà negli altri saggi, a partire dalla questione centrale del ‘desiderio doppio’ che induce alla ‘fuga’ di matrice pastorale.
 
La radice psicologica del pastorale è un desiderio doppio, di innocenza e di felicità, da ritrovare non attraverso una conversione o una rigenerazione ma sempre attraverso un ritiro. Allontanandosi, non già dal mondo, ma da ‘il mondo’, l’uomo pastorale tenta di giungere ad una nuova vita imitando il buon pastore delle greggi piuttosto che Il Buon Pastore delle Anime[xxxi].
 
Distinguendo sin da subito il pastore arcadico – «il buon pastore delle greggi» – da quello evangelico, a lungo considerati dalla critica figure complementari[xxxii] – «[t]he bucolic ideal stands at the opposite pole from the Christian one» – Poggioli mette a confronto l’esistenza parca e moderata del primo, che punta a raggiungere l’autogratificazione, con la povertà del secondo che diventa, invece, una modalità di automortificazione[xxxiii]. L’ideale bucolico si pone dunque agli antipodi di quello cristiano – nonostante la convinzione, comune a entrambi, per cui «l’umile sarà esaltato» –, in una contrapposizione che si riflette sulla visione economica della vita e sulla questione etica – l’arcade può indulgere all’ozio diversamente dall’agricoltore e dal mercante –, ma soprattutto sulla percezione dell’impatto sociale e collettivo della letteratura pastorale opposto a quello intimistico e soggettivo proprio della bucolica medievale e umanistica, che Poggioli identifica con quella cristiana e dantesca.
La trattazione si presenta, sin dalle prime battute, come una riflessione di ampio respiro in cui il critico, grazie alle sue «doti di metodico tessitore di rimandi tra campi della cultura solo geograficamente distanti, ma in realtà tutti meravigliosamente contigui nella sua impostazione letteraria di stampo marcatamente europeista»[xxxiv], rintraccia costanti e refrain in testi anche molto diversi. Non a caso, è proprio sulla questione centrale dell’‘otium’ del pastore arcadico – classicamente inteso come negazione del ‘negotium’ – che il dettato di Poggioli incrocia il pensiero di Thoreau, uno degli scrittori statunitensi più frequentemente associati con il ‘pastoralismo’ in letteratura. Nel suo scritto Walden, infatti, il legame anche mistico con la natura diventa elemento fondante della sua esperienza di vita nei boschi e motivo centrale della sua scrittura.
 
As I […] especially valued my freedom, […] I did not wish to spend my time in earning rich carpets or other fine furniture, or delicate cookery, or a house in the Grecian or the Gothic style just yet. If there are any to whom it is no interruption to acquire these things, and who know how to use them when acquired, I relinquish to them the pursuit. […] For myself I found that the occupation of a day-laborer was the most independent of any, especially as it required only thirty or forty days in a year to support one. The laborer’s day ends with the going down of the sun, and he is then free to devote himself to his chosen pursuit, independent of his labor; but his employer, who speculates from month to month, has no respite from one end of the year to the other[xxxv].
 
Da «non occasionale frequentatore della letteratura americana», Poggioli tiene a mente con il suo «ingegno vorace e tentacolare»[xxxvi] le diverse declinazioni del tema pastorale anche nel canone statunitense. Non manca, tra l’altro, di sottolineare come, nonostante la ricchezza che il ‘ritiro’ nella natura può offrire e l’innegabile libertà che l’otium garantisce al pastore, «[l]’invito bucolico» è destinato a rimanere «una voce che si sgol[a] nel deserto» e che «[l]’uomo ha fatto più strada gravato dal carico della croce di Cristo che aiutato dalla rozza verga del pastore», poiché – conclude amaramente – solo «[l]a fede muove le montagne». Poggioli denuncia poi come quella della pastorale sia solo «un’illusione estetica o sentimentale […] a malapena capace di spinger l’uomo a coprire la breve distanza che divide la città dalla campagna, o i coltivi dalle selve». Se, infatti, «[l]a promessa di Cristo ai fedeli, che trovarono redenzione e grazia nella rinuncia e nel martirio, fu mantenuta […] le poche persone che abbracciarono con ardore la chiamata pastorale scoprirono presto che la vita di campagna è nel migliore dei casi un purgatorio, e che i pastori della realtà son persino meno innocenti degli abitanti della città e dei cortigiani»[xxxvii].
 
Dopo aver ripercorso i momenti cruciali dello sviluppo del genere a partire dal «primo tra i moderni romanzi pastorali», ovvero L’Arcadia di Jacopo Sannazzaro (1504), passando per Life of Pope di Samuel Johnson (1899)[xxxviii], Poggioli approda, infine, all'ipotesi secondo cui il romanzo pastorale potrebbe nascere proprio dalle «sabbie mobili dell’illusione […] la più tenue di tutte le risorse morali e religiose, […] la stoffa di cui sono fatti i sogni, soprattutto i sogni a occhi aperti»[xxxix]. Il sogno bucolico, del resto, «non ha altre realtà che quelle dell’immaginazione e dell’arte» e l’accusa stessa di ‘insincerità’, tante volte rivolta al pastore, non trova risposta se non nell’affermazione di Johnson, secondo cui i pastorali non pretendono di imitare la vita reale e, di conseguenza, non presuppongono esperienza, ma – aggiunge Poggioli – loro stessi «sono una forma di esperienza»[xl]. Il pastore è dunque testimone di come «sia più agevole arrivare alla verità morale e alla pace dello spirito (in altre parole, all’innocenza e alla felicità) abbandonando la mischia del vivere civile e sociale e le dure prove del consorzio umano, per un’esistenza solitaria, in comunione con la natura, in compagnia dei propri pensieri e delle proprie fantasticherie»[xli]. Della stessa stoffa dei sogni, dell’immaginazione e dell’arte, il sogno pastorale assomiglia nella sua formalizzazione letteraria all’utopia di Poggioli di ridefinizione della cultura mondiale e, al tempo stesso, sembra capace di intervenire sullo strappo prodotto dal trauma dell’emigrazione.
Muovendo da un’ampia ricognizione sulle origini del genere in ambito classico, Poggioli afferma che «la libertà pastorale e i suoi frutti culturali non sono né del cristianesimo, né della classicità» e che la nascita della pastorale ha «coinciso con il declino dell’antica polis o città-stato e con la comparsa di una metropoli quasi moderna che […] era più un orbis che una urbs»[xlii]. Molti degli Idilli di Teocrito – «non tutti […] bucolici nella forma e nel contenuto» – sono indubbiamente per Poggioli «i più antichi pastorali conosciuti» e «stabiliscono una volta per tutte il modello bucolico», esprimendo «una genuina passione per la campagna, assieme al desiderio di pascoli verdeggianti da parte del cittadino». Le Egloghe di Virgilio seguono poi il modello teocriteo, conformandosi alla tradizione dell’imitazione letteraria propria della classicità e trovano in esso un valido «strumento di rilassamento morale e di liberazione emotiva»[xliii]. A mano a mano che la civiltà diventa più complessa e sofisticata, logorando il cuore dell’uomo e affinandone l’ingegno, l’artista avverte esigenze culturali e psicologiche nuove e diverse per cui anche la poesia si fa più realistica ed elegante, ideale e passionale, soggettiva e personale. «[I] poeti pastorali sembrano anticipare [così] gli atteggiamenti moderni», rimpiazzando l’‘ingenuo’ con il ‘sentimentale’ per guardare «alla vita con maggiore ironia, scostandosi dal lato tragico ed eroico dell’esperienza umana» e «abbandonan[do] il teatro e l’agorà per coltivare come Candide il loro giardino, dove crescono fiori diversi da quelli dei miti condivisi e delle credenze popolari»[xliv]. Del resto, sempre Poggioli inserisce il genere pastorale tra le forme drammatiche prodotte dal Rinascimento e dall’Italia cattolica insieme al melodramma[xlv].
 
The Italian pastoral merged on the one side into opera and, on the other, into an ideal neither Christian nor pagan: a dream of perfection which substituted for the retrospective nostalgia of a Paradise Lost or of an Age of Gold the vision of a future age in which a sacred and a profane love should triumph equally, a future wrought of bliss instead of passion. If the medieval spirit, which partially survived in the Renaissance, expressed itself dramatically in the Calderonian concept of life as dream, the Renaissance spirit, insofar as it reached the threshold of our age, expressed itself particularly in the dream of natural innocence and primitive felicity. […] It is therefore necessary to conclude that the European literary tradition from the Middle Ages on – with the only exception of Elizabethan England – knew no other form of dramatic poetry than comedy on one side and Christian drama and pastoral or musical tale on the other[xlvi].
 
Trattando poi dell’ethos pastorale – caratterizzato da un «codice che prescrive poche virtù, ma bandisce diversi vizi» al fine di contrastare soprattutto le passioni legate all’avidità come la cupidigia e l’avarizia – Poggioli mostra come la ricerca della felicità – e ovviamente anche «the right to the pursuit of happiness» sancito dalla Costituzione americana – si riveli inutile se affiancata al perseguimento della ricchezza e alla cura dei beni terreni. Anche in queste affermazioni, colpisce la convergenza con il pensiero di Thoreau che esclama: «Give me the poverty that enjoys true wealth»[xlvii], e ancora: «I see young me, my townsmen, whose misfortune it is to have inherited farms, houses, barns, cattle, and farming tools; for these are more easily acquired than got rid of»[xlviii].
Il pastore è dunque l’opposto dell’homo economicus, sia sul piano etico che su quello pratico, mentre l’economia pastorale si traduce, di fatto, in una sorta di autarchico ideale della famiglia, della tribù e del clan. In quest’ottica, la comunità produce quello di cui ha bisogno e un modestissimo surplus che serve a garantire un piccolo margine di sicurezza, ignorando lo ‘scambio’, il ‘baratto’, il ‘denaro’, il ‘credito’, il ‘debito’ – «a very ancient slough, called by the Latins aes alienum, another’s brass, for some of their coins were made of brass»[xlix], per chiamare di nuovo in causa Thoreau – e, soprattutto, evitando «in virtù di un miracolo strano eppure naturale» sproporzioni significative «tra produzione e consumi» e, tutto questo «a dispetto della mancanza di pianificazione e lungimiranza»[l]. Vicinissimo all’ideale di vita descritto in Walden – secondo cui «[s]uperfluous wealth can buy superfluities only» e «[m]oney is not required to buy one necessary of the soul»[li] –, il mondo pastorale descritto da Poggioli «non indulg[e] a una festa senza fine», non gozzoviglia, né digiuna, ma «soddisfa bensì sete e fame coi più modesti doni della terra come la frutta e l’acqua, o col latte e col formaggio che ricava dalle pecore […] che forniscono anche la lana per il suo rustico vestiario»[lii]. Non coltivando cereali come il fattore, né insidiando la selvaggina come il cacciatore, il pastore è vegetariano per morale, ma anche per convenienza e sceglie una dieta parca piuttosto che godere dell’abbondanza, come sembra spiegare anche Thoreau nel passo seguente.
 
One farmer says to me, ‘You cannot live on vegetable food  solely, for it furnishes nothing to make bones with;’ and so he religiously devotes a part of his day to supplying his system with the raw material of bones; walking all the while he talks behind his oxen, which, with vegetable-made bones, jerks him and his lumbering plow along in spite of every obstacle. Some things are really necessaries of life in some circles, the most helpless and diseased, which in others are luxuries merely, and in others still are entirely unknown[liii].
 
Nella maggior parte dei casi, in effetti, il luogo pastorale è caratterizzato da uno stile di vita parsimonioso, e dalla «gradevole dolcezza di un clima senza variazioni» che non implica l’alternarsi delle stagioni. Neanche la fatica del lavoro – «che è [invece] parte della condizione umana e specifico destino del bifolco che guadagna il pane quotidiano col sudore della fronte» – rientra nelle specificità della vita del pastore che, «[c]ogliendo bacche e ammucchiando paglia […] riesce a riempirsi il piatto e a mettersi un tetto sulla testa»[liv]. A marcare la differenza tra bucolico e pastorale – oltre alla sostituzione del contesto rurale con quello pastorale – è soprattutto il trionfo dell’otium, virgilianamente inteso come dono divino che concede al pastore la libertà di disporre del proprio tempo come conseguenza della dispensa dalle preoccupazioni e dalle occupazioni. Diversamente dal mercante e dal marinaio che mettono al centro delle loro esistenze gli affari e l’avventura (anche a rischio della vita), il pastore è un privilegiato che non deve rendere conto a nessuno della sua produttività in termini sociali ed economici. Non è esploratore, né colono, né nomade, né cacciatore – non si confronta mai con la vita selvaggia – ma, solo occasionalmente, può adattarsi a diventare pescatore purché questo non implichi alcun rischio o avventura. È un sedentario felice del poco, che pratica la rinuncia e la parsimonia come via verso la felicità, vivendo all’aria aperta e assecondando i suoi desideri. Non è ossessionato dal peccato, né conosce il senso di colpa e finisce per considerare virtù quei peccati di omissione di cui si macchia per la condotta del suo vivere in misura sempre maggiore. Gli altri peccati più ‘attivi’, proprio per la sua natura, non lo riguardano. Respinge l’ambizione e l’avidità, è un uomo calmo, quasi inerte che si mostra, invece, disinibito nella peculiare sfera del sesso che pratica in maniera assidua e con trasporto, trovando tanto una gioia sensuale quanto un appagamento morale nella semplice soddisfazione dei propri bisogni in una sorta di ‘edonismo illuminato’ in cui Venere ha la meglio su Bacco. Per la laboriosità imposta dalla viticoltura e dall’arte della vinificazione, ubriachezza e alcolismo non trovano posto nella vita del pastore, anche se qualche sana e abbondante bevuta viene ammessa come misura compensatoria per la disperazione derivante dalla fine della giovinezza, che pone il frutto dell’amore fuori dalla portata dell’uomo. Se, insomma, virgilianamente il tempo porta via tutto (‘omnia fert aetas’), il piacere di un buon vino può sempre consolare le perdite dell’età.
L’ideale pastorale, almeno nella formulazione di Poggioli, funziona certamente come trait-d’union tra mondi letterari diversi, ma anche come elemento caratterizzante della produzione letteraria statunitense sin dal momento in cui comincia a delinearsi un canone nazionale nordamericano, diverso e distinto da quello inglese. A partire da quel momento, l’accezione del termine ‘pastorale’ si amplia a comprendere nuove declinazioni semantiche, mentre la preoccupazione costante per la natura e per il mondo rurale diventano motivi centrali delle opere, ma anche scenari in grado di offrire valori morali ed etici distinti e diversi da quelli della società urbana, come si legge nel brano seguente.
 
‘Pastoral’ is used in an extended sense, familiar to Americanists, to refer not to the specific set of obsolescent conventions of the eclogue tradition, but to all literature-poetry or prose, fiction or nonfiction-that celebrates the ethos of nature/rurality […] against the ethos of the town or city. This domain includes for present purposes all degrees of rusticity from farm to wilderness[lv].
 
Questa riflessione di Lawrence Buell è solo uno dei numerosi tentativi della critica di dare ragione della centralità dell’ideale pastorale all’interno di una più ampia teoria generale della letteratura. Anche D. H. Lawrence (Studies in Classic American Literature, 1923), considerava le cosiddette ‘nature-quest narratives’ come rappresentazione di uno stadio immaturo di sviluppo culturale, mentre Leslie Fiedler vede il ricorso alla ‘wilderness’ nella scrittura americana come «liminal site for male self-fulfillment in recoil from adult responsibility associated with female-dominated culture in the settlements»[lvi]. Persino Letters from an American Farmer – e il suo mondo di paradisiaca semplicità – viene chiamato in causa da Lawrence: «Absolutely the safest thing to get your emotional reaction over is Nature»[lvii]. In modo molto simile, le opere degli autori canonici – dai Trascendentalisti a Fitzgerald – rielaborano nei modi più diversi il conflitto – ancora aperto – tra l’ideale pastorale e l’emergente tecnocrazia voluta e sponsorizzata dalla ‘middle class’ americana. Si tratta di un contrasto descritto quasi sempre come una lotta impari e tragica, destinata alla sconfitta, in cui, però, si riconosce come fondamentale e primaria l’influenza esercitata dalla natura sulla tradizione letteraria americana.
Negli anni Cinquanta – gli stessi in cui è attivo Renato Poggioli – gli studi sulla pastorale insistono soprattutto sulla lettura in chiave storico-sociale dell’impatto del ‘Jeffersonianism’ sull’immaginazione letteraria americana, conseguenza diretta della visione agraria propagandata dallo scritto di Jefferson Notes on the State of Virginia (1832)[lviii], di cui alcuni riflessi si ritrovano anche nei saggi di The Oaten Flute. Il sogno dell’America come Arcadia per i colonizzatori europei[lix] sposta di fatto a Occidente il sogno del Paradiso Terrestre – tradizionalmente collocato ad Oriente – e finisce per essere legittimato a livello nazionale e internazionale – ironia della sorte, proprio a ridosso della trionfante rivoluzione industriale –, come sottolineano Henry Nash Smith in Virgin Land (1950) e, più di un decennio dopo, Leo Marx nel già citato The Machine in the Garden. L’ondata di revisionismo critico che si abbatté negli anni successivi sul pastoralismo mise poi in luce una certa egemonia del mondo maschile ai danni di quello femminile, come osservano acutamente Nina Baym e Annette Kolodny, che vedono nella ricerca della vita nella ‘wilderness’ – tradizionalmente considerata cuore pulsante della tradizione letteraria statunitense da James Fenimore Cooper a Herman Melville a Mark Twain – solo un modo per marginalizzare la produzione letteraria delle donne che avevano vissuto l’esperienza della frontiera[lx].
Gli studi più recenti sulla pastorale americana, infine, dimostrano come l’opera degli scrittori statunitensi tradizionalmente considerati maggiori sia quasi sempre espressione di un’egemonia conservatrice, più che di una forma di dissenso rispetto ad una letteratura mainstream che appoggia l’urbanizzazione. Spesso presentata come antioligarchica nel suo spirito, la pastorale americana continua così a sembrare una ricreazione elegante e raffinata, appannaggio di un’élite di autori canonici, in modi non troppo dissimili da quanto accade in Europa[lxi].
 
Proprio nell’intercapedine tra la scuola critica europea e quella americana si colloca di diritto lo studio di Renato Poggioli, il quale mostra di aver attraversato testi fondamentali tra cui ricordiamo – ma sempre in una semplificazione davvero scarna – almeno l’opera di Curtius[lxii] – da cui trae spunto per la descrizione/ definizione del locus amoenus –, gli scritti di Freud e lo studio seminale di Empson, Some Version of Pastoral (1935) per le preziose riflessioni sulla questione economico-sociale e per il rifiuto dell’individualismo di marca tardoromantica. La lapidaria definizione di Empson della pastorale – «the process of putting the complex into the simple»[lxiii] – risuona continuamente nella scrittura di Poggioli, in cui ritorna anche la questione a lungo dibattuta della marginalizzazione della ruralità in letteratura, conseguenza dell’emergere delle istituzioni sociali cosmopolite, che riducono la natura a pura proiezione fantastica o allegoria sociale, priva di concretezza e realtà[lxiv]. Del resto, le imitazioni, le riscritture e i commenti delle Bucoliche di Virgilio che dal basso Medioevo arrivano fino a noi dimostrano come la valenza ideologica del genere oscilli a seconda della posizione storica dell’autore, divenendo strumento di opposizione critica o di drammatizzazione di posizioni contrastanti o – per quanti vorrebbero eliminare dalla pastorale qualsiasi riferimento politico – un mero fatto estetico che auspica un ritorno alla forma della pastorale teocritea. «[B]uilt upon the interplay of positions represented in Eclogue 1 by the unhappy shepherd Meliboeus, dispossessed by Augustus, and the happy shepherd Tityrus, exempted by Augustus’s special favor»[lxv], la pastorale mette in scena prese di posizione, anche fortemente dissonanti, che ribadiscono di fatto la necessità di contestualizzare sempre le diverse produzioni di questo genere al fine di comprenderne l’esatta valenza ideologica, come suggerisce Poggioli nei suoi saggi.
Fondata sull’ossimoro per cui è sostenuta e sponsorizzata dalle stesse istituzioni contro cui si ribella, la pastorale non esce di scena nella scrittura contemporanea[lxvi] e questo grazie anche al cosiddetto ‘olocausto ambientale’, quel pericolo imminente che ostacola o, in alcuni casi, impedisce una visione del mondo solo positiva e progressiva[lxvii]. A costruire il mito della ruralità, poi, contribuisce in larga parte il mito dell’urbanizzazione, alimentato dalla cosiddetta ‘age of ecology’, incapace – almeno così sembra – di produrre un cambiamento radicale nell’atteggiamento sociale o nella politica pubblica nei confronti della natura[lxviii].
L’ideale pastorale, i cui lineamenti essenziali fotografa così lucidamente Poggioli più di sessant’anni fa, sembra dunque destinato ad assumere forme sempre più radicali nel tempo, confermandosi, anche nel XXI secolo, una lente potentissima attraverso cui guardare alla cultura letteraria di una nazione. Nel caso degli Stati Uniti, inoltre, il genere può mettere in relazione dialettica la produzione nazionale con quella delle letterature postcoloniali espresse nelle diverse lingue europee. A confrontarsi, tuttavia, sono sempre le due facce della pastorale virgiliana, i due pastori della prima ecloga, Titiro e Melibeo che si agitano – non senza un certo disagio perfettamente comprensibile – nelle forme moderne e post-moderne del genere. Come insegna Poggioli, i termini specifici del discorso sono alterati, ma il dualismo e il dibattito continuano.
 
 
NOTE


[i] Roberto Ludovico, Introduzione, in «A Meeting of Minds». Carteggio 1947-1950, a cura di Silvia Savioli, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010, pp. 1-32, qui p. 2.

[ii] René Wellek, Renato Poggioli (1907-1963), «Comparative Literature Studies» Special Advance Number (1963) pp. ix-xii, qui p. xi.

[iii] Mattia Acetoso, Renato Poggioli’s Intellectual Project and the Psychology of Exile, in Renato Poggioli: An Intellectual Biography, edited by Roberto Ludovico, Lino Pertile e Massimo Riva, Olschki, Firenze 2012, pp. 125-143, qui p. 141. Michael Seidel, Exile and the Narrative Imagination, New Haven and London, Yale University Press 1986. Si veda anche Edward Said, Reflections on Exile, Cambridge, Harvard UP 2000.

[iv] L’introduzione con il titolo Gli esiliati della cultura fu poi pubblicata anche su «Solaria» 1 (1933) pp. 45-54.

[v] Ludovico, Introduzione, in «A Meeting of Minds», cit., p. 13, n.38.

[vi] Poggioli, La violetta notturna, Carabba, Lanciano 1933, poi pubblicato in «Solaria»; Il fiore del verso russo, Torino, Einaudi 1949; Pietre di paragone, Firenze, Parenti 1939; Teoria dell’Avanguardia, Bologna, Mulino 1962, poi Theory of the Avant Garde, Cambridge, The Belknap Press of Harvard UP 1968; Poets of Russia. 1890-1930, Cambridge, MA, Harvard University Press 1960.

[vii] Poggioli, The Oaten Flute. Essays on Pastoral Poetry and the Pastoral Ideal, edited by Bartlett Giamatti, Cambridge, MA, Harvard UP 1975; The Autumn of Ideas, «The Massachusetts Review» II (1961) pp. 655-81, p. 664. JSTOR, http://www. jstor.org/stable/25086734. Ultimo accesso 3 giugno 2023.

[viii] Harry Levin, Preface, in Renato Poggioli, The Spirit of the Letter. Essays in European Literature, Cambridge, MA, Harvard UP 1965, p. viii; Poggioli, The Oaten Flute, cit.

[ix] Wellek, Renato Poggioli (1907-1963), cit., p. xi.

[x] Per gli studi sulla pastorale del primo Novecento, cfr. The Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics. Segnaliamo qui, in particolare, Jeannette Marks, English Pastoral Drama. From the Restoration to the Date of the Publication of the Lyrical Ballads, London, Methuen & Co. 1908; Enrico Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi 1909; English Pastorals, edited by Edmund K. Chambers [1895], London, Gresham 1906. Con il titolo The Oaten Flute si fa sempre riferimento al volume pubblicato postumo nel 1975 a cura di B. Giamatti. Quando si tratterà, invece, del saggio omonimo pubblicato nel 1957 da Poggioli su «Harvard Library Bulletin» XI, il lettore troverà opportune indicazioni nel testo o in nota.

[xi] The Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics individua in Michael (1800) di Wordsworth l’ultima opera del genere pastorale, di cui si sottolinea la persistenza nel tempo (pp. 605, 603). Anche John Barrell e John Bull, curatori del volume The Penguin Book of English Pastoral Verse (London, Penguin 1974) insistono su questo aspetto, ma spostano l’epigono all’opera del ‘poeta-contadino’ John Clare (pp. 8, 430). Sulla persistenza del genere, cfr. anche Seamus Heaney, Eclogues ‘In Extremis’: On the Staying Power of Pastoral, in «Proceedings of the Royal Irish Academy» vol. 103 C.1 (2003) pp. 1-12. 

[xii] Frank Kermode, English Pastoral Poetry, from the Beginnings to Marvel, Harrap & Co., London 1952. Leo Marx, The Machine in the Garden: Technology and the Pastoral Ideal in America, London, Oxford UP 1964, p. 25.

[xiii] Annabel Patterson, Pastoral and Ideology: Virgil to Valery, Berkeley, California UP 1987, p. 7; Raymond Williams, Country and the City [1973], Nottingham, UK, Spokesman 2011; J. M. Coetzee, White Writing: On the Culture of Letters in South Africa, New Haven, CT, Yale UP, 1988, pp. 5-6. Cfr. anche Terry Gifford, Pastoral, London-New York, Routledge 1999.

[xiv] Édouard Glissant, Caribbean Discourse [1981], Charlottesville, Virginia UP 1991. Per approfondire, cfr. Sarah Phillis Casteel, Second Arrivals: Landscape and Belonging in Contemporary Writers of the Americas, Charlottesville, Virginia UP 2007.

[xv] Lawrence Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, «American Literary History» 1.1 (1989) pp. 1-29; Paul Alpers, What is Pastoral? Chicago, Chicago UP 1996, p. 22.

[xvi] Poggioli, The Oaten Flute, «Harvard Library Bulletin» XI (1957); J.E. Congleton, Theories of Pastoral Poetry in England, 1684 1717. «Studies in Philology» 41.4 (1944) pp. 544-75; E. Wasserman, Introduction to Thomas Purney, in A Full Enquiry into the True Nature of Pastoral (1717), Augustan Reprint Society, 1948; M. K. Bragg, The Formal Eclogue in 18th-Century England, Orono, ME, Maine UP 1926; E.C. Knowlton, The Novelty of Wordsworth’s Michael as a Pastoral, «PMLA» 25 (1920); W.W. Greg, Pastoral Poetry and Pastoral Drama (1906); N. Drake, On Pastoral Poetry, «Literary Hours» (1798). Cfr. Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics (1965), edited by Alex Preminger, Franke J. Warnke, O.B. Hardison, Jr., Princeton, NJ, Princeton UP 1974, p. 606.

[xvii] Casteel, Pastoral. In Keywords for Environmental Studies, edited by Joni Adamson et al., New York, NYU Press 2016, pp. 158-61.

[xviii] Acetoso, Renato Poggioli’s Intellectual Project and the Psychology of Exile, cit., p. 127.

[xix] Ludovico, Introduzione, cit., p. 5.

[xx] Philip Roth, American Pastoral, London, Vintage 2017, pp. 85-86. Corsivo mio.

[xxi] Ludovico, Introduzione, cit., p. 10.

[xxii] Cfr. Acetoso, Renato Poggioli’s Intellectual Project and the Psychology of Exile, cit.

[xxiii] Michael Seidel, Exile and the Narrative Imagination, New Haven and London, Yale University Press 1986, p. x.

[xxiv] Ibidem.

[xxv] Cfr. «A Meeting of Minds», a cura di Silvia Savioli, cit.

[xxvi] R. Poggioli, Lettera a Eugenio Montale 7 aprile 1947, Fondo Poggioli, Roma. La lettera è citata in M. Acetoso, Renato Poggioli’s Intellectual Project and the Psychology of Exile, cit., p. 141. Il corsivo mio sottolinea la discronia tra il tempo dell’Italia e quello degli Stati Uniti in cui vive Poggioli.

[xxvii] Martino Marazzi, Pastorali americane. Da Poggioli a Giovannitti. In Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi editore 2020.

[xxviii] Poggioli, The Oaten Flute, cit.

[xxix] Poggioli, Zampogna e cornamusa, «Inventario» VIII (1956), 1-6, pp. 216-247. Si veda anche Naboth’s Vineyard, or the Pastoral View of the Social Order, in «Journal of the History of Ideas» XXIV (1963) pp. 3-24, che poi diventerà il capitolo 10 del volume The Oaten Flute, a cura di B. Giamatti, cit., pp. 194-219. Alla fine del secondo verso della prima Bucolica di Virgilio, il termine ‘avena’ viene usato per riferirsi al flauto e, in effetti, il ‘flauto’ è la ‘canna’ vuota, il ‘caule’ della pianta del cereale. Meno chiaro il riferimento all’‘orzo’ nella traduzione italiana del saggio di Poggioli a cura di Raffaello Bisso, di cui alla nota seguente.

[xxx] Poggioli, Il flauto d’orzo. Saggio sulla poesia pastorale e sull’ideale pastorale, a cura di Raffaello Bisso, Ferrara, Book editore 2012. Il testo contiene soltanto la traduzione con testo a fronte del saggio pubblicato da Poggioli nel 1957 in «The Harvard Library Bulletin» (cit.), in cui l’autore tratteggiava gli intenti del futuro libro sull’argomento.

[xxxi] Ivi, p. 17.

[xxxii] Cfr., Wilhelm Schmid, Tityrus Christianus, «Rheinisches Museum für Philologie» (1952) pp. 101-65.

[xxxiii] Poggioli, The Oaten Flute, cit., p. 1.

[xxxiv] Ludovico, Introduzione, «A Meeting of Minds», cit., p. 4.

[xxxv] Henry David Thoreau, Walden, Houghton Mifflin Company, Boston-New York 2004, p. 51.

[xxxvi] Ludovico, Introduzione, «A Meeting of Minds», cit., pp. 9, 10 (n. 30). Traduttore di Mattino domenicale di Wallace Stevens (Torino, Einaudi 1953), Poggioli è anche tra i primi intellettuali a prendere coscienza del declino del dominio culturale dell’Europa sul nuovo continente.

[xxxvii] Ibidem.

[xxxviii] Samuel Johnson, Life of Pope, London, Mac Millan 1899; Forgotten Books 2018.

[xxxix] Poggioli, The Oaten Flute, cit., pp. 17, 19.

[xl] Ivi, p. 19. Corsivo nel testo originale.

[xli] Ibidem.

[xlii] Ibidem.

[xliii] Ivi, p. 23.

[xliv] Ibidem.

[xlv] «The vast body of the modern [pastoral] – elegy, drama, romance, [pastoral] poetry in general – is a direct outgrowth of Renaissance humanism». Cfr. Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, cit., p. 603.

[xlvi] Poggioli, The Spirit of the Letter, cit., pp. 280-1.

[xlvii] Thoreau, Walden, p. 157.

[xlviii] Ivi, p. 3.

[xlix] Ivi, p. 4.

[l] Ivi, p. 27.

[li] Ivi, p. 265.

[lii] Ivi, pp. 27, 29.

[liii] Ivi, p. 7.

[liv] Poggioli, Il flauto d’orzo, cit., p. 31. L’affrancamento dal bisogno di lavorare per vivere è proprio anche del Paese di Cuccagna, noto anche come Paese di Bona Vita, o d’Oltre Mare (secondo la definizione seicentesca) con un chiaro riferimento all’America.

[lv] Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, cit., p. 23, n. 1.

[lvi] D.H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, Garden City, New York: Doubleday 1951; Leslie Fiedler, Love and Death in the American Novel, New York, Dell 1960. Le citazioni sono tratte da Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, cit., p. 1.

[lvii] Lawrence, Studies in Classic American Literature, cit., p. 29.

[lviii] Henry Nash Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth [1950], Cambridge, Harvard UP 2007; Leo Marx, The Machine in the Garden, cit.; Thomas Jefferson, Notes on the State of Virginia, Boston, Lilly & Wait 1832.

[lix] In quest’ottica si collocano anche i Diari di Cristoforo Colombo, ma anche opere del romanticismo francese come Paul et Virginie (1788) di Bernardin de Saint-Pierre e Atala (1801) di Chateaubriand nonché l’opera del venezuelano Andrés Bello América (1823).

[lx] Cfr. Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, cit., pp. 14, 25 (n. 15); Nina Baym, Melodramas of Beset Manhood: How Theories of American Fiction Exclude Women Writers. «American Quarterly» 33 (1981) pp. 123-39; Annette Kolodny, The Lay of the Land, Chapel Hill, North Carolina UP 1975 e The Land Before Her, Chapel Hill, North Carolina UP 1984; Myra Jehlen, American Incarnation: The Individual, the Nation, and the Continent, Cambridge, Harvard UP 1986.

[lxi] «American literary studies would do well to follow scholarship on European pastoral, which has shown itself capable of making finer ideological discriminations than we». Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, cit., p. 23, n.8.

[lxii] E. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino [1948], Firenze, La Nuova Italia 1992.

[lxiii] William Empson, Some Versions of Pastoral [Chatto & Windus 1935], Norfolk, Connecticut, New Directions 1960, p. 23.

[lxiv] Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, cit.; Patterson, Pastoral and Ideology, cit.

[lxv] Buell, American Pastoral Ideology Reappraised, cit., p. 25, nota 8.

[lxvi] «A survey of recent scholarship, however, suggests that ‘pastoral’ […] is defined not so much by its obsolescence as by its persistence» Casteel, Pastoral, in Keywords for Environmental Studies, cit., p. 158.

[lxvii] Leo Marx, Pastoralism in America. In Ideology and Classic American Literature, edited by Sacvan Bercovitch, Myra Jehlen, New York, Cambridge UP 1986, p. 66.

[lxviii] Donald Worster, Nature’s Economy, Garden City, New York, Doubleday 1979. Per approfondire, cfr. T. Saunders, Using Green Words or Abusing Bucolic Ground in Pastoral and the Humanities: Arcadia Re-Inscribed, edited by M. Skoie e S. Velazquez, Exeter, Bristol Phoenix Press 2006, pp. 3-13; T. Gifford, Post-pastoral as a Tool for Ecocriticism, in Pastoral and the Humanities, cit., pp. 14-27; G. Garrand, Pastoral, Anti-Pastoral and Post-Pastoral in The Cambridge Companion to Literature and Environment, edited by L. Westling, Cambridge, Cambridge University Press 2014, pp. 17-30.


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