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«Sedavo il dolore ardente dei giorni
con l’acqua del canto poetico»
I versi della Dama del Mondo, principessa persiana del Trecento [*]
 
di Domenico Ingenito
 
 
La Dama del Mondo (Jahan Malek Khatun, Iran, ca. 1324 - ca. 1382) è senza dubbio la maggiore poetessa medievale non solo di Persia, ma di tutto quell’universo islamico che, per otto secoli, ha disseminato di gemme letterarie uno spazio che va dall’Asia centrale alla penisola iberica.[1]
Al lettore italiano, nelle pagine che seguono, è concesso il privilegio di poter apprezzare non solo quella che è in assoluto la prima traduzione in lingua straniera di alcune sue canzoni, ma anche un documento di importanza straordinaria che aspira a rivoluzionare la percezione che abbiamo della poesia persiana classica. [2]
Al di là dell’altissimo valore estetico dei versi, l’importanza del Canzoniere della Dama del Mondo è determinato dalla presenza di un’introduzione autografa, in cui sono esplicitati i caratteri di una poetica nei termini del rapporto tra visibile e invisibile, sacro e profano, metaforico e reale in funzione della scrittura. Si tratta, inoltre, del primo documento letterario persiano, e islamico tout court, in cui viene affrontato il discorso del genere sessuale in relazione al canone poetico e alla trasfigurazione lirica del proprio vissuto personale.
Le 1413 canzoni della principessa injuide(contemporanea e concittadina del massimo poeta persiano di tutti i tempi, Hafez di Sciraz) si situano in quel patrimonio poetico persiano che è per eccellenza il luogo dove emergono sinteticamente le contraddizioni dell’incontro storico tra l’islam arabo e la tradizione culturale iraniana. Si tratta di un’alchimia che ha dato forma a una delle più ricche storie letterarie del mondo, e la cui eco, rielaborata in una personalissima forma di adesione al canone classico, riemerge nei versi della Dama del Mondo arricchita da un originale slancio erotico. All’interno dell’ecumene islamico medievale, la lingua persiana, priva di marche grammaticali del genere sessuale, è diventata la superficie epidermica dello stratificato e complesso rapporto tra maschile e femminile che fa della Parola il principale veicolo di permanenza della sensualità nella spiritualità: «il significato, come vergine, si lascia penetrare dalla maschia parola nel talamo dell’Eloquio», come preannuncia nel dodicesimo secolo il teologo Ahmad Ghazali, nelle sue Occasioni Amorose. [3] 
Qui l’eros, più che allegoria del divino amore, è ponte verso le realtà superiori attraverso la mediazione dei sentieri del corpo. Il corpo non può farsi segno d’Amore se non è strumento di conoscenza superiore, così come la trascendenza non può essere rappresentata senza la raffigurazione delle membra umane, eccellenza estetica dell’intero atto di Creazione.
Nella sua presa di distanze dal dato biografico, la poetessa non nasconde mai il proprio genere femminile: non solo, nella propria introduzione si presenta esplicitamente come donna, ma sceglie anche un nom de plume, Jahan, «Mondo», che nel linguaggio poetico persiano è associato alla femminilità suadente e traditrice («non aspettarti fedeltà dal mondo, ché fragili ha le fondamenta / ed è come una perfida sposa che ha mille mariti», ci ricorda Hafez di Sciraz).
Il rimando all’io empirico femminile, seppur velatamente presente, non impedisce all’io lirico di rispettare pienamente il canone estetico persiano mostrando se stesso quale uomo posto ad amare un giovane dalle forme aggraziate, specchio della Bellezza divina. I versi di Jahan sono quindi pervasi da una particolare forma di omoerotismo letterario che, paradossalmente, è condizione canonica affinché anche una donna possa accedere alle camere intime del discorso poetico.
Considerando anche l’indifferenziazione sessuale che caratterizza la grammatica persiana, tradurre la Dama del Mondo in italiano comporta una profonda riflessione sul rapporto tra genere e creazione poetica seguendo un percorso divergente rispetto alle tendenze ‘sessualmente impegnate’ affermatesi nella poesia italiana degli ultimi cinquant’anni. Le costanti oscillazioni presenti nei versi di Jahan tra mascolino e femminino, omoerotismo di maniera e velato eteroerotismo, ci invitano a storicizzare meglio i modi socialmente ‘non lineari’ con cui la scrittura può essere vista innestarsi nel corpo. Perché fanno luce su uno strato più sottile dell’essere maschio e dell’essere femmina, dove il corpo è piacevolmente conturbante prima ancora di essere genere definitivamente compiuto e orientato in una direzione esclusiva.
È questo un modo per ‘amare in due direzioni’, doveamante e amato sono funzioni profonde di un’antropologia conscia della natura carnale del Divino: la lingua persiana, inebriante per dolcezza, consente questo scambio semiotico, capace di dare accesso a una rappresentazione totale della metafisica d’Amore.
Ma l’italiano non aiuta. Laddove il genere sessuale è confine certo tra le parole e i corpi, la traduzione dal persiano diventa un atto di aggressione permanente nei confronti di una fluidità amorosa che è di gran lunga più sovversiva della rivendicazione sociale di genere. L’obbligo di una scelta, sebbene mai definitiva, s’impone quasi ad ogni canzone tradotta seguendo il ritmo ora lento ora rapido della metrica quantitativa persiana.
In attesa che il panorama editoriale italiano riconosca con lungimiranza quanto necessaria sarebbe la pubblicazione di buona parte dell’opera della Dama del Mondo, offriamo in anteprima la traduzione integrale dell’introduzione autografa al Canzoniere accompagnata da una sele- zione di canzoni (ghazal, funzionalmente corrispondente al nostro sonetto) che possono essere rappresentative di alcune delle più ricorrenti modalità letterarie praticate dalla poetessa.
Le versioni qui proposte, pur sfidando apertamente il valore estetico dell’originale, purtroppo non sono all’altezza della sua densità di genere, erotica e poetica, estesa e multivocale. Limite che, come ogni margine invalicabile, diventa ulteriore stimolo per uno scavo sempre più profondo nel testo persiano, al fine di comprendere meglio e introiettare tutto ciò che non può oltrepassare il confine tra le due lingue. Di questo passaggio interiore il lettore attento può tuttavia cogliere i segnali incompiuti che tendono alla comprensione senza fine di chi, morta da tempo, non può che parlarci ad occhi chiusi.
 
***
 
Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso
 
Incomparabili elogi e profusione di omaggi al Creatore – esaltata sia la Sua Gloria, la Grazia Sua universale – che all’uomo concesse l’orgoglio dell’eloquio e lo distinse dalle altre creature per mezzo delle virtù eccelse della Parola.
 
All’Onnipotente che ai piedi dell’Adamo di fango
fece inchinare gli Angeli che sorreggono il trono divino.
 
All’Artista che dipinse le vergini immagini del pensiero
sulla suprema materia, custodita nell’intimità dei cuori.
 
Al Purissimo, la cui potente Mano adornò l’anima
 
e l’immagine del volto suo con la più bella delle forme
[ahsan al-taqvim]. [4]
 
Sia lodato quel Sapiente che tramite la Parola fece di un pezzo di carne la chiave che dischiude il tesoro dei segreti della Scienza. Lode a Lui, Grazia pura, che distinse i Prescelti di ogni tempo e luogo con l’ornamento di prodigi incontrastati: nella bocca di un infante lasciò che scintillasse il miracolo del Cristo, e poi depose la salvezza del mondo e dell’aldilà nell’eloquenza di chi nella scienza di parola dapprima fu ignaro [ommi], il Santo Profeta Mohammad. [5]
 
Tale è l’uomo per cui ogni Sovranità è dovuta
e che solo potrà penetrare il Segreto divino
 
Salute infine a Mohammad il Prescelto, giardino di splen-
dore, corona sul capo di tutti i Profeti:
 
Il Sole nel cielo della Sacra Legge che all’Universo
nel tempo della Sua Profezia concesse il retto verso.
 
A lui rendiamo il più virtuoso degli omaggi e porgiamo il più perfetto saluto, ché il mattino della sua Profezia ha rischiarato l’intero mondo dal buio dell’iniquità e con il lenzuolo della Guida ha polito lo specchio dei cuori velati dalla ruggine. Sull’anima e sullo spirito dei suoi cari e sulla sua stirpe cali un perdono senza limiti e per loro si innalzi il paradiso senza fine. È per la melodia degli usignoli del celeste Loto Che ascende in gloria il giardino della fede di Mohammad.
 
È per la melodia degli usignoli del celeste Loto
Che ascende in gloria il giardino della fede di Mohammad.
 
*
 
Al cuore dei sapienti e dei sovrani della scienza è noto che la più profonda aspirazione degli uomini acuti è votata all’impegno di lasciare sulle pagine del tempo un segno della loro esistenza. Dal momento che il volgere dei giorni deposita polvere d’oblio sul volto del ricordo e il trascorrere del tempo disfa ogni linea dei suoi tratti, è necessario lasciare un segno che, anche dopo l’estinzione del corpo, faccia perdurare in eterno il proprio nome. Agli uomini d’intelletto è parso chiaro che le fondamenta della Parola non possono essere sradicate dal ciclone del turbinare delle epoche: è il segno della parola a perdurare sulla pagina dei giorni, Parola che è la perla più pura della creazione divina, orgoglio del Creatore e degli esseri creati, quintessenza del visibile [majaz] e delle verità invisibili [haqayeq]:
 
La Parola fu calata dalla volta celeste:
fu dai cieli che la Parola discese.
 
Se altra fosse stata l’essenza pura, superiore alla Parola,
altro sarebbe disceso a noi in luogo della Parola.
 
Ne consegue che nessuna testimonianza della memoria può essere considerata superiore alla scrittura, in poesia oppure in prosa:
 
Perché se un giorno una persona di cuore leggerà,
Con le sue lacrime placherà le fiamme di un dolore.
 
È dalla poesia che il saggio attinge consigli,
Nei versi così si ristora il cuore sapiente.
 
Secondo tali premesse io, la Dama del Mondo, figlia del re Mas‘ud, dinanzi alla violenza del volgere del tempo cercai la salvezza nelle braccia di una ferma contentezza, e recai il cuore alla Mecca della pace interiore e così composi questo verso:
 
Scegli l’Uno e non cercar compagni tra gli amati
siedi sola, e non cercar compagnia e conforto tra i tuoi cari.  
 
Per ogni forma che si offriva ai miei occhi, mille erano i pensieri che all’anima mia affioravano. Ogni tanto, per diletto e intrattenimento dello spirito, quando tra i disastri del tempo ero presa dal doloroso volgere del giorno e della notte, componevo frammenti simili alle emozioni degli amanti perduti, all’animo degli appassionati sconvolti, versi spezzati come il cuore della Gente di Sguardi. Ciecamente vani, come le speranze sbarrate dei Signori del Desiderio.
Davo forma alla Realtà Trascendente [haqiqat] con le vesti della metafora [majaz], e sedavo il dolore ardente dei giorni con l’acqua del canto poetico. Tutto questo malgrado la presenza di alcune persone che, prive di alcuna fiamma sacra o elevata aspirazione, si fermavano alla superficie di quelle forme e consideravano spregevole il riflesso mondano di queste meraviglie. Data la loro poca forza di sguardo essi, infatti, non riuscivano a scostare il velo dal volto che desideravano contemplare:
 
Non tutti gli sguardi osano fissare il sole,
non tutte le gocce sanno come giungere al mare.
 
Ma presso gli studiosi dallo sguardo raffinato e al cospetto degli scrutatori dalla solida capacità d’indagine è ormai chiaro che l’oggetto ultimo della Parola non è il significato esteriore, al contrario, la sua finalità generale è la comprensione dei segreti. L’espressione poetica delle me- tafore [irad-e haqayeq-e majazat] è il principale strumento per giungere alle verità [haqayeq], da cui il detto: la metafora è il ponte verso la Realtà [trascendente; in arabo nel testo: al-majaz qantarat al-haqiqa]. [6] Tra uomini di scienza, intellettuali e letterati è risaputo che se la poesia non fosse contraddistinta da eccellenti virtù in grado di conferire nobiltà agli eletti, i grandi uomini del passato e i più famosi sapienti (che Dio li abbia in grazia) non si sarebbero mai sforzati nel percorrere proficuamente questa via.
 
Eppure, siccome pochissime sono state le donne persiane che si sono cimentate con la poesia, anche io ho considerato questa pratica come un difetto, e pertanto da essa mi sono astenuta. Ma con il trascorrere del tempo mi sono accorta che in realtà sono molte le donne, sia arabe che persiane, che hanno coltivato l’arte della parola e grazie ad essa sono diventate famose. Se infatti questa fosse stata una pratica proibita, la donna preferita del Profeta Mohammad, la luna dallo stendardo solare, la perla dello scrigno del pudore, la Dama del giorno della Resurrezione, Fatima, non avrebbe mai composto poesia e non avrebbe mai pronunciato versi come questo:
 
Invero le donne sono profumati fiori per voi creati
possiate allora tutti voi annusarne i petali. [7]
 
E tutte le donne arabe hanno composto versi, e tra le persiane posso citare il nome di ‘Aysha Moqriya [8], che faceva parte degli iniziati al sentiero della fede e ed era tra gli uccelli del cielo della verità, eppure fu famosa per i suoi versi, tra i quali posso citare le seguenti quartine:
 
Splendida cosa se potrò godere del tuo incontro,
splendido sarà ricevere in petto le tue frecce,
ma so che non è possibile per me raggiungerti,
splendido sarà allora attraversare i tuoi pensieri.
 
È un’intera vita che m’abituo al tuo dolore,
da te nascosta, con te ho vissuto mille amori,
e mai ti ho detto tutto questo, perché mai io
mi son vista degna della tua presenza.
 
E molte altre poetesse persiane, come la Dama Padeshah e la Dama Qotloghshah [9], a loro volta e a misura del proprio talento si sono messe alla prova in questa piazza e hanno sciolto le briglie della loro arte poetica. Anche io allora, seppur donna, seguendo il loro esempio ho imitato la loro audacia, anche se, come dicono:
 
L’arte del verso non è cosa da tutti
la mercanzia della poesia non è per tutti,
la Parola richiede grazia e raffinatezza d’animo,
non c’è poesia, senza il ricorso alla Sapienza.
 
Alla universale pietà e al profondo favore di tutti gli uomini di scienza, gli intellettuali e i letterati chiedo che, davanti al modesto talento e alla povera mercanzia poetica di questa donna, senza alcun indugio e senza nascondere alcuna repulsione esprimano il proprio parere. E quando rileveranno le mie imperfezioni e le mie cadute di stile, prego che mi concedano l’onore, fin dove possibile, di correggere i miei versi così che la poesia di questa Dama non permanga nel buio della mediocrità.
 
Non se la prendano a male per ogni difetto:
che i grandi non ne vogliano a chi poca cosa vale.
 
***
 
 




 
















I. Come le donne malfido [10] 
 
Chi sia afflitto da incurabili, atroci dolori
solo dalle tue labbra potrà ricevere la cura.

Fa che da quella fonte mi sgorghino stille sulle labbra:
prima che l’anima mi scivoli presto via dalla bocca.

Come potrei mai davanti al tuo viso serrare gli occhi
[all’anima
quand’anche le frecce fendessero da parte a parte il mondo
[intero?

Tu sei tutto anima e portasti via da noi il cuore
come potremmo mai parlarti da commuoverti nell’animo?

Occhi miei vi scongiuro, cessate di versar sangue adesso!
Abbiate pietà delle pupille, ospitate nella casa dello
[sguardo.

Come le donne malfido non esserlo mai più, e ricorda
che degni del gioco d’amore solo i maschi lo sono.

Ubriacami come si deve con il vino d’amore
perché lo sai: ebbrezza è il costume dei veri libertini!

Misero questo cuore sorpreso dal tuo addio,
fin quando vagherà smarrito per amore?

Quesito giusto e dritto come il cipresso del tuo corpo,
ma sappi che senza il tuo viso il Mondo ci è prigione!





II. Mi ritorcesti tutta [11]

Dai tuoi boccoli febbrili torsioni mi son crollate nel cuore,
e da quel momento per il tormento ogni notte
scompigliati e sconvolti i sogni miei.

Per tutta la notte s’è fatto ospite il mio sguardo alla tua
[immagine,
e servirò sangue come vino dagli occhi al banchetto del
[tuo ricordo.

Dai due occhi disfatti verso il sangue del cuore nella
[coppa,
e del mio ventre faccio carne da offrire arrostita.

«Un solo sguardo, ti prego – dissi –
lancia al cuore mio spaccato!»
E quali parole sentii pronunciare
dalla grazia dell’amato!

«Più di questo – implorai
– non torturarmi!»
ché nelle pene della partenza
ho versato dagli occhi
il vino più rosso.

Ogni pazienza portasti via del cuore impotente e ferito,
mi ritorcesti tutta con la mano sanguinante dell’addio.

Al Mondo velata non si può vedere la luna,
oh, ti prego, luna è il tuo volto, discostali quei veli!




 
III. Due rivoli di sangue [12]


Non ancora portati al mondo dalla madre del tempo
che slacciammo l’anima all’amore per lui.

Legammo poi il cuore alle ciocche dell’amato
e subito dagli occhi sgorgarono due rivoli di sangue.

Come rondini esperte noi a solcare l’aria
quando di rovina cademmo nel laccio del cuore.
Oh se mai, così storpiati per amore,
ci avesse partoriti la madre del tempo!

Se a notte come i tuoi occhi siamo ubriachi,
sul far del giorno le tue labbra c’inebriano.

Nel fuoco dell’addio siamo acqua di ruscello
e sul suolo del Mondo trascorriamo come vento.





IV Radice in mezzo ai nostri occhi [13] 

Aggrovigliate e lucenti, come le volute dei tuoi capelli
hai scagliato in noi le fiamme,
d’ora in poi non slacciarli i tuoi boccoli
e non torcere via da noi lo sguardo tuo.

Fino a quando resterai celato agli occhi del mio cuore?
Chi mai l’ha visto il sole avvolgersi in un velo il volto?

Astro ardente è il viso tuo, per il suo fulgore infiamma
il cuore nostro, sollievo non esiste se non al chiaro di luna.

Luna è il tuo volto, non tenerlo lontano da questa sgraziata.
Può mai il sole tener lontani da sé i fasci di luce?

Rimedia con una cura alle afflizioni di chi in amore soffre,
[lo sai,
giusta ricompensa si profila per chi offre rimedio agli
sventurati.

Oh cipresso elevato, metti radice in mezzo ai nostri occhi
[piangenti,
sai bene che è il pelo d’acqua la casa per il cipresso che
[ondeggia.

Si è acceso un fuoco nel cuore nostro, pietà, pietà!
È come acqua corrente ormai il sangue che versiamo
[dagli occhi.

Mi dissi che con la tua giustizia splendente in eterno
si sarebbe fatto il Mondo, ma adesso ne sono certa:
in rovina la vuoi la Dama del Mondo!





V. Sull’amarezza delle notti [14] 
 
Sull’amarezza delle notti lo giuro
e sull’addio,
sul mattino dell’incontro,
lo giuro sui due occhi dell’amato,
narcisi di magia,
lo giuro su quel neo
e sulla fine barba che appena spunta.

Lo giuro su quei capelli increspati
a spargere rivolte,
irruenti, sanguinari, tremendi,
lo giuro su quelle folte sopracciglia
che della mezzaluna hanno il profilo.

Lo giuro sul fuoco nelle gote dell’amore mio,
che di papavero ha il volto,
lo giuro su quella bocca che d’acqua sorgiva
le perle sparge.

Lo giuro, mi si oscura il mondo in faccia
anima mia,
quando da me tu sei lontano,
mi si struggono l’anima e il mondo in mano
lontano dal tuo volto.

Felice sia ad ogni respiro
il tuo cuore
nel volgere dei giorni,
e t’accompagni e ti salvi
e ti protegga Iddio
ad ogni momento.

Carezzami, per una notte,
con il tuo abbraccio
ché per il tuo addio
s’è disfatta la mia veste
nel sangue degli occhi.

Di torturare gli sgraziati
chi te lo ha mai detto?
Chi fu a rendere a te lecito
il sangue di un’intera città?

Al culmine della passione
m’è giunta la vita,
me misera,
eppure oltre ogni limite
perfetta la tua bellezza
che al cuore s’apprende.

Ascoltami, cuore,
come flauto non gemere
per mano dei rivali,
e non amare in due direzioni
come le facce del tamburo,
basta ormai,
non piangere ancora
come cetra impazzita!





VI. Il prezzo infame dello stagno [15]

Non mi resta che l’ardore bruciante, come fossi candela
[alle fiamme:
sottile in mezzo alle folle, addolorata, dalle lacrime
[soffocata.

Te ne stai nella grazia del tuo riposo, lontano dal mio pianto
ma non giunge alle orecchie tue il tormento del mio lamento?

Ha fatto di me stagnola accartocciata il dolore
[dell’amato che va via
e la pena d’amarlo, nelle pozze dell’anima mi fece
[ristagnare il cuore.

Per l’intera notte sino all’alba sfioro il guanciale di
[chi voglio
e m’assottiglio, fatta fiaccola piangente nell’addio agli
[amati.

Maledetti, maledetti questi vili astri che come scellerati
svendono l’argento, al prezzo infame dello stagno.





VII. Quelle labbra rosse a coppa [16]

Mecca è la tua casa, guarda come in tondo vortica il cuore mio
mentre l’anima sfacciata pretende la fortuna di baciarti il
[volto!

Implorai che una notte venisse a stringermi con baci e carezze
«Basta! – mi disse – sta zitto, basta con questi vaneggi!»

Non importa se acqua pura oppure inebriante lordura: nella
[bocca
di noi assetati versa qualche sorso da quelle labbra rosse a
[coppa.

Potrai graziarci, o trapassarci con la spada della collera:
altro peccato non grava su di noi, se non l’averti servito.

Nulla è la voglia in cuore tuo di darci piacere con le labbra
ci basterà allora un solo sguardo, dagli occhi tuoi d’affetto.

Ritorna, ché per te sofferente la Dama del Mondo perde
[i sensi
e il senno quando l’urlo suo oltrepassa la soglia delle stelle





VIII. Roseto di dolore [17]

Il dolore adesso è l’amore mio e io son l’amore del dolore
è il dolore ad alleviarmi il dolore e al dolore faccio lieve
[il dolore.

Altri amati e confidenti ormai non ho se non il dolore
[d’amarti
coglierò forse infine una rosa da questo rovo di dolore?

Il fuoco d’ingoiar dolore gettò alle fiamme la mia bellezza
chi vorrà più comprarci adesso alle porte del mercato
[di dolore?

Io non passo certo inosservata nella strada della pena
[per te:
acqua scrosciante dagli occhi e sangue sul petto: i
[segreti di dolore.

Si spezzò la schiena di speranze in cuore, gravata dalla
[tua violenza:
ad ogni respiro si caricò sempre più con il peso del dolore.

Il mio ventre è martoriato, apri a me gli occhi del tuo
[favore
guarda sul volto dell’anima mia tutte le cicatrici del
[dolore.

Dalle ciglia verso acqua all’arbusto del nostro abbraccio
di respiro in respiro è lambito dalle fiamme il cuore
[mio per dolore.

Eppure d’incontrarti non posso godere, te ne scappi da me
e non vedo altri frutti spuntare dai rami gravati dal dolore.

Tutti al mondo cercano la gioia, il diletto e una vita serena,
perché mai il cuore mio a pezzi se n’è andato al roseto
[di dolore?






IX. Un’ ora di abbracci [18]

Oh tu dai fianchi sottili ascoltami,
m’abbraccia il sangue se tu non m’abbracci,
io dalle rive dei tuoi fianchi quanto ancora alla deriva?

Dov’è la fortuna di stringerti a me per un’ora d’abbracci
là, dove con favore tu venga a baciarmi?

S’appresero ai miei occhi gli occhi tuoi,
– oh tu che per me sei sguardo e fiaccola –
fluenti dagli occhi miei vedrai fonti di sangue!

Diglielo tu vento, a lui che ha il cuore di granito,
violento ma bello come un dipinto:
gli amici veri non si comportan così con gli amati.
So bene che mai sarò dimentico in cuore
del tuo ricordo e mai via dall’anima
la tua memoria.

Se aspiri all’incontro non volgere il volto
dalla lama d’addio, se della Mecca desideri splendore
non ritrarre le briglie dal deserto.

Per quanto ancora amato mio da me te ne andrai
nella stagione della rosa?
L’usignolo colto da passione non rinuncia al giardino.

Infonde anima al corpo unirsi al tuo corpo
fammi felice, o anima, o Mondo!
Quanto ancora mi terrai smarrita in questa pena?






X. Nell’amarti sono vetro [19]
 
Come sfera scagliata mi disperdo nel deserto del tuo
[andare,
cosa dire allora amore mio di tutti i tuoi soprusi?

Quale polvere al vento hai dato via ogni lealtà, eppure
ai piedi della tua porta vivo, nel suolo dove tu abiti.

L’affanno del tuo addio m’è montagna greve sul cuore,
sole il tuo viso, e d’attorno i capelli come me sconvolti.

Sei tutto sguardo per me, come potrò fiatare da te lontano
se ad ogni respiro è con l’acqua degli occhi che mi lavo il volto?
Mi son detta che forse come pettine le mani potrò baciarti:
oh miseria che nell’amarti sono vetro che su pietra
[s’infrange.

Spada su di me sgraziata la tua violenza, vuoi fendermi
[ancora?
Pianta mi credi, ad ogni momento pronta a rispuntare?

Cento volte più di questo potrai violare il Mondo e
[l’anima,
ma non credere che io dica ai miserabili del tuo sopruso.






XI. Di chi c’invidia non curarti [20] 
 
Statua mia, mazza è la tua violenza e io palla lanciata
come dirò la storia tua violenta e del mio dolermi per te?

Si dispera e piange per me il medico ad ogni momento
perché cercare ancora rimedio al cuore mio spezzato?

Forse non lo sapevi effige mia che disperata dal tuo partire
è con il sangue degli occhi e del cuore che mi lavo il
[volto dell’anima.
Unica mia – per me addolorata – speranza nell’intero
[universo,
e allora degnami d’uno sguardo, di chi c’invidia non
[curarti.

Te lo dico io una volta per tutte: sto morendo nel turbamento
come capelli slacciati attorno al tuo volto mi disfo
[dell’anima.

Finché ci saranno il mondo e l’anima, e in me il respiro
con il cuore e l’anima io percorrerò il sentiero d’amarti.






XII. Ci tatuiamo per te il petto [21] 

Abbiamo riposto il cuore nel desiderio di vederti,
ferro rovente il dolore, ci tatuiamo per te il petto e andiamo
[oltre.

Legammo il cuore ai tornanti dei tuoi boccoli, e in pena
[per te
lasciammo che il sangue sgorgasse dagli occhi spalancati
[e andiamo oltre.

Straziante il tuo addio, e quasi l’anima si fa alle labbra:
ma siamo felici con la sola speranza di vederti e andiamo
[oltre.

Versa dell’acqua sul fuoco del cuore nostro, ché per dolore
siamo come vento a sfiorare il suolo dove cammina amato
[e andiamo oltre.

Da quando sulla terra si sparse notizia dell’amore per il
[tuo viso
consegnammo il mondo e l’anima al tuo ricordo, e
[andammo oltre.
 






XIII. Alla maniera dei pazzi [22] 
 
Un sentiero, l’amare il tuo viso, dove sbadati ce ne
[andiamo,
alla maniera dei pazzi ce ne andiamo per i crinali
[delle montagne.

Vertiginoso sentiero di tornanti scosceso come i capelli
[dei belli,
meglio sarebbe che ce ne andassimo sulla luna con
[l’immagine del suo volto.

Dell’incontro nostro non m’arriva più alcun profumo
[alle narici,
vieni qui cuore, incamminiamoci ancora per qualche
passo.
Come freccia sottile di pioppo è letale lo sguardo di
[chi ami,
l’anima fatta scudo, ce ne andiamo verso il dardo di
[dolore.

Rovina per i popoli del mondo gli occhi suoi, cosa farò?
Forse ce ne andremo più lontano, ben oltre la caduta.

Nella nostra terra non abbiamo avuto alcuna fortuna,
vieni cuore, vieni presto, ce ne andremo verso
[un’altra città.

Oh dolcissima vita mia, mostra il volto tuo lunare
e ce ne andremo fuori di noi, trafitti dai tuoi raggi.






XIV. Come fiore scarlatto [23]

Mi s’insanguina ad ogni respiro il cuore nell’amarti,
e poi è dagli occhi che riverso il sangue del cuore.

Giallo lucente di dolore si fece il mio volto per te,
ma di nuovo poi come fiore scarlatto
per le lacrime mie di sangue.

So bene che fievole era il mio ricordo nel petto tuo
eppure a dismisura nell’anima s’accresceva l’amarti.

Slanciata ero come una I quando mi stringevi a te
ma adesso guarda come Z si spezza
la mia schiena per il tuo abbandono. [24]
Un tempo eri incline a me, mi volevi,
ma che importa se incostante d’ora in ora è la tua natura?

Ascolta cuore, non proviene da chi stringe il cuore
questa violenza, sarà forse la sorte avversa
che tutto così nero dispone.

M’ero decisa a liberare il cuore e l’anima
sulla strada del tuo amore, per vedere quali strade
avrebbero un giorno percorso.

È di roccia il cuore di chi ci stringe il cuore,
e non si cura di noi se sanguina poco a poco
il ventre della Dama del Mondo.






XV. Come i capelli dei belli la vita [25]

Lunga come i capelli dei belli la desidero la vita,
ché io ti parli ancora – per un respiro – delle mie pene.

Poserò la bocca accanto al tuo orecchio per parlarti
del destino del Mondo, ché tu, mosso dall’affetto,
conceda uno sguardo a questa sgraziata.

No, a nessuno potrò raccontare il mistero d’amarti,
nemmeno al vento potrò parlarne, incapace di serbare i
[segreti.

S’affretta verso il suo termine l’incontro nostro,
come la vita, benché lunghe notti io mi lamenti
e pianga nel tuo dolore.

Era come fiaccola l’anima del Mondo,
davanti alla figura di luna del tuo viso,
a bruciare, nelle fiamme dell’addio.

«Per te, io addolorata,
mi è arrivata alle labbra l’anima»
imploravo piangendo,
e tu mi ripetevi che «sì, sventurata,
dovrai sopportarle queste pene».

Cosa può fare questo povero cuore
per sostenere il tormento d’amarti,
in nessun modo sul falco può avventarsi la fragile
[colomba.

L’uccello dell’anima
di questa sventurata, nel volerti,
solo questo può fare:
volare dritto verso il tuo vicolo.

Oddio,
ti scongiuro,
ritorna, anima mia
ritorna al mio corpo anima,
perché dicano infine
che sì, trascorsa è la vita,
ma tornata è l’anima al petto
della Dama del Mondo.






XVI. Gravido è il tempo [26] 

Per me forse una porta dall’occulto spalancherà il
[Creatore,
e per grazia sua mi segnerà la via per giungere alla tua
[casa.

Spezzato è il mio cuore, eppure speranzosa ancora
nella Sua misericordia:
forse scioglierà il nodo dei nostri stretti affanni.

Più a fondo per le tenebre potrà trascinarmi la notte
[dell’addio,
così che d’improvviso il sole del tuo abbraccio mostri il
[suo volto.
Per la violenza degli astri su questo cuore martoriato
l’intelletto si sconvolge e colto da stupore
si morde le mani.

Tanto profonde son le ferite dell’animo
per la lama del tuo tormento
che solo la divina grazia potrà curarle.

È gravido adesso come madre il tempo
della Dama del Mondo,
attendiamo pure per vedere che cosa da lì ancora
verrà al mondo.





NOTE: 
 
* Nell’impossibilità di riprodurre la metrica dell’originale (basata su un sistema quantitativo) la traduzione è stata condotta in modo libero, ma con una forte attenzione alle variazioni semantiche dettate dagli aspetti formali del dettato persiano. Le proporzioni tra distico ed emistichio sono state rispettate in modo da riprodurre le pause ed il respiro del verso persiano, mentre la rima (che nel caso del ghazal segue lo schema aa ba ca) è stata sostituita, ove possibile, dalla ricerca di consonanze interne, assonanze, anafore e ripetizioni. La densità idiomatica del linguaggio poetico persiano, soprattutto per quanto concerne metafore, similitudini ed espressioni allegoriche entrate a far parte del canone letterario, è stata molto spesso mantenuta in modo da mostrare per intero la potenza figurativa dell‘immaginario classico. In alcuni casi, tuttavia, è stato necessario sciogliere le metafore al fine di rendere più scorrevole la lettura del testo in traduzione. In generale, seguendo il principio traduttologico della compensazione, si è cercato di rendere non tanto il senso della lettera, quanto l’effetto estetico che quella stessa lettera dovrebbe o potrebbe generare.
1 È a cura di Dominic Parviz Brookshaw l’intervento più completo, dal taglio storico-biografico, sulla poetessa: Odes of a Poet- Princess: the Ghazals of Jahān-Malik Khātūn, «Iran», 43 (2005), pp. 173-95.
2 Le traduzioni sono tratte dalla prima e unica edizione integrale del canzoniere della poetessa, Divan-e Kamel-e Jahan Malek Khatun, a cura di Purandokht Kashani-Rad e Kamal Ahmadi-Nezhad, Tehran, 1995. Chiediamo venia per l’adozione di un sistema semplificato di traslitterazione. Lo specialista saprà ricostruire facilmente i punti diacritici omessi per agevolare sia la lettura da parte del lettore non avvezzo alla frequentazione dei testi persiani.
3 Traduzione nostra. Il trattato è stato introdotto, tradotto e commentato in modo eccellente da Carlo Saccone: Ahmad Ghazali, Delle Occasioni Amorose, Roma, Carocci 2007.
4 Parziale citazione coranica (95:4), in arabo nel testo.
5 Secondo alcune fonti islamiche tradizionali Dio avrebbe manifestato all’umanità la propria onnipotenza attraverso miracoli specifici delle arti in cui gli uomini eccellevano in tempi diversi. Il miracolo del bastone di Mosè sarebbe servito a contrastare i sortilegi dei maghi del Faraone mentre il potere di Gesù di portare in vita i morti deriverebbe dall’eccellenza medica del proprio tempo. Il Corano è qui presentato come miracolo della parola, discorso di insuperabile eloquenza rivelato a Muhammad, tradizionalmente ritenuto illetterato. Cfr. I. Zilio-Grandi, Il Corano e la letteratura come miracolo, in Mappe della letteratura europea e mediterranea. Vol. 1: Dalle origini al Don Chisciotte, Milano, Bruno Mondadori 2000. La rappresentazione della Parola come miracolo e tratto distintivo della superiorità dell’uomo su tutte le creature diventerà, soprattutto fra Trecento e Quattrocento, un luogo comune in seno alle riflessioni persiane sul valore sacrale e della poesia e in difesa della sua legittimità. In questo caso è interessante notare come la poetessa, citando sia il miracolo di Cristo che la natura divina della parola coranica, prepari il terreno affinché la poesia sia associata non solo a un afflato dal potere vivificante ma anche all’origine trascendente del linguaggio.
6 Non è la prima volta che la Dama del Mondo menziona la contrapposizione tra queste due parole, majaz e haqiqat, che traduciamo riduttivamente con «metafora» (per questioni etimologiche) e «realtà trascendente». In realtà i due termini nascono molto presto in seno alle riflessioni islamiche d’espressione araba sul senso del linguaggio e il suo rapporto con il mondo. Per majaz si intende linguaggio figurato, e originariamente indica il senso delle espressioni linguistiche, una sorta di interpretante in termini Peirciani, mentre haqiqat è il significato concreto della figurazione e originariamente si riferisce alla realtà contingente cui una parola rimanda. È sorprendente come, nella riflessione mistica persiana, haqiqat, da realtà concreta esteriore, sia passato a significare piano trascendente cui rimandano i segni che si offrono all’esperienza sensibile. Notiamo come sia stata una poetessa, le cui canzoni sono apparentemente basate sull’esclusivo registro erotico, a far convergere per la prima volta il piano retorico e il piano mistico della riflessione sul rapporto tra majaz e haqiqat nello spazio del pensiero intorno alla legittimità del fare poesia.
7 In arabo nel testo.
8 Poetessa di espressione persiana vissuta tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Pur non disponendo di alcuna informazione biografica sul suo conto, la presenza di alcuni suoi versi in diverse antologie e raccolte biografiche del tempo ci fanno pensare che, quantomento dopo la sua morte, il suo nome fosse piuttosto noto.
9 La prima è una principessa mongolo-persiana che governò per alcuni anni la regione di Kerman prima di essere assassinata nel 1295. La seconda potrebbe essere la nipote di quest’ultima, meglio nota come Qotloghkhan (m. 1383), andata in sposa nel 1328 a Shah Shoja‘, patrono di Hafez (e probabilmente della Dama del Mondo) che governò a Shiraz prima tra il 1358 e il 1363 e poi tra il 1366 e il 1384.
10 N. 662, p. 243.
11 N. 47, p. 26.
12 N. 1082, p. 392.
13 N. 56, p. 29.
14 N. 874, p. 319.
15 N. 848, p. 310.
16 N. 855, p. 312. Rendiamo sgraziatamente un verso, l’ultimo, in cui la poetessa menziona i nomi delle consonanti della parola che significa ‘stelle’, falak. Letteralmente in italiano potrebbe suo- nare come: la soglia della ‘esse’, e ‘ti’, poi ‘e’, e la ‘elle’, la ‘elle’ e la ‘e’. Ma in traduzione abbiamo preferito adottare un espediente grafico ‘futurista’, in modo da evocare il modo con cui la poetessa ha mostrato i limiti del significante oltrepassati dall’urlo di dolore dell’io lirico.
17 N. 1008, pp. 366-7.
18 N. 1118, pp. 404-5.
19 N. 1113, p. 403.
20 N. 1107, p. 401.
21 N. 1104, p. 400.
22 N. 1103, p. 399.
23 N. 679, pp. 249-50.
24 Traduciamo con I e Z, due lettere dell’alfabeto arabo persiano che per forma dovrebbero ricordare una schiena dritta (la ‘alef’: ا , che corrisponde foneticamente alla ‘a’) e una dorso ricurvo (la ‘nun’: ن che corrisponde alla nostra ‘n’).
25 N. 779, p. 286.
26 N. 711, pp. 260-1.
 
 

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Il testo-natura. Presentazione di Semicerchio 70 e 71, Roma Sapienza.

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