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GUY GOFFETTE, Un manteau de fortune, suivi de L’adieu aux lisières et de Tombeau du Capricorne, préface de Jacques Réda, Paris, Poésie / Gallimard 2014, pp. 297, € 7.
 
Il dialogo tra tre poeti – Paul de Roux, Guy Goffette e Jacques Réda – fa di questo volume una testimonianza della vitalità poetica di una generazione non biograficamente giovane. A differenza del tono contemplativo della premessa che Goffette dedica a de Roux in Entrevoir[1], quella di Réda a Goffette è, in accordo con la propria vena gallica di bon vivant metropolitano, un «avant-propoème» (p. 7) de ambulatorio in versi. Centrale è, infatti, la funzione assunta dal ritmo che, sostenuto, fa tutt’uno con l’andamento frettoloso ed euforico del piéton parigino. Il congedo di questa dédicace si pone ancora una volta sotto il segno di un sodalizio umano e poetico: «la vieille muse, / […] je ne doute pas qu’elle t’aime, Goffette, / Comme ceux qu’elle a fait mourir, qu’elle dévergonda, / Et c’est pourquoi je l’aime aussi. Ton vieux / / Jacques Réda» (p. 10).
Réda interpreta qui magistralmente l’intento che anima la poesia di Goffette, il quale si fonda su un dialogismo improntato alla riscrittura e al palinsesto (dialogismo talvolta palesato dal corsivo, talaltra accolto come discorso obliquo). Il richiamo di voci altre costella infatti il tema sfuggente, evanescente del viaggio: metafora odeporica di un’erlebnis che, evocata sin dall’incipit: «Enfant, je savais comme partir est doux» (p. 19) appare, a differenza di quella immaginifica di de Roux, situarsi piuttosto sotto il segno di una tramatura testuale.
Sin dall’apostrofe che apre programmaticamente Un manteau de fortune: «Ô caravelles», il viaggio si conferma come viaggio del senso tra infiniti ostacoli e détours. Il paradosso portante di questa scrittura – il viaggio e la sua negazione – è subito palesato – per riprendere il Genette di Palimpsestes – dall’antifrasi tra il titolo tematico e il sottotitolo rematico, che investe tanto la forma quanto il soggetto prescelto. Mentre, infatti, l’indicazione «Proses» designa un’opera in versi, un’epigrafe di Rimbaud posta in calce a mo’ di parentetica, recita: «On ne part pas». Richiamato in eco in Adieu châteaux (p. 34) – che reinterpreta la rimbaldiana Ô saisons, ô châteaux intessendovi una celebre espressione tratta dall’Art poétique verlainiano («prends l’éloquence et tords lui son cou») – questo diniego sembra volersi imporre come predicato dell’intera opera, situata sotto l’egida paternamente ribelle della renitenza e del rifiuto di certo facile lirismo: «([…]on ne part pas, tranche R. / en tordant le cou à l’azur qui met / toujours trop de miel sur la queue des vers»).
Prossimi a Goffette per origine – nati alla «lisière» tra la Francia e il Belgio – e vocazione, Verlaine e Rimbaud compaiono di frequente in forme palesi o allusive, attraverso biografemi («Charleville», passim), stilemi (Rimbe de Noël, p. 23; Rondissimo, p. 26, dedicata, tra l’altro, a Jacques Réda), o celebri proclami (si veda il «dérèglement de tous les sens» di Reconnaissez Madame que mourir…, p. 31). Da sempre Verlaine è, di Goffette come di Paul de Roux, implicito interlocutore attraverso la riproposizione di frammenti di testi intessuti nella trama del dettato a costituire, come si ricordava, un palinsesto («L’espoir couleur de paille luit parfois / au fond des cafés» di p. 30 è palese metaplasmo de L’espoir luit comme un brin de paille dans l’étable in Sagesse). Per il belga Goffette l’ardesia, le tegole, la pioggia sui tetti – e insomma un certo retaggio simbolista e decadente cui la citazione conferisce un vago sentore di apparato – hanno, in qualità di materiali desueti, il fascino ironico e crudo del suranné allorché si incontrano – ironia di situazione che già fu verlainiana – con prodotti industriali del tutto ‘impoetici’ (quanto potenzialmente evocativi nel loro significante) come il «triste éternit» (p. 28). Tale ironia, spesso fanciullescamente irriverente come furono quelle del Pauvre Lélian (pseudonimo di Verlaine da lui stesso evocato in un’al locuzione al poeta: si veda Défense de Verlaine, p. 71) e del poeta di Charleville, ha, nel peritesto già ricordato così come nel testo, una valenza metascritturale: nei «vieux dizains» di «Blues a Charlestown» risuona un «faux Lélian» (Faux Lélian, p. 25), mentre Isidore Ducasse, noto come comte de Lautréamont e autore dei beffardi Chants de Maldoror, è eletto a terzo rappresentante di questa paternità tanto putativa e maledetta quanto oramai ‘addomesticata’ da un compromissorio citazionismo lettrista. Un predicato già inscritto nel significante del suo patronimico fa sì che Ducasse sia eletto a «duca» (Ducasse ducale, p. 28). Testimone di una risorgenza (invero mai sopita in Francia, dopo Mallarmé) della scrittura epigrammatica – che ha illustri rappresentanti in Bonnefoy e Deguy – Goffette indica, tra gli altri destinatari di questi apoforeti, Leopardi (p. 203), Valéry Larbaud (p. 78), Max Jacob (p. 73), Jean Follain (p. 201), Yannis Ritsos (p. 75).
Di tutt’altra vena, senz’altro ben più prossima a quella, da lui stesso celebrata, di Paul de Roux, sono i componimenti della sezione «Graines de nomadie» (Un manteau de fortune), dove dominante è il tono elegiaco, tra evocazioni d’infanzia, desiderio d’oblio (Dimanche, p. 51) e rassegnazione (Départ, p. 53) e dove stazioni e case cantoniere punteggiano, come recita il titolo della sezione, le «nomadies» del poeta. O la serie intitolata Petit chansonnier pour Monsieur Thomas (pp. 81 ss.), dove la mitologia greca assume tinte nostalgiche e decadenti; o, ancora, l’Adieu aux lisières (pp. 135 ss.) centrato sul tema del passaggio e della morte in chiave cristiana, e anch’esso costellato di passerelle e limitar di foreste («lisières»): soglie, queste, non di testi, bensì di destini. Vi è un ulteriore tratto che accomuna Goffette a Paul de Roux: il tributo alla pittura. Le relèvement d’Icare (p. 109 ss.) è un esteso commento ecfrastico a Paysage avec la chute d’Icare di Bruegel.
Se, come scriveva Verlaine ne L’aube à l’envers, «tout est dans la marge / que fait le fleuve à ce livre parfait», il margine è lo spazio prescelto da Goffette che abita, paradossalmente, una soglia, un peritesto: «Tout est dit, / mais le plus dur nous reste: / / trouver la juste dédicace» (Aux marges, I, p. 191). Ed è, appunto, una «lisière» che occupa Paul de Roux cui è dedicato, in accordo con la vena epigrammatica del poeta belga, Tombe au du Capricorne (pp. 247 ss.). Epigrafi tratte da Au jour le jour, il diario di Paul de Roux, delimitano en abyme, situando si all’inizio e alla fine della sezione, questo spazio peritestuale. Al centro, due sezioni dai titoli eloquenti: «Le poids du silence» e «Élégie pour un ami» seguite da «Paul de Roux. Une bibliographie à la dérobée», che ripropone in versi, richiamandosi alla recenziore raccolta di de Roux (À la dérobée, 2005), il dialogo con il poeta sodale nelle forme già sperimentate con Verlaine e Rimbaud. E si comprende dunque la ragione per la quale il discorso proemiale di Jacques Réda non poteva essere altro che in versi, e in forma di «avant-propoème».
 
(Michela Landi)


[1] P. de Roux, Entrevoir, suivi de Le front contre la vitre et de La halte obscure, préface de G. Goffette, Paris, Poésie / Gallimard 2014.


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