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MARIO BENEDETTI, Tersa morte, Milano, Mondadori 2013, pp. 92, € 16,00.
 
«Misurarsi con il limite invalicabile della morte, significa venire ai ferri corti con il senso del nostro rapporto con la realtà, approdare alla testimonianza ultima dell’indissolubilità del vincolo che ad essa ci lega: ogni cosa si risolve in noi, ci appartiene per il poco (ma che è tutto) che vale questa appartenenza» (M. Benedetti, Note su ‘Composita solvantur’, in Dieci inverni senza Fortini, Quodlibet 2006). Queste parole di Mario Benedetti risalgono a dieci anni fa: vengono pronunciate durante una giornata dedicata al decennale della morte di Franco Fortini. Benedetti sta commentando Composita solvantur (Einaudi 1994), ma in realtà definisce qualcosa che riguarda la propria scrittura. La riflessione sulla morte come parte e limite di ogni esistenza attraversa tutta la sua opera: la bocca dei defunti e il loro ricordo nei paesaggi di Umana gloria, la donna che sta per uccidersi in Che cos’è la solitudine (in Umana gloria, 2004) e le figure dei poeti suicidi: il sangue di Esenin e l’ultima pagina di Nerval in Log, Ambleteuse (Umana gloria), i versi di Beppe Salvia in Materiali di un’identità (2010), l’immagine di Paul Celan sulla Senna in Pitture nere su carta (2008), e il volto del padre in apertura dello stesso libro. In Materiali di un’identità, Benedetti scrive a partire da testi di altri autori; anche in questo caso l’affinità è sempre nel modo di esprimere la finitudine umana. Uno dei primi riferimenti è al George Bataille di L’esperienza interiore: «Non siamo tutto, anzi, in questo mondo abbiamo solo due certezze: di non essere tutto e di morire». La tensione verso «l’estremo del possibile» e lo stato di angoscia come condizione della scrittura portano Benedetti a comporre questi versi: «La bellezza delle lacrime. La trasparenza. / Tutto è vicino e lontano. / Io a frammenti di te, di noi». Nelle pagine successive commenta la Nona delle Elegie duinesi di Rilke; qui si legge che l’uomo non ha senso di continuità fra sé e il mondo, ma riesce ad entrare in contatto con le cose attraverso una forma di sentire in eccesso, cioè vivendo la propria morte. Ad una prima lettura, l’ultimo libro prolunga questa riflessione. Tersa morte riprende soprattutto i versi lunghi, le prose, la figuratività di Umana gloria; il confronto dell’autore con alcuni decessi reali rende la «perfetta assenza» ancora più pervasiva («Sono questo, questa mortalità / che mi assedia, che si concentra / negli occhi, nelle mani»). La morte ora lascia tracce ovunque: nella pellicola e nel vento che riporta la voce della madre in Video (dove si ripete due volte il verso «Evapora il morire»); nell’immagine di una bambina sconosciuta che gioca con la sedia del padre nella prima poesia del libro; nell’orto che rievoca il ricordo di Andrea Zanzotto nel testo a lui dedicato. Pensare alla morte è un modo per vedere «nuda la vita», che è condotta in uno stato di paralisi: «Ci si sporge dall’esterno della vita nella sua paralisi, / si vede vivere quelli che sono / diventati una cosa»). Può capitare di vivere nell’inconsapevolezza («[…] Cantano, / hanno faccende di cui occuparsi, / quasi quotidianamente si sentono eterni»); proprio per questo una sezione si intitola Non distrarti: è un ammonimento, un imperativo che chi parla rivolge a sé e a tutti. Non distraiamoci dal fatto che la morte annullerà ogni cosa, farà di qualsiasi vita un accumulo di sassi e zolle (sono parole ricorrenti sia in Umana gloria, sia in Pitture nere, sia in Tersa morte). Per le prossime generazioni ciò che ora sembra costituire il senso di una vita intera non avrà alcun significato, come si legge nella poesia in cui c’è un’apostrofe al padre: «Padre morto, ci sono altre generazioni. / Non sei stato la storia, sei stato l’umiltà / delle cose minute. Ma a chi importa? / Hanno già saputo dimenticarci, catalogare / uomini con uomini, donne con donne». Fin qui, dunque, si potrebbe parlare di completa continuità fra la poesia più recente di Benedetti e la sua opera precedente. Ma in Tersa morte ci sono almeno due novità rilevanti: la prima riguarda la voce dei testi; la seconda è una riflessione sul senso della poesia. In Umana gloria «le cose che si vedono / sono storie di gente morta»: il linguaggio è uno strumento per preservare la memoria di frammenti di mondo; lo sguardo di chi scrive è ciò che dà identità all’io. Tersa morte si apre con una sezione composta da un solo testo (Transizione), che introduce una figura diversa dall’autore: «Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello, / o gli scrive». Il sosia ritorna in varie pagine e prende la parola nella quarta sezione (Il sosia guarda), dove dialoga con il fratello («[…] eri tu, quella cosa, eri tu, / quella cosa, eri uno che è morto») e con la madre. Ma chi parla, dunque, in questi testi? Nella poesia contemporanea italiana l’uso di interposte persone o di figure dell’io rappresenta una costante a partire dagli anni Sessanta. Nel caso di Benedetti, però, la voce non si limita a sdoppiarsi, ma abbandona il soggetto di partenza e diventa multipla. Chi dice io nella terza sezione è la madre morta («Le madri sono così sole con i loro bambini. / I figli hanno solamente le nostre ossa. / Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / Io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta»); nella settima, Altre date, sono Carmen, Maurizio, Marta («E seduta contro la parete… / Morto il padre, morto io… / Un aborto, diciott’anni…»); è Marco nella sezione intitolata Idiot boy (dove si allude ad un poemetto omonimo di William Wordsworth). Talvolta c’è qualcuno (il sosia?) che dialoga con loro: «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche». Si sovrappongono i punti di vista, le voci e i piani temporali, «si diventa altri occhi per morire dovunque»: è il 1977, è il 1960, è il 2010. La rappresentazione del mondo è un mosaico di frammenti in cui il soggetto corrispondente all’autore si dissolve («Ma tu, io, ti togli da me» si leggeva già in Materiali di un’identità, nella poesia L’azzurro). A questa scomposizione del soggetto si intreccia una riflessione sulla scrittura. Le parole per vivere gli altri, per dirne la morte e preservarne il ricordo, in Tersa morte falliscono: «Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità / commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia. / Le parole hanno fatto il loro corso»; «Futilmente presente è la parola, anche questo dire». Benedetti mette in discussione la possibilità che il linguaggio – e, dunque, la poesia – aderisca alla realtà («Il preciso mangiare non è la minestra / Il mare non è l’acqua dello stare qui») e possa rappresentarne una parte fondamentale, cioè quella della morte: «le parole non sono per chi non c’è più»; «Morire e non c’è nulla, vivere e non c’è nulla, ho perso le parole». Il trauma causato dall’osservazione diretta della morte - che è innanzitutto materia, corpi freddi in dissoluzione, testimonianza della fine degli altri – è annichilente. «Non posso scrivere di un giallo che mai riconoscerete, non leggete più»: così si conclude la settima sezione (è una poesia già presente in Materiali di un’identità, che qui ha alcune varianti). Accorgersi della distanza fra uomo e realtà vuol dire rendersi conto della presenza della morte. Essere è essere per la morte, sempre; ma la poesia non può nulla. Eppure, la scrittura rimane. «Lettura amara è La ginestra del poeta»: citando Leopardi la poesia di Benedetti riparte da una nuova contraddizione, e da un nuovo senso del limite.
 
(Claudia Crocco)

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