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« indietro GIULIO MARZAIOLI, Arco rovescio / Inverted arch, English translation by Sean Mark, Colorno, Tielleci 2014 (Benway Series, 5), pp. 96, € 10,00.
Da anni, ormai, Giulio Marzaioli ha preso a esplorare un terrain vague non molto frequentato, situato ai confini tra letteratura e arte, per adoperare subito due termini espliciti e alquanto ingombranti. Per dirla ancor meglio, il suo lavoro di poeta procede in una direzione che, all’ingrosso, si potrebbe definire come spazializzazione della parola. Si tratta di un percorso ben definito all’interno del quale le precedenti Quattro fasi hanno costituito uno snodo essenziale e di cui Arco rovescio rappresenta probabilmente il campione estremo, ove la perlustrazione di tale spazio intermedio si fa di gran lunga più evidente. Mai come in questo caso, infatti, ci si trova davanti a un libro che potrebbe valere di per sé, quale puro prodotto visivo (a Marzaioli è caro il termine installazione), giacché tanto l’alternanza tra scrittura e immagine quanto, soprattutto, lo stesso disporsi delle parole sulla pagina danno origine a un qualcosa che attiene maggiormente, appunto, al dato spaziale che alla temporalità propria del testo letterario. Il nesso più evidente che lega questo nuovo libro ai precedenti è la presenza ossessiva del bianco sulla pagina, di quel bianco che scaturisce dalla scomparsa progressiva dei vocaboli. È, questo, una sorta di basso continuo che innerva da anni la scrittura di Marzaioli, una delle sue etichette peculiari, e non solo la scrittura, poiché tale presenza ossessiona anche le sue opere visive (penso in particolare all’accecante Cavare marmo). Accade dunque che la parola e l’immagine (fotografica) vengono sottoposte al medesimo procedimento di alterazione, condotto per mezzo della cancellazione e della sottrazione. Ciò non implica necessariamente l’annullamento del senso (circostanza in effetti non contemplata nel progetto), bensì una sua alterazione, dalla quale scaturisce anzi una risignificazione: resta comunque possibile, infatti, «fare i nomi sottraendo», come si legge nel testo. Il carattere ibrido e sfuggente dell’opera, che certo non si risolve nella misura delle quasi cinquanta pagine che la compongono, traspare anche da altri segnali, a cominciare segnatamente dal titolo (l’arco rovescio è la parte invisibile e interrata dell’arco vero e proprio, una sorta di suo doppio fantasmatico) per continuare con le note a piè di pagina, alle quali sembra ascritta una duplice funzione. Esse, al pari dell’arco rovescio, da un lato alludono a un fuori, a un campo esterno al libro – con una tensione centrifuga abbastanza tipica di Marzaioli –, dall’altro costituiscono una specie di elemento testuale di risulta, utilizzato nella sua veste di mero materiale che contribuisce alla realizzazione del libro. Occorre comunque insistere sul titolo: l’arco rovescio rimanda ancora una volta alla dimensione spaziale del testo, ma implica innanzitutto la realizzazione di una struttura portante, di un contenitore (in questo caso di ordine testuale) entro il quale si verificheranno degli eventi. È per questo che a Marzaioli si potrebbe attribuire il titolo di ingegnere di testi, dal momento che la tecnica che sta alla base del dispositivo testuale ha un ruolo essenziale. Si ribadisce così la duplice natura di Arco rovescio, che è insieme libro (termine peraltro ricorrente con una certa insistenza), inteso quale oggetto strettamente materiale, e testo dotato di un senso. Se, come si è detto, il procedimento della cancellazione non annulla il senso, occorre aggiungere che, sia pure allusa ironicamente con l’ausilio delle virgolette, la letteratura è ben presente in queste pagine. Marzaioli osa addirittura convocare direttamente il nume assoluto, ossia il mito, insieme ai suoi corollari, l’eros e il sogno. E si tratta di un mito di quelli davvero intralcianti, dal momento che le figure in movimento sulla scena della pagina sono Apollo e Dafne (di qui, anche, il contrassegno metaletterario dell’intera operazione). Rappresentano, tutti questi elementi, quasi dei tabù per le varie scritture di ricerca contemporanee, proprio perché troppo connotati in chiave letteraria (e forse anche troppo novecenteschi). Quel mito sognato, alluso, distorto, semicancellato, finisce allora per trovare una nuova significazione, per raggiungere un’ulteriore misura interpretativa. Nella dedica (al figlio), si legge: «doveva essere un libro di fiabe»; segno che, malgrado le intenzioni, le fiabe hanno lasciato il campo al mito. Scriveva Walter Benjamin che la fiaba «ci mostra i primi artifici adottati dall’uomo per dissipare l’incubo mitico». Così essa, ancorché sconfitta, serve da antidoto al mito, alla letteratura nella sua apparenza di istituzione vincolante. E dunque Arco rovescio si può leggere, forse, quale tentativo di infrazione di un tabù.
(Massimiliano Manganelli)
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