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VITTORIO SERENI, Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori 2013, pp. XXX-1230, € 24,00;
Frontiera. Diario d’algeria, a cura di Georgia Fioroni, Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore 2013, pp. CIV-440, € 40,00;
Carteggio con Luciano Anceschi. 1935-1983, a cura di Beatrice Carletti, Prefazione di Niva Lorenzini, Milano, Feltrinelli 2013, pp. 384, € 20,00.
 
L’utilità di parlare di questi tre volumi insieme non ha bisogno di molte giustificazioni. Come tasselli che perfettamente si integrano l’un l’altro, queste edizioni pensate per il centenario della nascita di Sereni (Luino, 27 luglio 1913 - Milano, 10 febbraio 1983) vogliono contribuire a qualcosa di meglio di una semplice celebrazione di circostanza: e tale da potersi prendere – sul piano storiografico – a fondamento di una nuova prospettiva. Si tratta di un’importante acquisizione di testi, che in questo momento si presentano al lettore come edizioni solide: ciascuna attrezzata (nel modo che vedremo) di un solido collegamento tra la poesia sereniana e le prose dell’autore che ne ricostruiscono il quadro genetico. Ma ecco subito un’osservazione. A una simile possibilità di aggiornamento resta associato un notevole problema di fondo, che riguarda la storia della tradizione di un ‘classico’ – di un’esperienza fondativa, cioè, con cui noi periodizziamo l’evoluzione del Novecento italiano – e l’alone ideologico che il passaggio da un universo di ricezione all’altro comporta. Bisognerà, peraltro, tener presente questo: che in una prospettiva a largo raggio, far reagire il corpus capitale delle poesie di Sereni, le prose raccolte in volume o disseminate su periodici e oggi riproposte in un’unica soluzione, con l’importante carteggio pubblicato da Feltrinelli, potrebbe parere una lunga panoramica fuori quadro. Ecco insomma un punto che non può essere davvero tra scurato. Sul piano storiografico, il bersaglio non è ricomporre i pannelli laterali di una ‘produzione in ombra’ per restituirne oggi a distanza di tempo la rasserenante immagine monumentale. L’obiettivo è piuttosto riaprire alcune questioni: controllando su nuove basi le zone calde dell’esperienza sereniana sotto la lente di ingrandimento della filologia (il cui fine reale – delicato e complesso – è l’interpretazione). Occorre adesso una distinzione. Dobbiamo chiederci cosa va discusso – un esame accurato mostrerà come sono fatti questi libri: le direzioni in cui hanno lavorato i curatori, e il sigillo finale applica to con le pagine di introduzione da precise angolazioni ‘partigiane’ – e cosa, invece, nelle edizioni costituisce dal nostro punto di vista il nucleo vitale. Vedremo quali sono questi aspetti, ma intanto va sottolineato che la profondità della svolta è oggettiva, ed è data da un allargamento del dominio della lettura (commento della Fioroni compreso) nella direzione delle prose. Il primo libro, a cura della filologa Giulia Raboni, è un volume ampio di tipo divulgativo: ci offre un utile percorso di lettura suddiviso in tre parti. Nella prima è contenuta l’intera opera poetica di Sereni – Frontiera, Diario d’Algeria, Gli strumenti umani, Stella variabile –, e qui trova sistemazione in posizione rilevata, quasi come cosa preziosa che sta in coda al corpus delle poesie, la scelta delle traduzioni poetiche fatta dall’autore, Il musicante di Saint-Merry. Nelle due sezioni che seguono sono collocate le prose, prima le pagine creative poi quelle critiche – buona parte di una folta produzione che attende ancora uno studio approfondito –, così che nel cuore di questo grande con tenitore sono installati Gli immediati dintorni e La traversata di Milano, e come terza parte del percorso di lettura – in posizione di retroguardia – è collocata una robusta sezione di prose critiche militanti che concludono la panoramica. Le pagine critiche sereniane qui sono rappresentate dalle Letture preliminari, selezionatissima antologia (12 testi in tutto) pubblicata dallo stesso Sereni nel 1973, e da un’ampia scelta supplementare operata dalla filologa con l’indicazione che si tratta di una selezione «motivata e condivisibile, ma certamente arbitraria». Risalta sulle soglie di questo volume curato dalla Raboni uno scritto dell’italianista Pier Vincenzo Mengaldo che oggi figura un po’ come custode di cose sereniane – ma è da notare che si tratta di un ricordo che risale al 1983, l’anno della scomparsa dello scrittore –, mentre lunghe note introduttive alle tre sezioni, che «hanno l’unica ambizione di fornire i dati essenziali sulla conformazione e sulla genesi delle raccolte e di suggerire qualche spunto critico», compongono l’intelaiatura a pettine pensata dalla curatrice dell’edizione. Si tratta dunque di un libro utile, che recupera le prose sereniane come chiave di lettura della poesia: «tanto da costituirne la più produttiva e limpida esegesi». Tuttavia, ci sembra che l’aver scelto di installare in apertura di questo lungo percorso di lettura un Ricordo di Vittorio Sereni – scritto da Mengaldo, lo ripetiamo, nel 1983 come bilancio critico di allora – blocca il quadro su un’angolazione eteronoma della visuale, che va ad intercettare, dal punto di vista interpretativo, tutta una catena di soluzioni di continuità adottata dalla Raboni nei suoi cappelli introduttivi (peraltro perfettamente centrati) rispetto a quel primo stadio della critica sereniana. Il ricordo di Mengaldo – di cui si veda ora la notevole raccolta di saggi Per Vittorio Sereni (Aragno, 2013) – è centrato sulla nozione fenomenologica della poesia che è stata di questo straordinario autore. L’adesione a ciò che dice Mengaldo è per tale ragione immediata. «La sua poesia nasceva a stretto contatto coi fatti e i fenomeni, esterni e più spesso interni, incessanti, incessantemente ruminati […]. Ciò vuol dire, contro la moderna superbia della poesia – di cui la ‘vergogna’ è il rovescio complementare –, che i fatti, e dunque la vita, avevano un valore e una dignità in sé che si trasferivano per riverbero e impregnazione su quelli della poesia, e non viceversa». Ciò che si può provare a discutere, invece, rispetto a queste premesse, sono le conclusioni della Raboni. Secondo la curatrice del libro il difficile percorso stilistico che conduce da Frontiera al Diario d’Algeria, per poi prendere terra in una svolta poetica di non ritorno con Gli strumenti umani – cioè col congedo definitivo di Sereni da soluzioni stilistiche e atteggiamenti del cosiddetto «ermetismo debole», unitamente a un senso crescente di disfatta esistenziale – tale percorso, dicevamo, si fonderebbe sulla «necessità di una relazione fra l’io e il tempo storico in cui si trova a vivere». Il nichilismo di Stella variabile farebbe poi registrare la «definitiva presa d’atto della impossibilità di un accordo con la vita»: e dunque la «rinuncia […] a cercare il senso ultimo delle cose»: e dunque l’«abbandono al flusso dell’esistenza, in una sorta di comunione con gli elementi della natura». Non convincono le conclusioni della Raboni per ragioni complesse a cui in questa sede si può solo accennare. Qui si può dire che già all’altezza del Diario abbiamo tracce di un tipo di poesia con un testo, ma è solo un esempio, che spingerebbe ad impostare tutta la questione in modo da aderire meglio alle premesse fenomenologiche. Leggiamo la poesia, facendo attenzione all’uso sereniano delle parole e alla tendenza tipica dell’autore ad antropomorfizzare la natura – nel passaggio in particolare che sigilla l’attacco della seconda strofa. Quello che è interessante notare è la riduzione dell’io, ottenuta qui con una dilatazione straniata (ma già tutta storica) della prospettiva, che ha appunto l’obiettivo fenomenologico di lasciare emergere, per includerlo, un punto di vista altro – ma sarebbe più giusto dire intersoggettivo – rispetto a un orizzonte centrato sulla prima persona. Ecco i versi del Diario, con l’indicazione in calce di luogo e data riferibile non alla effettiva stesura della poesia ma alla sua occasione genetica, come lo stesso Sereni spiega in nota nella prima edizione della raccolta (1947). «Saint-Cloud, agosto 1944». «Solo vera è l’estate e questa sua / luce che vi livella. / E ciascuno si trovi il sempreverde / albero, il cono d’ombra, / la lustrale acqua beata / e il ragnatelo tessuto di noia / sugli stagni malvagi / resti un sudario d’iridi. Laggiù / è la siepe labile, un alone / di rossa polvere, / ma sepolcrale il canto d’una torma / tedesca alla forza perduta. // Ora ogni fronda è muta / compatto il guscio d’oblio / perfetto il cerchio». Ulteriori aspetti del testo si spiegano con la formazione culturale fenomenologica e la conseguente nozione della poesia sviluppata da Sereni sotto l’influenza del filosofo Antonio Banfi fin dagli anni delle lezioni universitarie a Milano. Consideriamo l’edizione di Frontiera e Diario d’Algeria proposta dalla Fondazione Pietro Bembo-Guanda, un pregevole commento di Georgia Fioroni fondato sulla linea interpretativa Isella-Mengaldo. Prendiamo il Diario d’Algeria. Qui lo studio dei collegamenti intertestuali tra poesia sereniana e produzione in prosa ‘parallela’ diventa serrato. Il commento stabilisce collegamenti intertestuali diretti tra i microtesti del Diario messi di volta in volta a fuoco e i brani prosastici paralleli con cui Sereni ha raccontato più volte un episodio centrale della sua biografia: la prigionia in Algeria durante la Seconda guerra mondiale. Mettendoci sott’occhio una medesima realtà storica da diverse angolazioni, i brani in prosa costituiscono gli ‘immediati dintorni’ della poesia. Ora, per il dettaglio di luogo e data riportati in calce al testo sereniano che abbiamo appena letto – «Saint-Cloud, agosto 1944» – il commento fa riferimento a un passo, poi espunto, di Algeria ’44 (lo documenta l’apparato critico del volume La tentazione della prosa a cura di Giulia Raboni, Mondadori 1998): «L’essere fuori dal mondo e dalla guerra fu vissuto a partire da un certo punto come uno stato permanente» (il corsivo è della Fioroni). Per la stessa ragione, la filologa spiega che «La terna [di versi che concludono la poesia] costituisce un momento fondamentale entro la raccolta, espresso in termini a un tempo esistenziali e reali: l’immobilità dell’aria (v. 13) […] è segno dell’assoluta perdita di un passato armonioso». Qual è (e come si evolve) dunque il rapporto tra poesia e realtà nel primo Sereni? L’introduzione al commento inquadra bene la questione facendone un problema di progressiva originalità della voce, nella prospettiva fenomenologica di Antonio Banfi. La Fioroni individua un passaggio da Problemi di un’estetica filosofica (1951) di Banfi, che vale la pena leggere quasi per intero. «Per comprendere [la] vivente realtà [cioè per cogliere concretamente gli aspetti significativi dei realia entro il magma di una realtà mutevole] è chiaro che il pensiero deve rinunziare ad ogni pretesa normativa, […] eliminare da sé le valutazioni parziali […], elevarsi a tale libertà e universalità teoretica da integrare […] i vari punti di vista, i vari oggetti, i vari problemi della riflessione, togliendoli dal loro isolamento dogmatico, così che i diversi aspetti, piani, scorci del reale che essi presentano vengano componendosi secondo una prospettiva sempre più unitaria e insieme più ricca». Possiamo ora ricavare un significato complessivo da quanto abbiamo detto. Tutt’altro che ideologico, in Sereni il rapporto tra poesia e realtà non è mai stabilito a priori (e si può aggiungere che l’autore stesso prova a spiegarlo in non poche delle sue sottili prose critiche). Rispetto al problema di rappresentare in versi l’esperienza della prigionia africana il poeta lavora con gli strumenti che si è faticosamente fabbricati col tempo, restituendo la condizione (non semplicemente individuale ma collettiva) di una situazione storica di segregazione. La condizione, certo allegorica, è quella vuota del prigioniero condannato ai margini dell’esperienza bellica. È una condizione di esclusione dalla Guerra: non dalla Storia. Altro discorso è quello della percezione di aver mancato l’appuntamento con l’occasione storica fondamentale ritrovandosi dalla parte sbagliata. Se guardiamo bene poi, non si tratta – né qui né altrove nella poesia di Sereni – di una prima persona combattuta tra la necessità di un accordo con la vita o la rinuncia nell’abbandono rassicurante al flusso della Natura. Il solo accordo a cui tende la poesia di Sereni è quello (fenomenologico) con la globalità dell’esperienza, dato l’obiettivo di cogliere di volta in volta l’occasione storica lasciandola emergere mediante la riduzione dell’io. È a questa tensione che va dunque riferita l’evoluzione stilistica di Sereni da Frontiera al Diario d’Algeria. Del resto, il Carteggio con Luciano Anceschi che ci è parso utile indicare qui tra le novità editoriali sereniane mostra bene quali dubbi nutra Sereni nel parlare di poetica. La lunghissima lettera sereniana dell’aprile 1952 documenta uno dei primi momenti di gelo tra i due allievi di Antonio Banfi. Con tono garbato Sereni allontana da sé il cartellino della ‘poetica dell’oggetto’, discutendo l’inclusione nell’antologia di Anceschi Linea lombarda (1952). È il suo rifiuto alla categoria interpretativa che il critico aveva individuato sulla base di un particolare sentimento del rapporto tra poesia e realtà. «In che senso dell’oggetto [è la domanda retorica di Sereni]? Dell’oggetto in quanto risultato di un’identificazione della poesia con l’immagine che essa crea o di una poesia che si vale dell’oggetto come spunto iniziale, come dato di avvio? Per me propendo piuttosto per la seconda interpretazione». Allo stesso modo, nella lettera del gennaio 1961 Sereni prenderà le distanze – questa volta più che infastidito – dalle «poesie [dei Novissimi osservando che] reggono il discorso, ma non si reggono senza il discorso. Sono insomma, nel loro aspetto generale, la verifica di un’ipotesi letteraria più o meno fervidamente sentita». Era questo l’ulteriore attrito con Luciano Anceschi, che invece dal suo punto di vista provava a stabilire una linea di congiunzione tra la poesia giovane dei Novissimi e quella nuova di Montale (a cui la poetica dell’oggetto risaliva): proprio attraverso l’esperienza fenomenologica sereniana. Ma ciò che Sereni rifiuta – come dimostra il carteggio lungo un arco di tempo notevole, quasi un cinquantennio – è ogni applicazione in poesia di un discorso che la precede.
 
(Daniele Claudi)

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