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GEORGIJ IVANOV, Diario post mortem, a cura di Alessandro Niero, Ferrara, Kolibris 2013, pp. 124, € 12,00.
 
Il senso della morte spinge all’essenzialità, alla semplice ancella della bellezza, la poesia del vissuto, dell’inespresso, del rimpianto. La raccolta di liriche Diario post mortem di Georgij Ivanov, curata con competenza e finezza da Alessandro Niero per le edizioni Kolibris (Ferrara, 2013), ne è un esempio eloquente, pulsante, nell’inesorabile venir meno delle forze, della memoria, del respiro e della coscienza. Strano destino quello di Georgij Ivanov: poeta in gioventù vicino al futurismo (nell’Accademia di Egopoesia di Igor’ Severjanin), poi membro dell’Officina dei poeti acmeista, fu infine con Vladislav Chodasevi primo poeta, voce contraddittoria e certo non sempre amata, della diaspora poetica russa di Parigi, oggi oggetto di culto di una ristretta cerchia di estimatori. Di lui il lettore italiano conosce qualche lirica sparsa nelle antologie di poesia russa e il romanzo incompiuto La terza Roma, affresco cupamente barocco di una Russia in decomposizione negli anni che precedono la rivoluzione. Di lui fecero grande scalpore gli Inverni pietroburghesi, congerie di annotazioni, tra memoria e provocazione, sulla vita letteraria pietroburghese; opera che suscitò violente reazioni tra i contemporanei ivi ritratti (tra essi Marina Cvetaeva e Anna Achmatova). Opera di grande spessore letterario e d’indubbio carattere innovati vo fu infine La disintegrazione dell’atomo, ‘poema in prosa’ che mostra in tutta la sua brusca vividezza il talento di questo poeta e prosatore ancora tutto da rileggere, anche se si deve riconoscere che proprio in Italia di recente di lui si è scritto molto. La riscoperta di Georgij Ivanov in Italia è stata coronata dal numero monografico di «eSamizdat» (2009, VII), curato da Simone Guagnelli, che ha permesso un’inquadratura d’insieme più nitida e articolata di tutto il suo retaggio letterario.
Diario post mortem è opera del tutto particolare, anche tipologicamente. Il ciclo fu dettato dal poeta alla moglie, la poetessa Irina Odoevceva, proprio quando la morte si faceva sempre più vicina. Il manoscritto d’autore dunque non ci è giunto e per il complesso delle questioni testuali la testimonianza della moglie è, per così dire, vincolante. E infatti il libro presenta non pochi problemi che, seppur irrisolvibili, il curatore dell’edizione accademica delle opere, Andrej Ar’ev, ha saputo evidenziare, illustrare e problematizzare.
L’edizione italiana, curata da Alessandro Niero, si ricollega ovviamente a quelle scelte di edizione e interpretazione, ma allo stesso tempo offre ulteriori spunti di riflessione attraverso il ricco apparato di note che accompagna le traduzioni. Il titolo stesso della postfazione, Vita della penultima ora, appunti sul Diario post mortem di Georgij Ivanov, accetta l’ipotesi della genuinità compositiva e d’ispirazione della raccolta. Nel contempo, Niero riesce in modo convincente a punteggiare l’impercettibile linea che cade tra vita e arte, tra vissuto e artisticamente motivato, evidenziando tutto il fascino evocativo delle brevi liriche che scorrono nel testo come brani di confessioni, note, appunti, anamnesi. Il rigore formale e la semplicità possono considerarsi un’evidente prova del rispetto del dettato originale da parte di Irina Odoevceva. L’impianto generale della raccolta si staglia con precisione nel lucido ordine delle idee, dei pensieri, che il poeta nell’ora disperata dell’addio riesce a realizzare nella perfezione formale conquistata con leggera eleganza, ma in piena sintonia con il contenuto narrativo sempre immediato e concreto, pur se sospeso in una dimensione metaletteraria.
Le brevi liriche, gli appunti in versi, sono colmi di riferimenti, citazioni, legami intertestuali, e allo stesso tempo si sviluppano come brevi riflessioni sul senso della vita e dell’arte. Si veda la seguente lirica: «Tra i rami di oleandro trilla un usignolo. / S’è chiuso il cancello con un colpo lamentoso. / La luna è rotolata oltre le nubi. E io / termino il mio terreno andare fra le pene, // l’andare fra le pene viste in sogno: / l’esilio, l’amore per te e i peccati. / Ma non dimentico che mi fu fatta la promessa / di risorgere. Tornare in Russia in versi».
In questo breve componimento, che rimanda al testo apocrifo antico russo Andata di Maria alle pene dell’inferno, oltre che al tema dell’esilio che Niero collega a una celebre lirica di Evgenij Baratynskij, risulta evidente l’equilibrio creativo tra invenzione letteraria e sentimento, artificio poetico e sensazione espressa nell’attimo fuggente. Questo tratto specifico di tutto il Diario (il ciclo verrà pubblicato nella sua pienezza solo dopo la morte del poeta) trova il suo culmine nell’ultima lirica, quasi a sottolineare la raggiunta incarnazione del verbo poetico nella vita che muore: “Parla a me ancora un poco, / prima dell’alba non addormentarti, / già la mia strada volge al termine, / oh, parla con me, tu parlami! // Che il cozzo di suoni squisiti / E la tua voce fievole e arrotata / sappiano trasfigurare la poesia / l’ultima poesia che ho scritto” (Agosto 1958).
Ivanov morì il 26 agosto del 1958. Per il lettore più attento non sarà difficile riconoscere nei versi del Diario – nei quali l’intreccio tra autore, eroe lirico, interlocutore (e forse coautore… nella Odoevceva) si realizza come opera di fine cesello – il rimando alle grandi voci della poesia russa, in primo luogo Tjutev e Annenskij, ma anche Puškin e Lermontov, Blok e Marina Cvetaeva. Come il Diario fu scritto giorno dopo giorno, negli sprazzi di coscienza e ispirazione, così il lettore saprà apprezzarlo giorno dopo giorno, nella saltuarietà della lettura frammentaria, à rebours, per coglierne così i tratti di più genuina poesia e complessità spirituale che solo la semplicità sa nascondere.
 
(Stefano Garzonio)
 

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