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 Zanzotto e le lingue altre, Semicerchio LXVIII, 2023, pp. 3-4.

Introduzione

di Luigi Tassoni e Sara Svolacchia

 

 L’attenzione a linguaggi differenti, sia nella poesia che nei saggi, da sempre è il connotato evidente dell’opera di Andrea Zanzotto. Questa caratteristica è stata nel tempo meglio identificata con la scoperta di una vera e propria poetica: una sorta di contrassegno che prolunga i suoi effetti molto al di là dei motivi dominanti ogni singolo libro del poeta di Pieve di Soligo. Da questa considerazione essenziale deriva la nostra attenzione alle «lingue altre», ovvero all’insieme dei codici e dei generi, verbali e visivi, che si integrano in una sorta di azione bricolage nel testo poetico sin dalle origini di Dietro il paesaggio. L’ascolto di tali e tante sollecitazioni orienta l’elaborazione del discorso, in modo da arricchirne la centralità, e al contempo in modo da spiazzarla e deviarla verso forme miste, concomitanti, analogiche e informali.

 In un intervento del 1995 sulla traduzione, il poeta fa notare che l’insieme dei «livelli del dire e delle lingue nella poesia vengono mobilitati: anche quando si crede di scrivere una poesiola tranquillissima, in realtà si mettono in gioco tutti questi livelli». L’esperienza di Zanzotto lo porta a far interagire la ricerca di una parola alta e riflessiva con una familiare dialettalità, alla convergenza fra oralità e scrittura, come a far sì che il lavoro di ricontestualizzazione delle lingue e dei lacerti di lingue più direttamente frequentate (come, ad esempio, il francese, il tedesco, e, in modo personalizzato, l’inglese) trovi complemento nella grafia, nel disegno e nell’immagine del testo. Basti ricordare gli inserti in varie lingue nel continuum del verso, il triangolo del sogno-incubo di Microfilm, i disegnini e le onomatopee anche fumettistici del Galateo in Bosco, i riferimenti alla vocalità, alla glossolalia, al petél, e persino alle schegge di senso ripescate nella memoria, come il saluto che i soldati ungheresi rivolgono alla nonna in una poesia di Conglomerati. Proprio nell’ultimo libro, nella poesia Silvia, Silvia là sul confine, potremmo rintracciare la motivazione congeniale alla nostra scelta di approfondire per «Semicerchio» la vocazione zanzottiana del trovarsi al confine mentre sconfina per ricreare la propria lingua testuale, rispetto a un italiano o troppo legato alla convenzione linguistico-umanistica o troppo chiuso rispetto a esperienze ulteriori. Le aperture del linguaggio di Andrea Zanzotto, da noi qui privilegiate considerando il lavoro del poeta lettore e traduttore di lingue altre, e il lavoro dei suoi lettori e traduttori che provengono da culture altre, potrebbero riconoscersi nell’emblematica prospettiva della poesia su menzionata, e specialmente nella figura di Silvia, la ragazza che ne è protagonista, di cui il poeta scrive: «tu che ti sentivi progettata […]/ in “altre” lingue, in altre strutturazioni/ di te, che non possono in alcun modo finire».

I critici e gli studiosi che hanno contribuito a questo dossier hanno indagato la relazione zanzottiana con le «lingue altre» attraverso prospettive diverse. Prima di tutto, come influenza diretta del francese, del tedesco e dell’inglese. Al francese di Mallarmé, spesso considerato come riferimento privilegiato per Zanzotto, Valerio Magrelli accosta quello di Artaud, capace di «includere» là dove, invece, Mallarmé «espunge». Artaud, dunque, come modello da seguire per «fondere lo spazio del paesaggio e quello della tecnica, la perlustrazione del veneto terricolo e quella dell’inconscio lacaniano, il genius loci e la nuova linguistica, Heidegger e Pollicino». Sulla polarità Mallarmé-Artaud insiste anche Alberto Russo Previtali, che vi legge un conflitto tra «gli abissi acherontici del non dicibile e la possibilità della parola chiarificatrice», vale a dire, lacanianamente, tra «lingua e lalingua». In questo quadro, il francese appare per Zanzotto simulacro della «lingua pentecostale» dotato di «una funzione stabilizzante». Per quanto concerne il tedesco, non v’è dubbio che sia il modello hölderliniano a rimanere centrale al punto che, come ricorda Luigi Tassoni, esso è «così pervasivo ed essenziale da non potersi fissare in limitate corrispondenze». Fondamentale appare, tra le molteplici prospettive di indagine, l’immagine del bosco protettore garante di un’iniziale «identificazione dentro il paesaggio»; l’oscillazione tra il «qui» rassicurante e il «là» dell’estraneità (il dort); la sostanziale adesione all’idea di un silenzio «intrecciato e necessario al linguaggio poetico». A proposito dell’inglese, invece, il saggio di John P. Welle dimostra efficacemente quanto l’idea di un disprezzo per questa lingua da parte di Zanzotto sia errata. Come suggeriscono alcune delle lettere del carteggio con Zanzotto che l’autore ha gentilmente offerto alla pubblicazione, la conoscenza approfondita di Allan Ginsberg e dei modernisti di dantesca filiazione, quali Joyce, Eliot e Pound risulta approfondita, segno di una «fascinazione» ancora troppo sottovalutata.

 «Lingue altre», inoltre, nel senso della traduzione e della ricezione di Zanzotto fuori dall’Italia. In Germania, ad esempio, dove la diffusione della poesia zanzottiana si deve oggi al collettivo Planet Beltà, di cui Camilla Miglio presenta nel dettaglio l’intento programmatico e la dimensione estetico-politica, intesa come attenzione ai «vettori multidirezionali di senso e suono» e agli «echi multilingue»: traduzione non più vista come mera trasposizione, passaggio pacifico da una lingua all’altra, ma vero e proprio processo ri-creativo. Ed è proprio attraverso un medesimo processo ri-creativo che Camilla Miglio retrotraduce in italiano le poesie zanzottiane dal tedesco del collettivo Planet Beltà: un «movimento a zigzag» attraverso cui entrare nel magma della lingua. Diversa la ricezione zanzottiana in Ungheria dove, come illustra Eszter Rónaky, l’interesse appare relativamente tardivo e ancora piuttosto circoscritto. Soprattutto negli ultimi vent’anni, tuttavia, un numero incoraggiante di saggi, studi critici e raccolte antologiche ha preso forma, corredato da importanti, sebbene ancora parziali, traduzioni.

«Lingue altre», infine, come «linguaggio altro»; linguaggio inteso come ricerca poetica costante, tensione verso un dire che può assumere i tratti della sofferenza, dell’insufficienza. Tale è la prospettiva indagata da Tommaso Gennaro in relazione al dramma dello «scrivere poesia dopo Auschwitz», del trovare le parole per dire, nonostante tutto. L’aiuto viene dall’altro «figlio della guerra», Paul Celan, che per primo sembrò mostrare a Zanzotto la necessità di scrivere «dentro le ceneri di Auschwitz».

In tale ottica multilinguistica, non poteva mancare una sezione dedicata alle traduzioni dei testi zanzottiani. Oltre alla già menzionata retrotraduzione di Camilla Miglio, che permette di conoscere parte della proposta tedesca del collettivo Planet Beltà, un’intera sezione del dossier è dedicata alle versioni in francese, una delle lingue in cui Zanzotto risulta, ancora oggi, maggiormente tradotto. Piuttosto che presentare le versioni oramai canoniche, si è voluto dare spazio a delle proposte recentissime (come quella del collettivo CIRCE) o ingiustamente passate inosservate (è il caso di Jacqueline Risset).

A chiudere il dossier, quattro lettere inedite di Andrea Zanzotto a Luigi Tassoni presentate e annotate da Milly Curcio. Tra le altre ricche informazioni che il carteggio rivela, è ancora questione di traduzioni, di poesia e di «legame musaico», segno di una preoccupazione quanto mai centrale in Zanzotto e per nulla affievolitasi nel corso degli anni.


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