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« indietro In Zanzotto e le lingue altre, Semicerchio LXVIII, 2023, pp. 18- 23. Nel bosco di Hölderlin di Luigi Tassoni
Il dono della poesia Hölderlin attraversa in vari modi la poesia di Zanzotto. E, giacché dimostra il ruolo di autentico testo sotto alla scrittura, naturalmente attraversato e acquisito nei modi più diversi e personali, si può parlare, anche in questo caso, di ipotesto (indicazione inequivocabile e non burocratica), così come avviene per altri autori che coinvolgono Zanzotto, primo fra tutti Petrarca[1]. È infatti fra i 15 e i 17 anni del giovane Andrea[2] che la fascinazione hölderliniana proietta se stessa e prende strade differenti dalla sua origine, ma anche cerca spazi di memoria e di coscienza in quel criticus additus poetae, che progressivamente crea i suoi referenti poetici e i punti di tensione e di fuga fra i suoi boschi veneti («In quel periodo esercitavo il massimo bricolage fra varie lingue e materie»)[3]. Nel saggio Una poesia che si ostina a sperare, del 1959, Zanzotto prova a riassumere le ragioni insite nei suoi primi versi e ricorda di Hölderlin proprio una delle poesie da lui tradotte, Die Linien des Lebens sind verschieden, «Le linee della vita sono diverse», adattandola a una prospettiva personale[4]. L’interpretazione che dà di questa poesia richiama un dort, un là: «ciò che noi siamo qui sarà reso vero soltanto là, nelle righe mozze», spostando l’attenzione dal dio hölderliniano, che completa l’immagine, al testo e alla scrittura poetica, che fa esistere concretamente quell’immagine, perché «forse le cose di “qui”, prima di essere dette “in quel modo”, non esistevano […], non contavano nel loro esistere»[5]. Come confessa, la «grande passione per Hölderlin» rientra in vario modo nel più generale «bisogno di lottare contro un caos che ormai travolgeva le stesse condizioni quotidiane della vita, fu la necessità di una resistenza ormai a livello biologico»[6], anche se la penetrazione e il riferimento a Hölderlin, come per gli altri poeti prioritari di Zanzotto (Rimbaud, Petrarca, Leopardi), avviene in modo spesso trasgressivo e la cosiddetta lotta contro il caos diventa gradualmente una comprensione condizionata del caos stesso, percepito nel corpo della poesia. Dunque, il confronto non può essere inteso soltanto come prova di un emozionato esercizio dell’adolescente rispetto al mito e al fantasma di Hölderlin. Un altro utile indizio è dato dal bambino di Da Ich ein Knabe war, «Quando un pargolo io era», altro breve testo tradotto, (con un occhio al futuro petèl), a quel bambino salvato dal frastuono e protetto dal suo gioco in bosco[7]. In Die Linien des Lebens riemerge il desiderio e il completamento nella figura generica di quel dio che subentra, anche come precoce sovrimpressione, a una vita disegnata già dalle linee dei monti, così come avviene nella terza delle poesie tradotte in gioventù, Der Frühling, La primavera, nel senso del completamento e dell’identificazione dentro il paesaggio. Il riferimento a Hölderlin, costantemente segnalato nei saggi, nei versi, nelle note, ha naturalmente un più ampio respiro e un suo divenire che va di pari passo con i diversi tempi della poesia zanzottiana. «Das Chaos der Zeit» «Ho avuto l’impudenza in una delle prime poesie di Dietro il paesaggio addirittura di usare proprio l’espressione “viaggiai solo in un pugno, in un seme/ di morte, colpito da un dio”»[8], in versi che «si riferiscono precisamente al tema del viaggio mescolato con quello dell’ispirazione apollinea della poesia»[9]. Parliamo di Arse il motore, che apre[10] il volume del 1951, e che in verità risente in modo molto più ampio di suggestioni hölderliniane[11]. Quali? Qui il viaggio breve si concentra nello spazio circolare e familiare dei paesi, delle finestre, delle piazze, delle strade, scegliendo l’immagine dell’abisso e del precipizio, che vale per Zanzotto più dentro il paesaggio psichico che nell’effettivo viaggio. L’intonazione è alla Hölderlin perché risente del tema del viaggiare come vagare, e ce lo diranno più avanti nella storia di questo libro e della poesia di Zanzotto le figure trasognate, brancolanti, sonnambule e proprio erranti, che incontreremo. Per ora accontentiamoci di ricordare il viandante notturno di Hölderlin: «Ich irre Würgen», dice il poeta tedesco, «Io vago errando»[12], anche se non va sottovalutato il contributo di Campana a questo tema. C’è inoltre la percezione del destino come separazione, da cui si avvia un testo fondamentale, Das Schicksal, Il destino[13], e la scoperta dell’abisso aperto davanti al poeta nel suo peregrinare fra armonie apparenti (e immaginiamo, per Zanzotto, entro il cerchio del bosco veneto), quando preme il confronto fra i due aspetti del paesaggio: quello visibile e quello che sta dietro, che sta dentro, tale da poter provocare una scissione. Proprio in Das Schicksal, che parla del destino di chi guarda in alto, alle armonie, e si confronta con l’instabilità del presente, troviamo consonanza con il flash del pugno di dio, che si abbatte come un fulmine, capace di distruggere rocce e montagne. Questo essere colpito da un destino, nel dono stesso della poesia, accoglie il «seme di morte» di un diverso dio che colpisce il poeta (con attrazione e urto) nel suo instabile veneto perché ferisce la presunzione di eternità e continuità, e lascia filtrare, per ora solo larvatamente evocata, la natura originaria di caos e di hyle. Non dimentichiamo che, secondo Blanchot, Hölderlin affronta «l’assenza degli dei» come rapporto non negativo. Ripiegando in una sorta di contrastato esilio, «il poeta è colui nel quale, essenzialmente, il tempo si rivolge indietro, e per il quale, sempre, in questo tempo, il dio si volta e si ritrae»[14]. Da qui partono le connessioni zanzottiane con l’Ortis e Foscolo, perso nel tutto, che sente «la natura come luogo di un vero “altrove” presente sempre, cui si contrappone l’altrove dell’ “andar sempre fuggendo”»[15]. Tutto ciò si connatura nella poesia di Zanzotto fino ai vacillamenti psico-fisici e da Alzheimer, agli sprofondamenti nel catastrofico e nell’apocalittico, che su un altro piano, più coraggioso, trovano soccorso in Leopardi. Non a caso nei saggi il poeta parla sia del silenzio in cui si chiude l’ultimo Hölderlin (che «fa da pendant al coacervo delle Grazie mai scritte completamente»[16]), sia dello squilibrio come abbandono del senso della natura, evocando Leopardi («anche nel giardino c’è una lotta continua»[17]). Per differenza con il suo intenso, implosivo viaggio, Zanzotto si sofferma sulle peregrinazioni di Hölderlin, per esempio tra Bordeaux e la sua Svevia[18], e per interposte immagini familiari (con il ricordo delle peregrinazioni del padre e del nonno in terre tedesche) fa trapelare una sorta di remunerazione per il non aver viaggiato abbastanza. Da qui nascono le cosiddette «fantasie sedentarie, escursioni interiori compensate da quotidiani viaggi nei labirinti delle valli, delle colline e delle montagne […] attorno»[19], forma adattata del viandante, Der Wanderer, «dell’uomo che si aggira in quieto e lacerato tra le plaghe del mondo»[20], immagine ora miniaturizzata nel paesaggio di Zanzotto, che è, con una decisiva inversione di senso, sineddoche cosmica di un materiale squilibrio, disfacimento, scollamento, e delle estinzioni epocali nella natura come nella memoria. «C’è sulla terra una misura?»[21] La poesia di Hölderlin, ci dice Zanzotto, agisce come una forza sotterranea che viene trasferita al visibile, all’immagine del reale, e alla percezione del tempo. In questa chiave legge Hälfte des Lebens, Metà della vita[22], dal Taschenbuch del 1805: «la chiusura del componimento, con i suoi stridori […] accompagnò sempre un motivo ossessionale, e quasi stregato da quella sublime alienità. Del resto freddi paesaggi lacustri […] ne ho pur sempre sotto gli occhi, sopravvivenze preziose, “eternità” dolorose, trafiggenti»[23]. Emergono altre consonanze, dirette o indirette, dalla frequentazione delle pagine di Hölderlin. Sempre in Hälfte des Lebens, l’immagine flessuosa dei cigni che immergono con disinvoltura il corpo nell’acqua sacra («Ins heilignüchterne Wasser») pone il termine di paragone e di separazione dalla terra gelida, inospitale, percepita fin dallo stridore delle bandiere, che, lo abbiamo visto, molto impressiona Zanzotto. Sta tutta in questa traccia, «Klirren die Fahnen», lo stridore del mondo. Ciò che coinvolge chi guarda dai suoi boschi veneti è la contaminazione tra «la sacertà dei paesaggi che salvano»[24] e l’interrogativo che in effetti percorre tutto il discorso di Dietro il paesaggio, ovvero: c’è sulla terra una misura? Hölderlin risponde di no, Zanzotto fa scorrere la sperimentazione del proprio linguaggio (senza sperimentalismi) sul doppio binario del cimiteriale «odore delle macerie»[25], temuto e condiviso come destino a cui è impossibile sottrarsi (e sempre più vedremo queste macerie accumularsi, e sul sentore negativo e positivo della catastrofe come destino che è nelle mani dell’uomo). Sentore che si concilia con la splendida chiusa di Equinoziale: «Gli uccelli vigilano/ le rugiade nei recessi dell’alba;/ celeste dono del silenzio è il mondo»[26]. Ancora una volta la lente hölderliniana si avvicina al paesaggio veneto del sedentario con fantasie. Die Heimat[27], il luogo originario, non può che entrare con prepotenza come viatico (ancora un testo sotto alla scrittura) più volte ricordato come riferimento cruciale. Sono i versi del ritorno e della nostalgia che spinge a un confronto fra i tempi della vita, quella del «sacro dolore», che in un sol colpo d’occhio accomuna l’amico Goethe al nostro Foscolo, e agli eroi greci spinti verso un ritorno (come ho già ricordato, proprio scrivendo di Foscolo, Zanzotto parla del «silenzio finale» di Hölderlin)[28]. Non è però solo il tardo Hölderlin a suggerirgli di «lasciarsi ritrovare entro il nulla»[29], ma una più estesa visione del limite raggiunto, del suo superamento, e dello sbilanciamento fisico e mentale, della memoria, della parola e della natura, che per sopravvivere si dislocano, si slogano, si riadattano come elementi che sfuggono all’autodistruzione umana e biologica, al nulla delle perdite: ecco nuovamente le «sopravvivenze preziose, “eternità” dolorose, trafiggenti», di cui abbiamo già detto. A proposito dell’autoidentificazione con un poeta che lo aiuta a ritrovarsi[30], Zanzotto ha le idee chiare sul nesso duplice, complementare e contraddittorio, di un ascolto del mondo, comunque sia, come condizione vitale per la poesia. Dice essenzialmente: «non credo che mai venga meno la necessità, per ognuno che tenta poesia, di creare la massima disponibilità a un ascolto, mit Unterhänigkeit (secondo l’ultimo Hölderlin), a un certo amore-dolore […], e forse anche a una pura perdita»[31]. In questa chiave si conforma il destino dell’uomo che entra nel rischio della lingua spiegato con l’imprevedibilità della poesia come formatrice di un senso non pre-esistente: «Uno che dica “poesia” – scrive- partendo dall’idea di Heimlich, di casalingo, di stare a casa sua, nella propria conchiglia, si trova poi a ridosso i 273 sotto zero dello spazio cosmico, dell’estraneità assoluta»[32]. Ecco, nuovamente, il richiamo alla misura doppia e complementare del “qui” e del “là”, del Dort.
Umnachtung: oltre la tenebra
Cos’è il silenzio finale di Hölderlin? Cos’è il suo nulla? Vorrei includere in questa visione composita che emerge dalla lettura, dall’introspezione e dall’ascolto di questa poesia, l’elemento della felicità di Hölderlin, che apparirebbe a un profano quanto meno paradossale e inopportuna, se non avesse letto Die Zufriedenheit, La contentezza[33], dove si rimette in gioco l’ipotesi del sapersi trovare fuori dalla vita, cogliendone ogni sensazione (cito quasi alla lettera), cioè spinge ad attraversare il limite della prospettiva e del dire, e anche a svincolarlo. La contentezza, quella di un Hölderlin felice, di cui ha parlato Bigongiari, fa risuonare il divino fluire della bellezza e ne invade uno spazio parallelo, «tramato dalle cose», «ovvero un inferno, la disarmonia, il contatto con la durezza»[34]. Hölderlin lo spiega in quanto persistere di «una forma infinita, insieme alla materia finita con il fatto che mediante quel momento la forma infinita assume un’immagine»[35]. Il «carattere poetico», aggiunge, è «presentificazione dell’infinito, momento divino»[36]. In quel momento il tragico della poesia conquista la sua felicità. Si comprende anche perché il rischio sarà che il mondo diventi un nulla, «die Welt ist Nicht»[37], se la dea dell’armonia guarda altrove, quell’Urania che, secondo il poeta tedesco, è capace di ridare unità al mondo, alle cose, alla visione, nel momento in cui la poesia affronta la possibilità del caos delle cose e il tempo del caos. Da questo punto di vista la mancanza, l'assenza, sconvolgono lo sguardo e la conoscenza delle cose stesse. Ciò che resta è un dono dei poeti (quasi letteralmente: «Was bleibet aber, stiften die Dichter»), perché proprio la memoria, che in questi versi finali di Andeken[38] è data dalla visione marina, è una forma di restituzione, re-istituzione e ritorno della parola in sé finita rispetto alle potenzialità infinite dell’uomo. Ecco ricomparire il rischio dell’Umnachtung, dell’ottenebramento come perdita di memoria e incursione di e in quell’elemento instabile (psichico e fisico per Zanzotto) rispetto al quale il bosco appare inizialmente come luogo protettivo, assaporato nel primo avvicinamento a Hölderlin, e poi via via sempre più specchio riflettente di instabilità in atto. Il silenzio è quello entro il quale ci si trincera come in una zona protettiva rispetto alla catastrofe della storia, ma anche il silenzio verrà protratto fino alla rima con «assenzio», segno della dimenticanza mortale. Su questa convivenza fra i due aspetti Zanzotto dice: «Forse, dietro il presunto folle Hölderlin c’era un uomo che aveva scelto il silenzio di fronte alla catastrofe di una storia che ritornava su se stessa: al posto della rivoluzione, infatti, si verificava la restaurazione. Questa tesi non mi convince molto: in Hölderlin c’è già un super-acuto, un super-furbo, direi, che ammicca e che allude, insieme con un uomo piombato nel silenzio e nell’impossibilità del dire. Sembrerebbe impossibile che questi due stati riescano a convivere. E invece… »[39]. In effetti Zanzotto sa che il silenzio agisce attivamente all’interno del discorso, fa parte del linguaggio e del testo, naturalmente, e consente di filtrare quel non-detto rispetto al dire, che già aveva grande rilevanza per Petrarca (pensiamo anche alla sillabazione e al balbettamento come reinserimento informale nel testo e riutilizzazione di un resto linguistico). Ciò che resta, ripetiamo con Hölderlin, è un dono dei poeti perché il contrario materializzerebbe l’abisso del non dicibile, la censura di fatto. In questo senso l’esplorazione della zona di confine verso il nulla equivale per Hölderlin (e Zanzotto ne apprende in pieno la lezione) a un travalicamento, allo stato di sospensione in un «vissuto estremo»[40] del non-morto e del non-vivo. Vale anche quella bellissima espressione dell’ampio saggio su Hölderlin: «lasciarsi ritrovare entro il nulla»[41], come se si trattasse di una sorta di oscillazione al di qua e al di là del finito umano: «Ich bin nichts mehr, ich lebe nicht mehr gerne!»; «Più nulla io sono e i miei giorni vani!»[42] (un nulla subentrato al piacere pieno della giovinezza). La percezione del silenzio si trasforma e si contamina nell’ultima parte della poesia di Zanzotto: basterebbe leggere da Conglomerati una poesia[43] fortemente significativa già a partire dall’incipit: «Quanti nuovi/ e ignoti silenzi m’aspettano/ quante zone di onore silenzio/ e purità di silenzi irrequiete acclamabili», diventate audibilità che si sottraggono «ai miei nulla», «volatili pulviscolari/ donazioni del nulla», finché a sera l’interferenza del rumore del forno a microonde non li minaccia e vi subentra. Nel movimento X di Possibili prefazi o riprese o conclusioni, in La Beltà[44], succede qualcosa di analogo, nel senso che il poeta adatta i 14 punti di un testo studiato sulle variazioni possibili dell’annotazione al margine del foglio di Hölderlin, prima della firma Scardanelli, Mit Unterthänigkeit, «Con soggezione», intesi come altrettanti punti di fuga e di sviluppo forse del riconoscimento del sé. Comincia in fatti il testo con la citazione dello «Stadio psicologico detto “dello specchio”/ come costitutivo della funzione dell’io», ovvero ricordando Lacan, come a rimettere insieme le tessere di un mosaico che non può e probabilmente non deve riformarsi in un’effettiva unità, alla ricerca dell’io che non si trova se non per sconfinamenti, ai margini, appunto, o per «barbagli» di esistenza. Per Hölderlin, su un piano differente, l’immagine dell’uomo allo specchio è mera somiglianza, mentre «i dolori di quest’uomo sembrano indescrivibili, impronunciabili, inesprimibili»[45]. Tutto, dunque, ancora una volta al limite, al limite di un discorso possibile e mai del tutto identificabile nel finito della parola, come se ancora vi fosse un resto inafferrabile che rimette in gioco l’interpretazione/ l’ascolto di sé e delle cose.
I paesaggi che salvano
A parte la traduzione e l’adattamento da Mistieròi di cui molto si è detto, che dà un tono familiare e giocoso ai versi di Hölderlin[46], un ottimo test del progressivo intrecciarsi del e con il fantasma hölderliniano, si ha nella famosa Elegia in petèl[47], qua dove, è lo stesso poeta a spiegarlo, il petèl, infantile «prelingua (“pappo e dindi”), verrebbe confrontato con la fine della lingua e della poesia, esemplificata con due passi frammentati di Hölderlin, già sulla via dell’ottenebramento (da “Ihr sichergebauten Alpen”, e da “Einst hab’ ich die Muse gefragt…”, tradotto e riportato più sotto: Una volta ho interrogato la Musa»[48], cornice conclusiva del testo). Il richiamo forte a quel residuo fonoritmico infantile, il petèl, appunto, parodia fra suoni originari, pone il tema dell’inizio di ogni lingua umana e di ogni poesia, e ne rimette in gioco la fine, termini nei quali compare anche un preciso riferimento ai versi tedeschi citati. Quell’impulso dei bambini al parlato, in una lingua che non è ancora sociale ma che parodia l’ascolto, introduce l’ipotesi dell’individualità che sfugge alla regola (persino ripetitiva) e talvolta ne inventa una sua propria, originale e irripetibile (come la poesia nel suo definirsi più generale). Il riferimento nell’Elegia in petèl al «formicolio di dèi», al «brulichio di sacertà», all’ «assenza degli dèì» (di cui già sappiamo), apre uno spazio che ha uno stretto nesso con il silenzio iniziale della pre-lingua e quello finale dell’ottenebramento, l’Umnachtung, fino al silenzio della morte. La lingua infantile è sì un’ironizzazione della lingua vera e propria, e ne è anche una diffrazione, rispetto all’integrità della lingua solida come le Alpi guardate da Hölderlin, e in più qualcosa che, secondo Zanzotto, si sovra imprime, una sovrimpressione, scrive il poeta, e anche in questo caso fra il tragico (anche in amore per il poeta tedesco) e il pettegolezzo pornografico di Tallemant des Réaux. Zanzotto immagina le due figure come se passeggiassero a braccetto, e introduce anche la percezione erotico-attrattiva di quel qualcosa/quel qualcuno che «apre le gambe e mostra tutto», gesto libertino e liberatorio quanto da provocatoria Histoire d’O. Pensiamo a tutti i petèl possibili che entrano nella norma, vi si sovrimmettono come materiali originali, e la disorientano quando aprono una finestra sulle ipotesi della sillabazione che non è ancora parola alle origini del parlante, su un prima della lingua che conosce lo stato di grazia solo perché disorientato. Uno stato di grazia desiderato tragicamente da Hölderlin ma mancato come i suoi dèi assenti e sempre più lontani nel tempo. E l’accenno a Scardanelli, sul finire dell’Elegia, alla trasgressione del nome, sul limite dell’ottenebramento, entrando e uscendo da quello spazio incognito, formula da lontano la considerazione fondamentale per un poeta: «Un tempo interrogai la Musa, e lei/ Mi rispose/ Alla fine lo ritroverai./ Nessun mortale può comprenderlo»[49]. Qui il poeta ritrova il doppio valore della percezione di un punto finale di arrivo e quello dell’oggetto sconosciuto della ricerca («du es finden»)[50], un es mero prono me della possibilità, senza spiegazione per l’oggetto a cui si riferisce. Significativo l’accenno zanzottiano alla pronuncia infantile come a qualcosa che produce un nome per qualcosa che è già perduto (perché non appartiene al codice sociale). Ecco il «principio che si ricongiunge con la fine, come spesso nelle ninnenanne»[51]. Può anche darsi come immaginazione di un silenzio che brulica di suoni, imitazioni occasionali, lallazioni, glossolalie, in quella pre-lingua individuale densa di somiglianze anche in culture diverse, resto e residuo che penetra nella mente dell’ascoltatore e fa parte del complesso gioco della poesia, ora disabilitata nella ricerca di un (impossibile) stato di grazia, e comunque sempre in movimento su un limite che viola le regole e porta il discorso sul mondo sempre oltre una convenzione e oltre ogni previsione. «Das lezte aber ist/ Das Himmelszeichen», «L’ultimo è/ Il segno del cielo»[52]: «questo oltrato, questo oltraggio, sempre, ugualmente»[53]. Al termine di questa minima “pungolatura” di testi che si incrociano e si sovrappongono, sfidando il tempo e la storia, ma pur sempre ravvicinati rispetto all’oggettiva lontananza, posso aggiungere che il debito di Zanzotto per Hölderlin è così pervasivo ed essenziale da non potersi fissare in limitate corrispondenze. Come si è visto, tutto un insieme di tracce ad ampio raggio motiva l’affettuosa peregrinazione della voce di Hölderlin fra le pagine di Zanzotto: dalla visione originaria del bosco veneto protettivo, trasformato nella Selva Nera, al viaggio del sedentario sperimentato sulle pagine dell’amato poeta tedesco, dalla lezione di un silenzio[54] intrecciato e necessario al linguaggio poetico, fino alla constatazione dell’assenza degli dèi e degli idoli, dall’affermazione della parola poetica, come atto che va sempre oltre un limite convenzionale, al pericolo della perdita di memoria, e infine si va dall’ottenebramento mentale all’instabilità psichica, fisica e della natura. [1] Come ho dimostrato, non possiamo accontentarci in casi come questo del concetto filologico di fonte, ma dovremmo render merito a un più intenso lavoro del poeta sulla lingua degli altri e sulle lingue altre, penetrate, nei modi più diversi e anche fortemente originali, nella scrittura di Zanzotto che sempre più si lega all’immagine moderna, e però già petrarchesca, di scrittore-lettore. Cfr. Luigi Tassoni, Senso e discorso nel testo poetico, Roma, Carocci 1999, pp. 207-226; e Andrea Zanzotto, Ipersonetto, commento e cura di Luigi Tassoni, Roma, Carocci 2001 e 2021 [2] Incontro con Hölderlin, e traduzione di alcune poesie, fatti risalire ai 15-16 anni, in Tra viaggio e fantasia, in Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Milano, Bompiani 2013, p. 180; e ai 17 anni, nel periodo universitario, in Andrea Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, in Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Milano, Mondadori 2001, p. XI. Per limitarci ai debiti diretti, nel saggio sono indicati nell’ordine: Mistieròi, da Idioma, ora in Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, p. 761, alcuni versi da Meiner verehrungswürdigen Grossmutter, tradotti in veneto; l’esergo della sezione Sponda al sole, di Dietro il paesaggio, ivi, p. 41, tratto da Die Heimat; L’elegia in petèl, da La Beltà, ivi, pp. 281-283, con riferimento a Ihr sichergebaueten Alpen!, e Einst hab die Muse gefragt; e Uno vi fu, uno, in Sovrimpressioni, ivi, pp. 937-938, per Hälfte des Lebens. [3] Andrea Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, cit., p. XII. [4] Andrea Zanzotto, Una poesia ostinata a sperare (1959), in Id., Le poesie e le prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp.1095- 1099. Vedi ora la traduzione di Da Ich ein Knabe war, Die Linien des Lebens, e Der Frühling, in Andrea Zanzotto, Traduzioni, trapianti, imitazioni, a cura di Giuseppe Sandrini, Milano, Mondadori 2021, pp. 4-9. [5] Andrea Zanzotto, Una poesia ostinata a sperare, cit., p. 1096. [6] Ivi, p. 1099. [7] Andrea Zanzotto, Eterna riabilitazione da un trauma da cui s’ignora la natura, a cura di Laura Barile e Ginevra Bompiani, Roma, Nottetempo 2007, p. 51: «Io avevo conservato una specie di piccola vena infantile, quella del bambino che quando ha litigato in casa, scappa poco distante, e questo l’avevo trovato già nei testi di Hölderlin, incontrati in anni lontani, soprattutto quello che dice Da Ich ein Knabe war». [8] Andrea Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, cit., p. XX. [9] Andrea Zanzotto, Tra viaggio e fantasia, cit., pp. 180-181. [10] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 7. [11] Puntuali riferimenti ne dà Stefano Dal Bianco in una nota di Le poesie e le prose scelte, cit., p. 1402. [12] Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., pp. 362-363 [13] Ivi, p. 90. [14] Maurice Blanchot, L’espace littéraire, Paris, Gallimard 1955; trad. it. di G. Zanotti, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1975, p. 237. [15] Andrea Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, cit., pp. XVI XVII. [16] Andrea Zanzotto, Scritti di letteratura. Volume primo. Fantasie di avvicinamento, a cura di Gian Mario Villalta, Milano Monda dori, 2001, p. 313. [17] Andrea Zanzotto, Eterna riabilitazione cit., p. 51. [18] Andrea Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, cit., pp. XV. [19] Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsosio, cit., p. 39. [20] Luigi Reitani, L’«errore di Dio», in Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. XXXVIII. [21] «Giebt es auf Erden ein Maaß? Es giebt keines»; «C’è sulla terra una misura? Non ve n’è alcuna». Friedrich Hölderlin, Aus dem «Phaëton» von Waiblinger, in Id., Tutte le liriche, cit., pp. 347-348. [22] Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 299. [23] Andrea Zanzotto, Hölderlin, una leggenda, cit., p. XXI. [24] Ivi, p. XIV. [25] Andrea Zanzotto, L’amore infermo del giorno, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 59. [26] Ivi, p. 61. [27] Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., pp. 302-303. [28] Andrea Zanzotto, Fantasie di avvicinamento, cit., pp. 313, 317-318. [29] Andrea Zanzotto, Hölderlin, una leggenda, cit., p. XXI. [30] Ivi, p. XIII. [31] Andrea Zanzotto, Il mestiere di poeta (1965), in Id., Le poesie e le prose scelte, cit., p. 1130. [32] Andrea Zanzotto, Tentativi di esperienze poetiche (poetiche lampo) (1987), ivi, pp. 1314-1315. [33] Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., pp. 1232-1235. [34] Piero Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Torino, Aragno 2001, p. 298. [35] Friedrich Hölderlin, Scritti sulla poesia e frammenti, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino, Boringhieri 1958, p. 93. [36] Friedrich Hölderlin, Scritti di estetica, a cura di Riccardo Ru schi, Milano, Mondadori 1996, p. 107. [37] Friedrich Hölderlin, Hymnus an die Göttin der Harmonie, Inno alla Dea dell’Armonia, in Id., Tutte le liriche, cit., pp. 18-27. [38] Friedrich Hölderlin, Andeken, Rimembranza, ivi, pp. 340-345. Sulla poesia e sulla lettura di questa famosa poesia fattane da Heidegger vedi Luca Stefanelli, Il divenire di una poetica, Milano-Udine, Mimesis 2015, pp. 194-195. [39] Dirti «Zanzotto». Zanzotto e Bologna (1983-2011), a cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin, Varese, Nuova Editrice Magenta 2013, pp. 23-24. [40] Andrea Zanzotto, Hölderlin, una leggenda, cit., p. XV [41] Ivi, p. XXI. [42] Friedrich Hölderlin, Das Angenehme dieser Welt hab ich genossen, Di questo mondo il piacevole ho gustato, in Id., Tutte le liriche, cit., pp. 1228-1229. [43] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 1005. [44] Ivi, p. 259. [45] Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 349. [46] Ivi, p. 822. E per la versione in dialetto veneto cfr. Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 761. [47] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, cit., pp. 281-283. Fondamentale lo studio di Philippe Di Meo, La “Beltà” d’Andrea Zanzotto, un recueil métapoétique, in Andrea Zanzotto. Un poeta nel tempo, a cura di Francesco Carbognin, Bologna, Aspasia 2008, pp. 73-96. [48] Ivi, pp. 318-319. Per i versi di Hölderlin citati, vedi sempre Tutte le liriche, cit., rispettivamente p. 998 e p. 1002. [49] Tutte le liriche, cit. p. 1003. [50] Ivi, p. 1002. [51] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 319. [52] Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, cit., pp. 1002-1003. [53] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 282. [54] Luigi Tassoni, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci 2002 e 2021, particolarmente le pp. 249 259. ¬ top of page |
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