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In Zanzotto e le lingue altre, Semicerchio LXVIII, 2023, pp. 50-56.

«è qui, è storia» Celan e Zanzotto contemporanei [1]

 di Tommaso Gennaro

1. Lo spartiacque storico e culturale della Seconda guerra mondiale ha imposto a quanti ne subirono le atrocità un ripensamento radicale del proprio stare al mondo, reso più instabile se non altro dal fatto – allora davvero ineludibile – di dover vivere, all’indomani del 1945 e fino alla fine del XX secolo, «all’ombra della bomba»[2]. Gli stravolgimenti e gli orrori di quel conflitto implicarono inoltre per gli scrittori e gli artisti del tempo una profonda revisione assiologica della loro poetica; come commentò a riguardo Andrea Zanzotto, «era […] ben chiara la consapevolezza di quanto dipingere una rosa prima dell’atomica fosse una cosa, mentre fosse tutt’altra cosa il dipingerla dopo... Tutti i gradi della realtà si alterano a causa di questo elemento»[3].

 La necessità di ricalibrare la propria scrittura di fronte a una realtà che non era più la stessa di prima è stata la principale sfida di quanti volessero riprendere in mano la penna dopo quell’evento. Se infatti l’«ipotesi di un annichilimento totale dell’umanità» – come ha spiegato Francesco Carbognin – era divenuta «l’assurdo ma autentico fondamento di ogni pensare ed agire umani»[4], per i poeti tenuti orrendamente a battesimo da quella guerra, cruenta come nessun’altra nella storia, era impossibile rivolgersi a un angolo di mondo incontaminato e, per di più, risultava inevitabile contaminare ogni cosa con una lingua oramai irrimediabilmente compromessa. Ancora Zanzotto:

Si può capire perché si insinuano in mezzo ai versi delle oscurità o delle cose che sembrano prive di senso. Ad esempio, se esplode una bomba atomica e riduce l’essere umano semplicemente ad un’ombra sul muro (vi ricordate le sagome rimaste dopo l’esplosione di Hiroshima?) è un trauma spaventoso, non si può continuare a vivere e parlare come se non fosse accaduto niente. Allora queste immagini affiorano anche quando si parla di cose del tutto diverse, come se l’esplosione uno ce l’avesse avuta anche dentro e si proiettasse quindi nel linguaggio […]. Può darsi benissimo che uno voglia toccare in una poesia un tema qualsiasi e non – poniamo – l’esplosione di una bomba: ma egli è internamente necessitato a toccare questo tema con la sensibilità di chi è stato “testimone” dell’atomica di Hiroshima. Egli tenderà dunque a produrre non una continuità, un sistema, ma una disseminazione, noi riscontreremo l’esperienza della bomba, anche se il referente immediato (l’oggetto di cui si parla) è la rosa.[5]

 L’allusione fatta dal poeta di Pieve di Soligo a «delle oscurità» chiamava in causa, senza nominarlo, il poeta che più di tutti, nel Novecento, è stato indicato – spesso polemicamente – come personificazione dello scrivere oscuro[6]: Paul Celan. Zanzotto aveva conosciuto l’opera di Celan a metà degli anni Cinquanta, grazie all’amico Giuseppe Bevilacqua, per poi intensificare le letture a partire dal 1962. Sebbene il poeta italiano nei suoi scritti abbia nominato esplicitamente Celan solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1970, già sei anni dopo Zanzotto lo menzionava come «colui che forse è il più grande di tutti i poeti affermatisi nel dopoguerra»[7].

A quei tempi in Italia Celan era semi-sconosciuto e quasi del tutto inedito: erano comparsi alcuni componimenti tradotti nel 1957 su «Botteghe oscure», poi sul numero 4 (aprile 1957) de «il verri» e, nel 1959, su «Tempo presente»[8]. Ma nel 1962 Vittorio Sereni avanzò a Zanzotto la proposta – poi naufragata – di tradurre una scelta di poesie di Celan; l’idea era gradita allo stesso poeta bucovino, che avrebbe apprezzato la mano zanzottiana[9]; d’altronde Celan aveva chiarito eloquentemente a Sereni la sua prassi traduttologica: «je n’ai jamais essayé, en matière de poésie, de traduire que ce qui, comme on dit dans ma langue, me parle ( “was mich anspricht”)»[10] – ed è quindi comprensibile forse il desiderio di essere tradotto da qualcuno che, come Zanzotto, «lo parlasse»[11].

 

2. Le convergenze fra Zanzotto e Celan non sono poche, né si limitano al mero ritorno di temi o immagini (come ad esempio l’arcilessema neve, carico di implicazioni per entrambi)[12]. A sancire la consanguineità fra i due poeti[13] sono semmai la consimile frequentazione dei più variegati repertori lessicali specialistici, con singolare predilezione per la terminologia delle scienze geologiche[14]; proprio l’uso diffuso ma sempre consapevole di lemmi attinenti alla geologia ha veicolato in entrambe le poesie la medesima tensione ascensivo-discensiva, fra affondo catabatico e slancio siderale (Zanzotto salutò il comune «carattere per così dire minerario» dei Microliti celaniani, usciti nel 2010, assai simile a quello dei suoi coevi Conglomerati del 2009, parlando di «‘misteriose coincidenze’»)[15]. Per Zanzotto si tratta di una delle numerose antinomie che caratterizzano la sua opera, nella fattispecie quella tra Terra e Cielo, dal giardino di casa[16] alla «“prospettiva di Sirio”» o «di Micromegas» e «Dante»[17], insomma tra «aquila» e «topo» o «talpa»[18]; e giustappunto il Dante geologo della Commedia – con la mediazione decisiva della Conversazione su Dante di Mandel’štam[19] – diventa per Celan l’interlocutore forse più eloquente per collaudare simili oscillazioni dalle rocce alle stelle.

 La poesia di Zanzotto, inoltre, proprio come quella di Celan, è stata regolarmente rubricata con pervicace ostinazione – e come poche altre nel XX secolo – con la fastidiosa etichetta di oscura. E giustappunto discutendo le accuse di «oscurità» nel già citato intervento del 1976, Poesia?, dopo aver ribadito che anche «la più “evasiva”, la più lontana, la più impraticabile delle forme di poesia è vicina, è qui, è storia», anzi, addirittura «accrescimento della realtà», Zanzotto ricordava non a caso «colui che forse è il più grande di tutti i poeti affermatisi nel dopoguerra: Paul Celan»[20]. Più tardi, in un intervento interamente dedicato al poeta bucovino, Per Paul Celan (1990), Zanzotto ne descriverà lo stile con parole che rasentano l’autodiagnosi: «Egli aggruma e smembra le parole, crea numerosi e impennati neologismi, sovverte la sintassi pur non distruggendone una possibile giustificazione fondante, usa fino alle estreme latenze il proprio sistema linguistico, il tedesco: ma nello stesso tempo si avvede che questi suoi meravigliosi disegni, queste incredibili “fughe” e “strette” lungo scale (musicali e non), queste geologie e doppi fondi improvvisamente tranciati, partono verso un qualche cosa che non è né un imperscrutabile aldilà della lingua né il ritorno a una casa natale»[21].

 

3. Ancorché li separino anagraficamente undici mesi, Celan e Zanzotto potrebbero dirsi gemelli, apparentati di fatto da una reciproca contemporaneità: entrambi sono infatti, per usare una categoria che Andrea Cortellessa ha ricavato da un verso di Amelia Rosselli, «figli della guerra»[22]. E anche se non fu la stessa guerra a generarli – la data di nascita dell’opera celaniana è il «20 gennaio» 1942, il giorno della Conferenza di Wannsee, allorquando si definì la «soluzione finale della questione ebraica»[23], mentre il proprio concepimento Zanzotto lo fa avvenire direttamente sul letto della Grande Guerra: «Padre e madre […] voi mi combinaste, sotto quelle caterve di / os-ossa»[24] – sarà la stessa guerra, la Seconda, a unirli nella condizione di contemporanei[25].

 Fra tutti i parenti letterari dell’intricato albero genealogico di Zanzotto, l’unico altro quasi coetaneo è il «‘fratello’ d’elezione» Sereni[26]; che pure però gli fu fratello maggiore. Quest’ultimo, infatti, non solo aveva inaugurato la sua parabola poetica già nel 1941, ossia durante il secondo conflitto mondiale, ma proprio quella raccolta scritta in tempo di guerra, Frontiera, Zanzotto la lesse «in treno sotto le armi» riconoscendola come l’opera di chi, a quel tempo, aveva «già detto tutto, di me, di noi, proprio di questi nostri giorni e attimi»[27]. Degli altri ‘familiari’, neanche a parlarne: Zanzotto li conobbe tutti in gioventù, prima della guerra, o al più tardi nei primissimi anni Quaranta (ed erano, in ogni caso, scrittori del prima); d’altronde, la presenza del più intimo dei suoi congiunti letterari, Hölderlin, come lui «Sohn der Erde», «figlio della terra»[28], si attenua come ha notato Sara Bubola nelle raccolte degli anni Cinquanta, Elegia e altri versi e Vocativo (certo, senza per questo esaurirsi)[29], ed è forse possibile ipotizzare che questo sia dovuto proprio all’incontro concomitante con l’altro poeta di lingua tedesca, Celan, con Hölderlin del tutto incompatibile se non addirittura «oppost[o]»[30] – sebbene il «gioco dei rimandi» fra Zanzotto e Celan, come ha mostrato Giovanna Cordibella, coinvolga necessariamente anche la «joinction Celan-Hölderlin»[31].

La scoperta di Celan Zanzotto la fece negli anni Cinquanta, alla fine del conflitto, a differenza di tutti gli altri incontri formativi e fondativi con i suoi numi tutelari. Dunque, è possibile che nel poeta italiano sia insorto il riconoscimento di una contemporaneità che lo accomunava con Celan, di un presente che riguardava entrambi, dacché quella di Celan e di Zanzotto fu la generazione di coloro i quali, salvo qualche verso giovanile, avevano iniziato a scrivere dopo se non a causa di quella guerra (Sereni, infatti, aveva «già detto tutto» prima). A differenza degli altri scrittori, Celan, esattamente come Zanzotto, era il poeta del post, del dopo, «il più grande di tutti i poeti affermatisi nel dopoguerra». In un intervento televisivo andato in onda in quello stesso 1976 in cui scriveva le parole appena citate, dovendo presentare la prima traduzione italiana di Celan, quella mondadoriana a cura di Moshe Khan e Marcella Bagnasco, Zanzotto dichiarò: «Per chiunque scriva versi, l’avvicinamento alla poesia di Celan è sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: scrivere poesia dopo Auschwitz, eppure superare Auschwitz servendosi anche delle ceneri di Auschwitz»[32]; parole ribadite nel 1990, nel summenzionato testo dedicato all’autore di Todesfuge: «Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo scrivere poesia dopo Auschwitz ma scrivere “dentro” queste ceneri, arrivare ad un’altra poesia piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in certo modo nell’annichilimento»[33].

Zanzotto qui sta citando implicitamente l’assunto di Adorno, notorio quanto scandaloso, sulla poesia nach Auschwitz. Come ebbe a dire nel 1951 il filosofo della Scuola di Francoforte, «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»[34]. È noto come Adorno, nel corso degli anni, abbia rivisitato la sua urticante dichiarazione, attenuandola via via fino a una sostanziale smentita nella postuma Teoria estetica; la ragione di questo ripensamento è dovuta alla frequentazione di due autori del dopoguerra, Samuel Beckett e Paul Celan[35]: in comune con Zanzotto, i due hanno il fatto di aver inaugurato la propria parabola letteraria all’indomani della guerra – o, come nel caso di Beckett, di averla fatta rinascere proprio a causa dell’esperienza diretta di quel conflitto – e, soprattutto, la creazione di un’opera frettolosamente rubricata dalla critica del tempo come indecifrabile: ermetica, quella di Celan, o assurda, quella di Beckett, in ogni caso oscura, al pari di Zanzotto.

La convergenza di tre autori del secondo Novecento che, attraversata la Seconda guerra mondiale, scelsero deliberatamente un modo non convenzionale di prendere la parola dopo la catastrofe bellica non è certo casuale (si potrebbero fare anche altri esempi: basti, in Italia, il caso di Amelia Rosselli). Alcuni di coloro i quali vissero in prima persona l’orrore di quel conflitto senza precedenti sentirono poi l’esigenza di restituirne un fedele resoconto, per testimoniarne senza mezzi termini le atrocità (è il caso di Primo Levi); altri, invece, riconobbero che quella guerra aveva compromesso irreparabilmente – insieme ai corpi umani, ridotti ai minimi termini (moral bombing, lager, atomiche) – la capacità di dire ciò che era accaduto. Era, per costoro, il linguaggio a risultare ineluttabilmente compromesso: quella guerra, d’altronde, era stata anche, se non anzitutto, una guerra alla lingua[36]. Per Beckett, Celan e Zanzotto, dunque, sarebbe stato semplicemente impossibile parlare del mondo di prima con le parole di prima: qui sta la radice della scelta di una «lingua incomprensibile» fatta da Celan[37]; quella «way of speaking very... bizarre» di Beckett[38]; e, ancora, qui sta la radice dell’«elusività semantica» di Zanzotto[39]. Non si tratta di un linguaggio oscuro, ma di quello che è rimasto della lingua dopo le atomiche e i lager: una lingua in frantumi, da ricostruire nella consapevolezza che le parole ricomposte dopo non corrisponderanno più alle stesse cose di prima.

A riprova del fatto che una simile convergenza fra Zanzotto e Celan (e Beckett) non fu certo fortuita, ma muoveva da intenzioni individuali che però risponde vano a un comune sentire, c’è un ulteriore elemento, non certo trascurabile: ossia, l’esigenza che questi autori sentirono immediatamente di farsi prendere alla lettera. L’incomprensione che rendeva oscure le loro opere non andava imputata alla lingua, ma semmai a un eccesso interpretativo, che ne snaturava il senso. Paradigmatico l’esempio dei versi di Celan, che furono stravolti dalla lettura gadameriana e riportati sui giusti binari ermeneutici da Peter Szondi[40]: se il poeta bucovino parla di Eden non sta indicando il giardino biblico, ma il nome dell’hotel sorto sulla caserma dove fu uccisa Rosa Luxemburg[41]; se parla di «mulini della morte [Mühlen des Todes]» non sta azzardando un’immagine fantasiosa, ma cita alla lettera Adolf Eichmann[42].

 

 4. Insomma, Zanzotto aveva capito che Celan, proprio come lui, stava scrivendo «dentro» le «ceneri» di Auschwitz; e che quindi la condizione di Celan – quella di trovarsi all’indomani della catastrofe, fra le macerie d’Europa, con in mano solo le «ceneri di Auschwitz», cioè «“dentro” queste ceneri», e anzi di servirsi «an che delle ceneri di Auschwitz» nel cuore insanguinato della faglia che aveva compromesso irreparabilmente l’assiologia occidentale, ossia nel trauma – era la propria. D’altronde, il poeta italiano non si era trovato, fin dalle sue prime raccolte, con le «viscere agitate / di presente»[43] a calcare una «terra – passato di tomba»[44]? Una terra sovraccarica di «pezzi di guerra»[45] rigurgitati senza sosta dalla «satolla terrena mandibola»[46]?

 Quando si trovò a prendere la parola con la sua prima silloge, Dietro il paesaggio, certamente «animato da una volontà di liberazione, dal desiderio di dimenticare»[47], Zanzotto era ancora troppo vicino agli eventi appena trascorsi per nascondere del tutto le «crepe dell’abisso»[48]: quella che aveva davanti agli occhi era una «terra invano medicata»[49], una «terra ieri diroccata»[50]. Ieri, appunto, dalla prospettiva di un oggi che era l’indomani della guerra (quest’ultima poesia è infatti del 1945-46). Ma per quanto l’autore, «qui», cioè nel paesaggio, abbia cercato di «volgere le spalle»[51] a questo scenario, il fronteggiamento con una realtà che, nella sua opera, non smetterà mai di durare era inevitabile: «tutto è invaso dal passato»[52].

 

5. E così, nel tempo, l’«odore delle macerie»[53] con cui si apre la terza sezione della prima raccolta di Zanzotto si fa via via più persistente, contaminandosi nei libri successivi con la puzza del napalm lanciato in Vietnam o con i fumi delle atomiche sganciate come test nel Pacifico.

Sono le atomiche, peraltro, a rivelarsi come una delle tracce più indelebili di quella guerra nella poesia di Zanzotto: l’ombra dei funghi che si impennarono in cielo nell’agosto del ’45 – e che continueranno a fiorire, come test, negli anni Cinquanta Sessanta e Settanta, infestando il mondo con lo spettro del terrore termonucleare – si profila sempre più nitida nei suoi versi, a partire da Vocativo. L’allusione di Caso vocativo, «vaganti / inferni, gorghi atomici», viene ripresa più diffusamente da Campéa, «dove i crinali / vibrano alle nubi / a piombo sulle spoglie / sulle ombre del degenerante agosto, / il pipistrello allarga le ali / e scatta, involuta la luce / nulla più annuncia» e dove «la fulva / verticale bestemmia / cieli di perlati atolli incinera»; e torna di nuovo in Colle di Giano («colori atomi assenze […] Tu stolta eternità, mai vinta / adorante bestemmia, / polvere che si ribella, cielo / a me strappato, tu / viscere sempre gemebonde, terra…»)[54]. E nella raccolta seguente, IX Ecloghe, il rilancio sarà ancora più esplicito con Eatherly, una poesia interamente imperniata sul tema, dedicata per l’appunto a Claude Eatherly, fra i piloti che presero parte al lancio della bomba su Hiroshima (l’aviatore statunitense non si trovava su Enola Gay, il B-29 che sganciò l’atomica, ma su Straight Flush, l’aereo di ricognizione dal quale proprio Eatherly, dopo aver perlustrato i cieli della città giapponese, esclusi altri obiettivi per le condizioni climatiche avverse, inviò il messaggio a Enola Gay sentenziando il destino di Hiroshima: «Stato del cielo su Kokura coperto. Su Nagasaki coperto. Su Hiroshima sereno, con visibilità dieci miglia sulla quota di tredicimila piedi»). Nel componimento di Zanzotto, il pilota «superstite, sempre», «guard[a] l’umano» e ciò che ne resta, dall’alto di «orizzonti di nubi sublimizzanti / – ignee – / verso fondali degni di pellicole»[55].

Anche la poesia di Celan era rimasta impressionata dalla «devastazione della bomba atomica [die Verheerungen der Atombombe]» – come scrisse lo stesso poeta a Erich Einhorn, il 10 agosto 1962, a proposito di uno dei suoi componimenti più celebri, Stretto (Engführung)[56]. Nel testo, Celan parla da una «landa / dalla traccia inconfondibile [der untrüglichen Spur]», nel quale la «cenere [Asche]» si agita in un «turbinio di particelle [Partikelgestöber]» «sotto perfido / cielo [unter hämichem / Himmel]»[57].

 Dopo l’orrore, dunque, è rimasta una traccia inconfondibile e, oltretutto, incancellabile: perché la vertiginosa punta di violenza che ha messo fine alla Seconda guerra mondiale ha scavato un solco incolmabile nella coscienza umana, che dopo il 1945 ha vissuto con la consapevolezza di una provvisorietà non più individuale, né tantomeno collettiva (se si intende con questo termine un gruppo, una comunità o addirittura un popolo), ma di specie.

Alle foglie rese instabili dall’autunno bellico della Grande Guerra, di cui scriveva Ungaretti, si è passati con l’atomica all’impermanenza dell’intera vita umana sul pianeta. Ecco perché Zanzotto e Celan, avendo iniziato a scrivere dopo aver attraversato quella guerra, sono autori dello stesso tempo, il tempo presente di un dopo intramontabile – dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo la bomba: un dopo interminabile che li condizionerà anche dopo tanti anni di distanza (ancora Zanzotto: «Dopo la bomba atomica, parlando di una rosa non si può più parlare di una rosa soltanto, ma verrà fuori qualche cosa di diverso, che porta in sé la traccia di quest’altro mostruoso fatto del moltiplicarsi delle armi»)[58].

 

6. Da quando la poesia di Zanzotto ha preso le mosse, anzi, la parola, la condizione dell’autore era davvero la stessa di Celan. Meglio di tutti, l’ha detto Zanzotto stesso nel 1995, durante la lectio brevis pronunciata a Trento in occasione del conferimento della laurea honoris causa: la sua poesia è nata «nella consapevolezza che stavo camminando su una passarella instabile, come quei primi ponti che si buttavano sui fiumi nell’immediato dopoguerra, per riuscire a parlare, in qualche modo, pur dopo quello che era accaduto e che aveva annullato con un colpo di spugna migliaia di anni di storia e di presunta civiltà»[59].

 Celan e Zanzotto hanno vissuto lo stesso passato di sangue della guerra, e dopo quell’orrore hanno scritto in un presente in cui quel passato non smetteva di durare: «quando il labbro mi sanguinava di linguaggio»[60], scrive Celan in un verso che pesa come un macigno; o «nel tempo / estraneo che indietro ci trascina»[61], gli fa eco Zanzotto. È questo il tempo abitato fino alla fine dai due poeti, irrimediabilmente contemporanei.



[1] Questo articolo è la versione abbreviata dell’intervento tenuto al convegno Zanzotto, un secolo. Da Pieve di Soligo al mondo (Pieve di Soligo, 8-10 ottobre 2021).

[2] Ian Kershaw, All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949, trad. it. G. Ferrara Degli Uberti, Roma-Bari, Laterza 2016, p. 467.

[3] In Francesco Carbognin-Glenn Mott, Intervista a Andrea Zanzotto, in «Poetiche», fasc. 3 (2004), pp. 443-57: 447, c.m.

[4] Francesco Carbognin, L’«altro spazio». Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto, Varese, NEM 2007, p. 27.

[5] Andrea Zanzotto, Intervento (1981) in Id. Le poesie e prose scelte [= PPS], a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1266 e 1275, c.m.

[6] Cfr. Primo Levi, Dello scrivere oscuro, in Id., Opere, a cura di Marco Belpoliti, 2 voll., Torino, Einaudi 1997, II, pp. 676-81.

[7] PPS, 1202.

[8] Arturo Larcati, La fortuna di Paul Celan in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, in Diletta D’Eredità, Camilla Miglio, Francesca Zimarri (a cura di), Paul Celan in Italia. Un percorso tra ricerca, arti e media 2007-2014. Atti del convegno (Roma, 27-28 gennaio 2014), Roma, Sapienza Università Editrice, 2015, pp. 339-352: 343-345. Sul tema cfr. ora Dario Borso, Paul Celan in Italia. Storia e critica di una ricezione, Novate Milanese, Prospero, 2020 e Giovanna Cordibella, Per Zanzotto e Celan, note e revisioni, in «E l’avanguardia ha trovato, ha trovato?», numero monografico del «verri», 77/2021, pp. 144-154.

[9] Paul Celan,Vittorio Sereni, Carteggio (1962-1967). Con in appendice uno scambio epistolare tra Sereni e Andrea Zanzotto e un saggio traduttorio di Giuseppe Bevilacqua con interventi di Zanzotto, a cura di Giovanna Cordibella, Brescia, Edizioni l’Obliquo 2013, p. 49 n. 1.

[10] Ivi, p. 24.

[11] In merito alla vicenda editoriale, non andata in porto, Dario Borso, Paul Celan in Italia cit., pp. 48-63 e 119-120 e Giovanna Cordibella, Per Zanzotto e Celan cit.

[12] Cfr. Massimo Natale, In cammino verso un tu: su Zanzotto e Celan, in «Nuova corrente», 166, 2/2020, pp. 89-107. Naturalmente il lemma non è prerogativa dei due poeti, anzi, la neve è «carica di valenze simboliche riferibili a una trafila intertestuale che va da Hölderlin a Mallarmé, da Kafka a [appunto] Celan» (Luca Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il logos veniente di Andrea Zanzotto dalla Beltà a Conglomerati, Udine, Mimesi 2015, p. 205).

[13] Avvertita nitidamente già da Peter Watherhouse, In territorio di genesi. Saggio su alcune poesie di Paul Celan e Andrea Zanzotto, a cura di Camilla Miglio, Roma, Castelvecchi, 2021.

[14] Per Celan si veda Camilla Miglio, Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia, Macerata, Quodlibet 2022, pp. 124-127, 139-166 e 257-264.

[15] Citato da Silvia Bassi, Hölderlin e gli altri: poeti di lingua tedesca nell’Olimpo zanzottiano, in Donatella Favaretto, Laura Toppan (a cura di), Hommage à Andrea Zanzotto (atti del convegno di Parigi, 25-26 ottobre 2012), «Cahiers de l’hôtel de Galliffet», Parigi, Istituto Italiano di Cultura 2014, p. 167.

[16] Cfr. Stefano Colangelo, Il giardino dei semplici: una traccia tematica, «Poetiche», 1/2002, pp. 111-117.

[17] Si veda Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Milano, Mondadori 2016, pp. 69 e 124 e Id., Scritti sulla letteratura, a cura di Gian Mario Villalta, 2 voll.Milano, Mondadori 2001, II, pp. 69-70

[18] Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto nella terra, Roma-Bari, Laterza 2021, p. 46.

[19] Camilla Miglio, Ricercar per verba cit., p. 72 n. 20 e pp. 81 90.

[20] PPS, 1202, c.m.

[21] PPS, 1333, c.m.

[22] Andrea Cortellessa, Amelia Rosselli. La figlia della guerra, in «Poesia», maggio 2006, XIX, 205, pp. 44-6.

[23] Cfr. Paul Celan, Il meridiano, in Id., La verità della poesia. Il «meridiano» e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino, Einaudi 2008, pp. 3-22: 13.

[24] PPS, 566.

[25] Si veda l’episodio biografico di Zanzotto, datato 10 agosto 1944, nella «selva del granoturco» e narrato in Premesse all’abitazione (PPS, 1044-1045).

[26] Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto nella terra cit., p. 163.

[27] Andrea Zanzotto, Per Vittorio Sereni, in Id., Scritti sulla letteratura, II, pp. 50-53: 53.

[28] Andrea Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di Luigi Reitani, Milano, Mondadori 2001, pp. IX-XXIV: XVIII.

[29] Sara Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di Andrea Zanzotto: un dialogo poetico e poetologico, Udine, Forum, 2018, p. 100-sgg.; sul tema, in generale, si veda G. Cordibella, Andrea Zanzotto: Forme e stagioni di un Hölderlinismo, in Ead., Hölderlin in Italia. La ricezione letteraria, Bologna, il Mulino 2009, pp. 217-245.

[30] Camilla Miglio, Afasia e assenza: Hölderlin e Celan, in Giulio Ferroni (a cura di), Il turbamento e la scrittura, atti del convegno di Lucca, 5-6 dicembre 2008, Roma, Donzelli 2010, pp. 53-64: 64.

[31] Giovanna Cordibella, Per Zanzotto e Celan cit., p. 151.

[32] Dalla trascrizione di Giovanna Cordibella nel numero del «verri», 77/2021, p. 155.

[33] PPS, 1332, c.m.

[34] Theodor W. Adorno, Critica della cultura e società, in Id., Prismi. Saggi sulla critica della cultura, trad. it. C. Mainoldi et al., Torino, Einaudi 1972, pp. 3-22: 22.

[35] Cfr. Paola Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, Firenze, Giuntina, 2010; mi permetto di rinviare inoltre a Tommaso Gennaro, La traccia dell’addio delle cose. Macerie umane, urbane e culturali nel secondo dopoguerra, Roma, Sapienza Università Editrice 2017, pp. 183-214.

[36] Giusta la lezione, in Germania, di Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo [1947], trad. it. Paola Buscaglione Candela, Firenze, Giuntina 2011. In Italia, ha còlto gli effetti del regime fascista sulla lingua (in primis, la guerra al dialetto) Carlo Emilio Gadda, che con l’impasto linguistico dei suoi romanzi, e del Pasticciaccio in particolare, ha tentato di «redimere una lingua (quella del regime, della radio, dell’Istituto Luce) avvertita come ideologicamente compromessa» (Gabriele Frasca, Un quanto di erotia. Gadda con Freud e Schrödinger, Napoli, Edizioni d’if 2011, pp. 197).

[37] «Piégati allo strapotere, ma parla da prigioniero una lingua incomprensibile [Beuge dich vor der Übermacht, aber spric hals Gefangener eine unverständliche Sprache» è un aforisma emblematico, quasi metodologico, scritto da Celan all’indomani della guerra, nel 1948 (Paul Celan, Microliti. Aforismi, abbozzi narrativi e frammenti di poetica, a cura di D. Borso, Milano, Mondadori 2020, p. 10).

[38] Samuel Beckett, All That Fall, in Id., The Complete Dramatic Works, London, Faber and Faber 1986, p. 173.

[39] Che è la stessa di Celan: l’esigenza di «riuscire a parlare, in qualche modo, di quello che era accaduto» avvertita da Zanzotto all’indomani della guerra insorge esattamente a partire da quello stesso scacco alla lingua subito da Celan in quegli anni; nell’autore di Todesfuge e Sprachgitter Zanzotto incontrò quindi, dopo Auschwitz e Hiroshima, il poeta che aveva trovato una lingua necessariamente nuova per dire ciò che era possibile dire dopo la guerra. «L’evasività semantica di Celan», ha spiegato Andrea Cortellessa, «è una necessità di essere. Tanto nel suo caso che in quello di Zanzotto – come pure nel “babelare commosso” di Amelia Rosselli – il balbettio è la forma che prende il linguaggio quando dal trauma-radice “una ferita assetata cerca di risalire”»; e ancora l’«evasività semantica di Zanzotto assume una dimensione tragica, accostabile a quella di Celan, quando il trauma personale si sovrappone a quello collettivo, storico» (Andrea Cortellessa, Il canto nella terra cit., pp. 118-119).

[40] Cfr. Peter Szondi, Eden, trad. it. G.A. Schiaffino, in Id., L’ora che non ha più sorelle. Studi su Paul Celan, a cura di Jean Bollack, Ferrara, Gallio 1990, pp. 105-117.

[41] Paul Celan, Du liegst, in Id., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p. 1100.

[42] Paul Celan, Spät und Tief, ivi, p. 54. Insomma, «la lingua poetica di Celan», è importante chiarirlo, «cerca di stabilire le basi di una nuova alleanza tra terra, cielo e regno sotterraneo dei morti», dopo che questa alleanza è stata compro messa dalla guerra, e, pertanto, è necessariamente «wirklichkeitsbezüglich», ossia referenziale alla realtà (Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno, Quodlibet, Macerata 2003, p. 146 e Id., «durch... den Büßerschnee...». L’ultima poesia del ciclo Atemkristall, in Paul Celan in Italia cit., pp. 275-84: 276).

[43] PPS, 175.

[44] PPS, 146.

[45] PPS, 566.

[46] PPS, 241.

[47] Andrea Zanzotto, In questo processo scorsoio. Conversazione con Mario Breda, Milano, Garzanti 2015, p. 70.

[48] PPS, 41.

[49] PPS, 56.

[50] PPS, 51.

[51] PPS, 46.

[52] PPS, 57.

[53] PPS, 93.

[54] Rispettivamente PPS, 146, 172 e 178.

[55] PPS, 231.

[56] Cfr. Mariaenrica Giannuzzi, Paul Celan e l’uso politico della storia naturale, in “Studi germanici”, 8 (2015), pp. 67-101: 73.

[57] Paul Celan, Poesie, cit., pp. 332-339.

[58] Francesco Carbognin, Laura Barile, Ferita e farmaco. Quattro domande a Zanzotto sulla poesia, videointervista rilasciata da Andrea Zanzotto a Pieve di Soligo il 9 ottobre 2008 in occasione del Convegno Internazionale Il turbamento e la scrittura, organizzato dalla Fondazione “Mario Tobino” (Lucca, Palazzo Ducale 5-6 dicembre 2008), parzialmente trascritta in «Corrie re della Sera», 6 dicembre 2008, p. 48, da cui cito.

[59] Leggo il testo citato da Zambon, le pietre che gridano di Andrea Zanzotto, in Id., L’elegia nella notte del mondo. Poesia contemporanea e gnosi, Roma, Carocci 2017, pp. 139-143: 139, c.m.

[60] Paul Celan, Poesie cit., p. 151. Zanzotto, in un’intervista della fine degli anni Novanta, avrebbe detto che «nella parola» di Celan «c’era troppo sanguinamento in atto» (Donatella Favaretto, Diverse linee d’ascesa al monte. Intervista ad Andrea Zanzotto, «Revue des Études Italiennes», XLIII, 1-2, 1997, pp. 51-65: 55).

[61] PPS, 121.


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