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La beffa di Unibos, a cura di FERRUCCIO BERTINI e FRANCESCO MOSETTI CASARETTO, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2000, pp. 142, L. 16.000. 

 

Poemetto in 216 quartine di ottonari ritmici a rima baciata, composto a metà del secolo XI nella Francia del Nord o nel Belgio vallone e tramandato dal Bruxellensis 10078-95, che narra per la prima volta in forma scritta una storia frequente nel folklore (gli studiosi della scuola finlandese ne avrebbero registrato addirittura 875 versioni): quella delle burle ordite da un contadino la cui ricchezza si è ridotta a un unico bue (da qui il nome di Unibos). Per la disperazione si decide a venderlo, ma mentre si reca al mercato si ferma per esigenze fisiologiche in un prato, dove trova un tesoro. Rivoltosi al prevosto del paese per pesarlo, ne viene accusato di furto, e sapendo che sarebbe stato inutile tentare di discolparsi gli fa credere di avere ottenuto il denaro vendendo pelli di bue sovrapprezzo al mercato del paese vicino. Il prevosto si unisce allora al prete e al sindaco e dopo aver scuioato buoi e vitelli esperisce di persona la beffa, finendo poi in galera per la rissa successivamente scatenata contro i compari accusati di dabbenaggine. Liberati dietro cauzione, cercano Unibos per ucciderlo, ma questi fa creder loro che sua moglie,  stesa a terra cosparsa di sangue (di maiale),può  resuscitare con un rito magico al suono di una tromba miracolosa. La moglie si rialza più vegeta e più bella di prima, e i tre sono invogliati a far lo stesso con le loro mogli (prete compreso). Dopo la multipla strage coniugale i tre cercano nuovamente il contadino per farlo fuori, ma quello li attira in un’altra truffa (stavolta è una giumenta che evacua monete). Finalmente lo catturano, e Unibos chiede solo di scegliere la propria morte: essere gettato a mare legato. Ma il contadino la scampa ancora riuscendo a far suicidare i tre compari nello stesso modo in cui doveva morire lui.

Tipica satira del villano «scarpe grosse e cervello fino», il poemetto – che come è immaginabile ha attirato frequenti attenzioni da parte degli studiosi – sembra rappresentarneuna vera e propria messa in scena, se in questo senso possiamo intendere i versi 2, 3-4 praesentatur ut fabula / per verba iocularia e soprattutto 3, 3-4 in personarum drammate/ Uno cantemus  de Bove. Il latino del testo dipana l’intreccio con stile arguto e disinvolto, non privo di osservazioni psicologiche e di una cantabilità senza impaccio: l’edizione qui approntata da Bertini-Mosetti Casaretto (che riproduce e migliora quelle recenti di A. Welkenhuysen [1975], M. Wolterbeck [1985] e Thomas Klein [1991]) lo rende con un italiano agile, in prosa vivace fermata da pausazioni strofiche, accompagnandolo con una efficace introduzione, un commento estremamente ricco e diffuso, più sugli aspetti narrativi che su  quelli linguistici o comparativi, e un documentatosaggio di Mosetti Casaretto che propone un’inedita interpretazione del  testo: basandosi sulla morale aggiunta nell’ultima strofa a mo’ di dossologia, secondo le consuetudini compositive dei ritmi e delle favole medievali («Questo racconto dimostra per l’eternità che non bisogna prestar fede ai suggerimenti ingannevoli del nemico», termine che il latino cristiano usa per designare il demonio) vi costruisce una complessa lettura spirituale che vede il libro dell’Ecclesiaste come filo conduttore esegetico di un testo a più livelli di senso: strumento di questa allegorizzazione sarebbe l’uso (supposto come particolarmente raffinato) di un linguaggio biblico che si può scegliere di considerare semplice repertorio espressivo oppure, come propone il curatore, guida interpretativa al significato nascosto di una novella altrimenti consegnata alla totale, scanzonata amoralità che vedremo trionfare nella novellistica europea del ’300.

 

(Francesco Stella)

 


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