« indietro Ritmologia. Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione. Atti del Convegno: Università degli Studi di Cassino, Dipartimento di Linguistica e Letterature Comparate, 22-24 marzo 2001. Milano, Marcos y Marcos, 2002, pp. 414, € 18,00.
Ben trentotto interventi conta questa ricchissima pubblicazione che, come sottolinea Buffoni nell’introduzione, assume, per la novità così sistematica di esplorazione di un delicato e poco noto campo d’indagine, una valenza innovativa analoga a quella che si associò al caso omologo della ‘traduttologia’; ciò riconferma la sensibilità e la lungimiranza critica diun gruppo di lavoro di poetica che ruota intornoa «Testo a fronte» e «Trame». L’approccio al fatto ritmico, che si avvale dell’apporto di studiosi di diversa vocazione, offre una prospettiva sia diacronica che sincronica, rivelando la complessità del ritmo come punto di approdo del ‘fare’ umano di cui la poesia costituisce, come si conviene, il paradigma. Per l’alta specializzazione di alcune trattazioni (non mancano interventi tecnici, se non talvolta tecnicistici, ma comunque utili agli addetti ai lavori, soprattutto in ambito metrologico, dove la questione del ritmo è maggiormente coercibile), cui si affiancano riflessioni di poeti e critici letterari (testimoni di un vivo esperire o comunque di un’ermeneutica del ritmo), questa raccolta di saggi costituisce senz’altro un presupposto insostituibile per gli studiosi. Ciò che risulta particolarmente apprezzabile, al di là del valore dei singoli interventi, è senz’altro l’indipendenza critica dalle teorizzazioni più influenti del recente passato, nella necessità di non trascurare modalità soggettive di ricezione poietica; donde un tentativo di autonoma ridefinizione del fatto ritmico in ambito metrologico, poetico, filosofico (secondo la tripartizione di Buffoni). Infatti, il presupposto epistemologico di Benveniste su cui si fonda Meschonnic, se ha il pregio di sollevare una coscienza ‘ritmologica’, risulta sotto certi aspetti – alla luce dell’etnologia (oramai presupposto ineludibile in ogni fondazione di un sapere trasversale), e dell’etnomusicologia – un sofisma che si fonda su un pregiudizio pseudoorganicisticoaltamente concettualizzato. Il postulato panritmico di Meschonnic che risulta, in definitiva, molto più vicino a Platone che ad Eraclito (configurandosi, anche se a parte subiecti, come una «organizzazione del movimento»), non sembrainfatti avvalersi, nel suo autotelismo formulante, di nessun concreto fondamento etnologico. L’etimologia mutuata da rhéo che offre sicuramente, come inmolti interventi si è rilevato, una suggestiva alternativa motivazionale all’arythmos di nostra tradizione ed una succosa occasione per farsi protagonisti di un rovesciamento epistemologico di grande riscontro, appare, nella sua postuma ridefinizione, accolta in un contesto riduttivo. Infatti, l’accezione principale dello «scorrere» trascura una sua necessaria implicazione connotativa, strettamente connessa con una psicagogia del ritmo: quella dell’opposizione della materia alla ‘liquida’ progressione da cui la ‘reologia’, scienza che studia, appunto, la resistenza elastica dei materiali ad una deformazione). Il concetto di plasticità come ‘configurazione’ provvisoria (secondo la formulazione di Eraclito e Democrito evidenziata da A. Inglese) di cui Hegel ha fatto, tra l’altro, uno dei principi costitutivi della sua dialettica tra forma e dissoluzione, si trova infatti a coincidere, in un confronto con l’etnomusicologia, con quella del corpo in movimento come presupposto archetipico di ogni figuralità. Come il simbolo il ritmo è infatti simultaneamente, secondo una formula di Schneider, «dentro e fuori di noi». Il mancato confronto diretto con l’etnologia (nella fattispecie, con le imprescindibili rivelazioni di Eliade, Jousse, Zolla e lo stesso Schneider) comporta, dunque, delle menomazioni tutte ‘occidentali’ alla ‘figurabilità’ del ritmo, la cui ‘ridondanza’ sacrale e cultuale nell’ambito della poesia e della traduzione (la sua irriducibilità semica) resta comunque confinata a postulati idealistici del poetico come atto primo. Nella sua consustanziale dualità logogenica e patogenica quale si manifesta nella poesia moderna, invece, il ritmo è in primo luogo un concetto etnoantropologico, di cui la poesia stessa offre un’ideale punto di osservazione costituendosi come snodo della sua consustanziale (e finora misconosciuta) dialetticità. Una «critica pratica» del ritmo (secondo la felice formula che Steiner adotta per la traduzione), è infatti quella che si riscontra attraverso un costitutivo sdoppiamento dello stesso tra una istanza progressiva ed edificante (poietica), tesa al discorso e alla concettualizzazione, e una istanza regressiva, (recepita come pars destruens) tesa verso l’archetipo del corpo danzante che mima una autosignificatività dissipantesi in un contesto rituale e cerimoniale. Nella maggior parte delle civiltà primitive (cui si ascrive anche il sincretismo presocratico della mousikè ritentato a posteriori da Wagner) il fenomeno ritmico risponde infatti alla necessità, en abyme, di ‘figurare’ (plasmare: di qui il primato chironomico) il corpo, ovvero, di domesticarlo. La tendenza alla ‘tesaurizzazione’ simbolica del gesto in una forma schematica del pensiero conduce ineluttabilmente ad una configurazione che, dapprima intuitiva, si viene progressivamente concettualizzando, codificandosi e ‘appiattendosi’ nel metro: tale si manifesta la «sorte progressiva » del ritmo nell’ambito di una concezione lineare e monoassiale del discorso dato come ‘edificante’ e simmetrica sequenzialità. Di qui la convinzione di molti etnologi ed antropologi che il ritmo (essenzialmente asimmetrico giacché simmetria in natura equivale a stasis) sia strettamente connesso con l’economia interna di una società: cerimoniale, feticizzante nel caso di una patogenia (la ‘dissipazione’ del corpo come oggetto di culto, di cui i tamburi parlanti di certe culture primitive, mimando i tratti soprasegmentali del messaggio linguistico, costituiscono il surrogato ‘strumentale’), edificante (domesticante) ma reificante nel caso di una logogenia, ovvero di una economia dello scambio linguistico qual è la nostra (cui ascriveremo anche il ‘ritmo’ architettonico che ha governato l’edificazione ‘simbolica’ delle cattedrali). In tale ottica, è implicitamente indicativa la scelta, oramai convenzionale, di rendere verslibrisme con ‘versoliberismo’, laddove la connotazione ‘economica’, forte in italiano (e non in francese che ha invece, come corrispettivo ‘economico’, il sostantivo «libéralisme »), esemplifica l’individualismo ‘poietico’ delle attuali democrazie in rapporto ad una regimentazione ‘teocratica’ della versificazione. Data la forte componente spaziale, sia nella sua accezione patogenica sia in quella logogenica, risulta dunque, a posteriori, altrettanto sofistica l’attribuzione post-bergsoniana di una temporalità al ritmo, ovvero una sua ‘melodizzazione’ sul modello vocale. Tale tendenza già precritica di annullamento reale del ritmo, particolarmente affermatasi nel secondo Ottocento (il wagnerismo e la unendliche elodie) non fa che preludere alla reazione iper-ritmica della poesia ‘simbolista’ (qui spesso a buon diritto citata). Ravvisando l’irruzione della coscienza ritmico- atogenica nel testo come un’istanza destruens che provoca il «soprassalto della coscienza» di fronte ad un meccanismo ora recepito come organismo (si pensi alla repercussio iperestetica di Baudelaire o alla riconfigurazione ‘punitiva’ della diabolica saltatio di ascendenza medievale), la poesia si fa ora portavoce di una autentica ‘critica’ del ritmo, ravvisato nella sua ‘rituale’ sovradeterminazione. Tale ‘organicità’ del fatto ritmico sentito come presupposto inesauribile di ‘figuralità’ in dissoluzione, si manifesta attraverso la percezione di una ridondanza percussiva e regressiva del poetico rispetto alla parola secolarizzata ed edificante. La stessa spazializzazione ‘disgregante’, accompagnata ad una rimotivazione poetica della lingua a principio si riscontra, del resto, nell’analogia etimologica tra cadenza e caduta evocata da Mallarmé, dove ogni accentuazione comporta una interruzione ‘spaziale’ (proto-figurale della anodina sequenzialità discorsiva. Per tornare su un piano più operativo, avremmo apprezzato qualche applicazione strettamente traduttologica del ritmo o del metro (ad esempio una stilistica comparata su base metricologica). Resta il fatto che, testimoniando della serissima investigazione metapoetica che sta alla base della produzione contemporanea e tanto più apprezzata nei poeti giovani, il volume costituisce una mirabile reviviscenza ‘autocritica’ (teorica e pratica) della poesia che dal manieristico autocompiacimento post-mallarméano (come ben sottolinea Zuccato) torna ad investigare, attraverso la sua privilegiata prospettiva, le radici più profonde ed autentiche dell’agire il quale sta sempre, ineluttabilmente, dentro e fuori di noi.
[Michela Landi]
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