« indietro ANISE KOLTZ, Il paradiso brucia, a cura di Elio Pecora, Roma, Empirìa 2001, pp. 155, € 12,50.
ANISE KOLTZ, Le porteur d’ombre, poèmes; Collection Graphiti des éditions Phi, décembre 2001, pp 117, € 12,00.
Elio Pecora, curatore per Empirìa dell’antologia Il paradiso brucia, ha acutamente sottolineato il carattere precipuo del fare poetico di Anise Koltz (1928), la quale – attraverso l’estraneità della visione – si situa, fra ragione e sogno, in un grado di consapevolezza e lucidità che scarnifica e pone di fronte alla nudità della parola, al silenzio. I componimenti, tratti dagli ultimi libri, sono stati composti dalla poetessa, in francese, nell’arco degli ultimi dieci anni, e significativa appare la scelta di intitolare la prima raccolta Chants de refus. Chi scrive nega e sottrae, innanzitutto, ai carnefici la duplice e ambigua valenza della parola. Il rifiuto è quello di una lingua, il tedesco, espressione massima dei mandanti dell’«assassinio » del marito (morto all’inizio degli anni settanta a causa delle sofferenze patite nei campi di concentramento durante l’occupazione nazista). A ben vedere l’esperienza koltziana può essere considerata antitetica a quella di Celan, anche se in entrambi la poesia nasce da un’insanabile scissione psichica. Se si analizza la prima poesia, che Pecora giustamente ha posto come incipit/manifesto dell’intero lavoro, si può ritrovare, in nuce, la lineare poetica della Koltz: per chi sosta è necessario concedersi una pausa non per dimenticare, bensì per trarre respiro in un mondo che al troppo cicaleccio e a fatue immagini deve imputare la propria fine. Le forze attinte altrove/ ci permettono di sopravvivere. Si permea la lingua e la si porta ai confini del vuoto, dell’orrore; non si sfida la morte, ma da essa si attinge l’energia necessaria per comprendere la vita. L’altrove nominato non è identificabile con un’entità fisica dai contorni nitidi, è anzi il linguaggio stesso, e come direbbe Deleuze non è «au dehors, c’est le dehors». Canti vengono denominati i testi perché si osa, con determinazione e durezza, affermare la propria non resa al giorno, al massacro quotidiano. Quello della Koltz è uno sguardo neutro, che adotta le armi della pietas e della crudelitas (da intendersi in senso artaudiano) per dialogare con la morte, per rendere accettabile la parte di noi più radicata e temuta. È possibile ascrivere questo tipo di scrittura alla tradizione teologica negativa del Novecento? Quando il poeta mette in gioco il personaggio di Dio sa che, in realtà, si troverà di fronte a un simulacro, uno dei tanti idoli della società e lo rifiuterà distanziandolo da sé, dal suo ambiente. Lo chiama in causa – in prima persona – affermando il proprio diritto a negarne l’esistenza sapendo, in partenza, che non v’è risposta alcuna: Dio / ti chiamo / come se esistessi - Soffoco Dio con i miei capelli - Io sono l’incubo di un dio folle. Lo nega tramite la sua presenza corporea. Ed ecco, allora, che la poesia magmatica della Koltz si svela umorale, lotta corpo a corpo con sé e con gli altri – soprattutto coi genitori: Ogni giorno mangio / mio padre e mia madre / con pane caldo – con chi non esiste più. Il testo, a cui si affida la chiusa dell’antologia, è un’ancorata supplica, reiterata in due strofe, rivolta al marito: Toccami / per verificare / se esisto / in questo corpo / [...] con i suoi seni flaccidi / disseccati dalla luna. I componimenti brevissimi risultano sentenze definitive, incolmabili, lapidarie nella loro levità modulare. Il rapporto complesso con la figura di Dio, e con quella degli angeli, può ricordare l’esperienza del Cocteau di Cap de Bonne- Espérance e di Plain-Chant e, forse, sarebbe utile un’indagine in tal senso. L’ultimo lavoro poetico: Le porteur d’ombre presenta, in exergo, una dedica: Alla memoria di René Koltz e a mia nipote Béryl. Il tu con cui il poeta dialogherà sarà il suo sposo/amante, l’amore di un’intera vita. Anche se l’unico vero attante (l’assunzione permette di non essere travolti dal dolore) resta la Koltz stessa, «la portatrice d’ombra» come ha confidato a Laura Guadagnin, autrice della versione italiana ancora inedita di questi recenti testi – di volta in volta impersonificherà i nunzi alati dell’Apocalisse, un rapace, la sposa/amante, il creatore di Dio – in questo libro strutturato come una pièce da mettere in scena ogni qualvolta lo si prenda in mano, compaiono – in assenza – le persone che hanno costellato la vita del poeta. Il liber s’apre con un prologo: ogni mia poesia / sotterra i vostri morti. Sotterra, non invoca né resuscita; certo non li può salvare e nemmeno si salva rendendogli omaggio. Seguono sette stazioni tematiche, e ad apertura di capitolo si pone una fotografia dell’autore, paratesto fondamentale per la comprensione dell’intera opera. Nelle prime quattro: Deserto, Sabbia, Cielo e Vento dopo un’Apocalisse inavvertita, dopo le guerre che vomitano cadaveri, dopo città popolate da abitanti, addossati a pareti, pieni d’angoscia, ci si confronta con la presenza ingombrante di Dio e della sua creatura terrena: un Cristo mal digerito. Tutto ciò avviene in un presente storicizzato capace di fagocitare il passato in luoghi abbandonati ed è – ivi – che l’autore intesse una coralità individuale e tenta di chiudere il cerchio, la vergogna di rimanere. Con Chaleur, Koltz introduce un canto fermo d’amore – pienezza e mancamento – per il marito: Da quando abito la tua assenza / i miei giorni non sono che un vano pellegrinaggio / verso me stessa. Si sprofonda nell’oscurità della terra e si sogna un ricongiungimento impossibile dato dalle stagioni differenti in cui si trovano. Le poesie sono preghiere e come tali rimarranno inascoltate: la mia pelle è minacciata / svegliami! Oltre il nome pronunciato dello sposo v’è – solo – il silenzio. In Froid compaiono il padre e la madre, ombre portate su di sé con fatica tanto che Anise afferma di vivere dietro la figura materna, la quale ha discostato la figlia apparsa come esecrabile mostro dai quattro occhi e dai molteplici sensi. Nonostante tutto la sezione si chiude con un’invocazione: Alix Mayrisch ma mère je t’appelle, simile a un mantra questo verso permette di esorcizzare la paura di un rifiuto incancellabile in una mente provata dai lutti. Nell’ultimo capitolo, Fra cane e lupo, dove non si distingue più chi è l’uno e chi è l’altro, una notte ulteriore ci attende, ma è – infine – la vita stessa, impossibilitata all’incontro, a palesarsi immortale nella sua mortalità.
[Andrea Breda]
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