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MARINA CVETAEVA, Il ragazzo, a cura di Annalisa Comes, Firenze, Le Lettere 2000, pp. 252.

HENRY TROYAT, Marina Cvetaeva. L’eterna ribelle, traduzione di Annalisa Comes, Firenze, Le Lettere 2002, pp. 251.  

 

Nella ricca produzione poetica cvetaeviana degli anni dell’emigrazione il poema Mólodec, concluso nel 1922 e pubblicato a Praga nel 1924, ebbe un destino del tutto particolare. Esso venne infatti tradotto dall’autrice in francese negli anni 1929- 1930 e di fatto si trasfigurò in qualcosa di altro, inatteso ed altrettanto affascinante. Il testo della traduzione-reinterpretazione, intitolata Le Gars, a parte un breve frammento, è rimasto ignoto al lettore fino al 1992, quando a Parigi la traduzione fu proposta per la prima volta in ben due diverse edizioni.

Nella edizione più autorevole (ed. «Des Femmes»), quella curata dal compianto Efim Etkind e preceduta dal di lui saggio L’extrémisme de Marina Tsvetaeva, si offre un’analisi approfondita delle circostanze biografiche e letterarie che motivarono la decisione di tradurre in francese il testo, nonché una serie di indicazioni generali su di esso, la sua struttura e le sue fonti.

Non ripeterò qui quanto correttamente riportato nell’introduzione alla traduzione italiana ad opera di Annalisa Comes se non che il poema Molodec era ispirato ad una favola, intitolata Upyr’ [Il vampiro], della raccolta Fiabe popolari russe pubblicata da A.Afanas’ev negli anni 1855- 1863, e che esso costituiva il compimento di un ampio progetto di rilettura poetica del folclore russo da parte della poetessa, progetto iniziato almeno con il poema Car’-devica del 1920.

Il poema, dedicato a Boris Pasternak e con un’epigrafe dedicatoria desunta dalla bylina di Il re dei mari e Sadko, costituisceunesempio originalissimo di ricorso al linguaggio e ai modelli della poesia popolare. Non siamo infatti di fronte ad una stilizzazione, bensì ad un’opera di sperimentazione poetica, nella quale non si riproducono meccanicamente i cliché e le formule dei testi folclorici, ma si applicano i principi psichici, mitici e poetici propri  della coscienza popolare. Da qui l’atteggiamento sacrale verso la parola che caratterizza ai vari livelli il testo, in primo luogo quello dell’intreccio che si costruisce sul rifiuto della protagonista Marusja di chiamare con il suo nome il giovane amato, in realtà demoniaco vampiro. L’originalità sempre a livello tematico si afferma poi nel finale, che si distingue da quello della favola di Afanas’ev e porta non al ricongiungimento con la famiglia,ma all’eterna unione con il giovane, con il vampiro.

Il carattere generale dell’opera, certamente sperimentale e sicuramente riconducibile all’esempio chlebnikoviano, si fonda su di un approccio sincretico alla parola nei vari aspetti fonici, grammaticali, semantici, visivi. Da qui l’uso di forme arcaiche, di neologismi, da qui il tentativo di ricostruire i principi logicoverbali del pensiero primordiale nell’uso delle categorie linguistiche [su tutte queste questioni si veda il saggio di L. Zubova, «Po sledu slucha narodnogo», in Marina Tsvetaeva. Un chant de vie, a cura di E. Etkind e V. Lossky, Paris, 1996, pp. 207-218].

Lo stesso pathos creativo, la stessa ricerca verbale caratterizzano anche la redazione francese Le Gars. Questa viene ricordata dalla poetessa nella sua autobiografia del 1940. Di essa si legge: «...realizzata nella misura dell’originale». Per la Cvetaeva, evidentemente, era importante non solo la resa linguistica dell’originale, ma anche la resa formale (non funzionale) del piano metrico. La poetessa infatti rifiuta il metro sillabico francese e rende il suo testo nel metro sillabotonico proprio del russo (nel caso specifico prevalentemente nel ritmo trocaico). Coma ha notato Michail Gasparov [M.L.Gasparov, Russkij «Molodec» i francuzskij «Molodec »: dva stichovye esperimenta, «Russica Romana», II, 1995, pp. 171-184], questa scelta verrà reiterata qualche anno più tardi, nel 1936, nella traduzione di alcuni testi puškiniani che la poetessa, come risulta da una sua lettera a Jurij Ivask, rese «in versi, naturalmente, e in versi corretti ». Il riferimento alla «correttezza» delverso è riconducibile all’idea diffusa, specie in area russa e tedesca, che il verso sillabico francese scarsamente marcato nel ritmo accentuativo sia in definitiva un «verso scorretto». Delle traduzioni puškinianedella Cvetaeva ha fornito un’analisi  approfondita ancora Efim Etkind nelsaggio Marina Tsvetaeva, poète français in Marina Tsvetaeva. Un chant de vie, a cura di E. Etkind e V. Lossky, Paris, 1996, pp. 237-250.

Ma vediamo più da vicino la traduzione francese del testo russo del 1924. La traduzione, va detto subito, è nel suo complesso assai libera, ma è una libertà solo esteriore. Come ha notato ancora Michail Gasparov, essa è libera per quanto riguarda il complesso delle immagini poetiche, ma è precisa nello stile e nella lingua. La poetessa tende a fornire una traduzione letterale di determinati termini per poi sviluppare i loro collegamenti fonici, ritmici e stilistici secondo i principi che sottostanno all’originale russo. Proprio in questa direzione va interpretata la tendenza alla resa equimetrica. Il testo francese, se analizzato sulla base della metrica sillabotonica, presenta frammenti in dipodie, tripodie, tetrapodie e esapodie trocaiche, in dipodie anfibrachiche e dattiliche e in varie forme intermedie. Ecco un esempio di resa equimetrica (tetrapodie trocaiche), come individuato da Michail Gasparov nel suo succitato articolo:

 

Ej, zvonoǒčki, zvončej vdarim!

File, vole, ma berline!

Naša novaja duga!

Brûle haltes et relais! 

 

Rispetto all’originale russo la Cvetaeva tende a coadiuvare il lettore francese con una prefazione, nella quale si riporta la trama del poema. Inoltre, nella redazione francese esso è suddiviso in due parti, La Danseuse e La Dormeuse, e presenta in margine in presenza del discorso diretto l’indicazione dei personaggi che parlano. Nella traduzione francese non è presente la dedica a Pasternak, né il distico dalla bylina di Sadko. Tale circostanza, mi sembra, costituisce elemento di forte distinzione mitopoietica tra i due testi.

Per l’edizione francese di Le Gars la celebre pittrice Natal’ja Gončarova che era rimasta entusiasta dell’originale russo e aveva ella stessa consigliato alla Cvetaeva di far tradurre il poema in francese, preparò 16 diverse illustrazioni (lettera a R.N. Lomonosova dell’8 dicembre 1930).

Come più tardi le traduzioni in francese di Puškin, preparate per il centenario puškiniano del 1937, anche la traduzione del poema Molodec rimase a lungo senza editore. Le prime furono pubblicate solo nel 1981 e per di più in un’edizione di tipo accademico (sul «Wiener Slawistischer Almanach», la seconda, come detto, solo nel 1992).

Sui vani tentativi, le attese e le delusioni relative alla mancata pubblicazione di Le Gars troviamo molti accenni nella corrispondenza della Cvetaeva di quegli anni. Assai interessante in questa prospettiva risultano la corrispondenza con la Tesková e, in particolare, quella con R.N. Lomonosova. Sappiamo che la poetessa si rivolse alle redazioni di «Nouvelle Revue Française» e «Commerce» e allo scrittore Charles Vildrac. Un brano della traduzione, ad onor del vero, uscì con il titolo Fiançailles su «France et Monde» (1930, n. 138, pp. 75-78, cf. »Nebesnaja Arka. Marina Cvetaeva i Rajner Maria Ril’ke, a cura di K.Azadovskij, Sankt-Peterburg, p. 346) e un brano del quinto capitolo Cheruvimskaja (Le Chant des Anges), con il titolo La Neige era stato proposto a Mark Slonim per un’antologia francese di poesia contemporanea.

Probabilmente le cause del rifiuto dei vari editori francesi debbono essere addebitate in primo luogo al ritmo sillabotonico, sentito come innaturale e forzato nel francese. Certo il problema primario è quello di definire la fruibilità del testo per il lettore francese, la sua correlabilità alla sensibilità poetica francese. Marina Cvetaeva non considerava la poesia come emanazione di una specifica lingua naturale, ma recepiva tutto il processo poetico come processo di traduzione («Dichten ist nachdichten», come la poetessa notò in una sua lettera a Rilke). Il testo di Le Gars è dunque il risultato di una «traduzione» dal francese (lingua che la poetessa conosceva in modo eccellente, come testimonia Mark Slonim, almeno nella forma letteraria se non nel parlato) in una propria lingua poetica che si diparte dalla lingua naturale senza identificarsi con essa. Se scrivere poesia è già tradurre, tradurre poesia in realtà è semplicemente riscrivere poesia. Il testo della Cvetaeva va dunque visto linguisticamente nel suo divenire, nel suo trasformarsi da materia linguistica in spirito poetico. Da qui l’esigenza di applicare lo stesso processo psichico, mitico e poetico che è alla radice di Molodec in Le Gars in una dimensione nella quale le materie sono diverse, ma lo spirito è in identico divenire. Non è fuori luogo qui ricordare come la poetessa fosse convinta dell’esistenza della «lingua degli angeli», la lingua immateriale dell’anima e che nella sua gerarchia personale ad essa seguiva il tedesco, poi il russo e infine il francese (cf. Efim Etkind, Marina Tsvetaeva, poète français, cit., p. 239).

Di molti di questi problemi ben si rende conto la traduttrice italiana che affronta direttamente il problema della struttura fonico-ritmica del testo francese, del suo divenire testo poetico e offre per conseguenza spunti interessanti di analisi. In particolare, mi sembra, con puntualità è affrontato il problema dell’uso del trattino nel verso, elemento che privilegiando l’aspetto visivo del testo poetico, dovrebbe (o potrebbe?) attraverso l’intonazione avere effetti anche su quello fonico. Di questo scrisse anche Josif Brodskij. Francamente non so dire quanto questo segno di interpunzione possa avere rilevanza nel testo francese e, per conseguenza, in quello italiano, ma lo ha nella logica generale dell’idioletto francese della Tsvetaeva.

Assai complesso è nel testo francese l’uso della rima, sia in terminazione che all’interno della sequenza, e, più in generale, di tutto il complesso delle iterazioni, assonanze, ecc. Si tratta di procedimenti amatissimi dalla Cvetaeva e dei quali la traduttrice scrive con competente attenzione nella sua introduzione. Con altrettanta consonanza la traduttrice si cimenta nella traduzione, nella quale prova a ricostruire il complesso intreccio di rime, assonanze e iterazioni, offrendo così al lettore un testo fresco e autentico che permette di rivivere nella pienezza le magiche atmosfere dell’originale (degli originali, diversi tra loro...), il suo intreccio di suoni e immagini.

Certo in conclusione si pongono alcune naturali domande. Come apprezzare Le Gars senzaconoscere Molodec? Quali  sono i reali legami tra i due testi? Perché proporre al lettore italiano proprio Le Gars e non Molodec? Non si tratta, evidentemente, della sola scelta di un punto di vista, ma di un atteggiamento metodologico che dovrebbe prevedere la conoscenza e la disamina di tutto il retaggio letterario cvetaeviano in lingua francese. A partire dalla traduzione di una poesia di Majakovskij fino ad arrivare alle numerose versioni di canzoni rivoluzionarie russe e tedesche, agli altri testi poetici composti in francese e recentemente pubblicati da Veronique Lossky, per non dire dei vari testi prosastici scritti o tradotti in francese (Lettre à l’Amazone, Lettres Florentines, ecc.). È perciò augurabile che in sede di studi comparati si giunga presto ad una esaustiva descrizione storico-tipologica del retaggio francese della Cvetaeva.

Alla traduzione italiana di Le Gars fa da pendant una biografia della poetessa scritta da Henry Troyat, dal titolo Marina Cvetaeva. L’eterna ribelle [Marina Tsvetaeva, l’éternelle insurgée], anch’essa proposta in versione italiana da Annalisa Comes.

Il volume, opera di un noto scrittore e biografo francese di origine russa, costituisce una sorta di collage, di assemblaggio letterario delle molte fonti e biografie russe, francesi e inglesi dedicate alla Cvetaeva. Esso non è accompagnato da un apparato di note storiche e letterarie articolato, ma offre al lettore solo un primo approccio al tema. Opera dunque non di carattere scientifico-documentario, bensì ricostruzione letteraria, il libro presenta senza dubbio momenti di lettura appassionata e coinvolgente e piacerà agli amanti del genere.

Non mancano tuttavia le imprecisioni e alcuni eccessi compilativi. Riporto solo un esempio. Quello relativo agli incontri tra M. Cvetaeva e Anna Achmatova a Mosca nel giugno 1941. Come è noto, su questi importanti episodi esistono numerosi riferimenti memorialistici. Ne abbiamo uno anche da parte della stessa Anna Achmatova, dove si fornisce un ritratto della Cvetaeva: «È tornata regalmente a Mosca. Questa volta per sempre, e non come colei cui amava paragonarsi: un negretto o una scimmia vestita alla francese, cioè décolleté grande gorge». Troyat cita di seconda mano (da un libro di Claude Delay), nella traduzione si perdono le espressioni francesi utilizzate nei suoi appunti memorialistici da Anna Achmatova. Poco sopra si riferisce en passant dell’incontro in casa di Nikolaj Ivanovič Chardžiev, importante critico e collezionista. Troyat lo trasforma in M. (Michail?), la traslitterazione ne stravolge il cognome. Non si può non segnalare inoltre alla pag. 49 il ritratto fotografico di Osip Mandel’štam con didascalia: «Sergej Efron nel 1912» (sic!).

Da segnalare infine che proprio di recente è uscita una nuova biografia della Cvetaeva a firma I. Kudrova nella serie «I poeti russi. Vita e destino» della casa editrice «Zvezda» di Pietroburgo. Certamente un evento importante negli odierni studi cvetaeviani.

 

Stefano Garzonio


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