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ÁKOS FODOR, Buddha Weimarban, Budapest, Fabyen 2002, pp. 143.

 

Ákos Fodor, poeta e traduttore, č nato il 17 maggio 1945 a Budapest. Si č laureato nel 1968 presso il Conservatorio di Budapest, sin da allora lavora come curatore presso l’editore Zenemkiadó. A partire dal 1978 ha pubblicato dieci volumi di poesie di cui tre raccolgono anche traduzioni. ltre a ciň ha scritto una radiocommedia  e diverse canzoni. Traduce commedie, libretti e poesie dall’inglese, dal tedesco e dall’italiano.

Buddha in Weimar, il decimo volume del poeta č uscito nel 2002, raccoglie centodiciannove (piů una) poesie delle quali sono sessantatre (piů uno) gli haiku. Questa medievale forma giapponese breve e sentenziosa viene non solo europeizzata ma anche «fodorizzata». L’autore rispetta i tratti formali della sillabazione (ogni haiku conta diciasette sillabe, né piů né meno) e di solito scrive testi in tre versi, divisi in cinque-sette-cinque sillabe (come bisogna scriverle nelle lingue europee). Per quanto riguarda il contenuto, invece, i suoi haiku non colgono soltanto le bellezze del mondo trasmettendo tranquillitŕ e armonia, ma a volte fanno addirittura accenno a stati d’animo macabri, dolorosi. Oltre a queste due tematiche fondamentali non mancano i consigli piů che saggi sul modo di vivere la nostra vita, le veritŕ assolute e quelle soggettive, le poesie in omaggio e neanche gli haiku buffi che durano un sorriso.

L’importante č che il lettore di haiku nel senso poetico funzioni allo stesso livello del poeta. Siamo veri e propri coautori in quanto le diciassette sillabe possono essere solo un punto di partenza delle nostre associazioni. Lo haiku in piů (che si trova sulla copertina del nuovo volume) č un consiglio metapoetico, si intitola appunto Elkészítési javaslat – Istruzione per la cottura, e in esso Fodor spiega come consumare le sue poesie: «scioglila nell’Acqua della tua Vita: come ti pare giusto». Un consiglio da accettare se vogliamo godere pienamente l’emozione rovocata dalle massime fodoriane. 

Non solo gli haiku ma anche le altre poesie di Fodor sono altrettanto brevi. Le piů corte contano una sola parola, quelle piů lunghe si costruiscono da sette versi. Ovviamente non ritengo la quantitŕ di una poesia un dato rilevante, mi riferisco alla brevitŕ solo per poter far capire quanto sia importante, oltre alla nostra attivissima partecipazione nel proccesso creativo, il titolo nelle poesie di Fodor. Succede tante volte che proprio il titolo fa la poesia, nel senso che senza di esso si perderebbe tutta la poetica dell’opera. Cerco di dare un esempio:

 

3 NEGATÍV SZÓ

 

n i n c s

s e m m i

ba j

3 PAROLE NEGATIVE

 

n o n c ’č

n i e n t e

m a l e

 

Si vede benissimo dalla poesia sopra citata che senza il titolo l’affermazione sarebbe solamente una banalitŕ senza alcun alore artistico, perň il titolo ci costringe  a leggere queste tre (in italiano sono purtroppo quattro e mezzo) parole separatamente, dopo le quali ci rendiamo conto che si puň facilmente costruire qualcosa di positivo anche da elementi tutti negativi. Č cosě semplice farci riflettere sul mondo e sulla nostra esistenza.

Una caratteristica da sottolineare nella poesia di Fodor č il modo di mettere in rilievo i doppi sensi, i giochi linguistici, le proprie invenzioni o semplicemente le parti da accentuare con trattini, due punti, con doppi spazi tra le lettere e con corsivi. A volte questi rilievi danno alla poesia una sfumatura in piů, altre volte invece, senza essi, la poesia perderebbe del tutto di senso.

Bisogna ricordare i paradossi e i proverbi o modi di dire capovolti che sono molto frequenti nella poetica fodoriana. Tale frequenza non č casuale visto che proprio le contraddizioni e i capovolgimenti ci aiutano a pensare e sentire in modo piů profondo.

Troviamo tanti dediche e riferimenti a modelli letterari, soprattutto a poeti ungheresi, ma non esclusivamente, i quali funzionano un poco come i titoli e servono ad aprire una voragine ancora piů profonda nell’anima del lettore.

 

Judit Radnóti

 

 

 

 

JELENKOR, rivista letteraria e artistica, Jelenkor Alapítvány, Pécs, 2003/10, pp. 111.

 

Jelenkor – la rivista mensile, curata da Zoltán Ágoston, József Keresztesi e Boglárka Nagy, viene pubblicata a Pécs, cittŕ universitaria al Sud-ovest d’Ungheria, ha compiuto i 45 anni. Durante questi anni la rivista č riuscita a diventare una delle piů note in tutto il paese (presente in 33 cittŕ ungheresi): viene pubblicata in 1350 copie, con 500-600 abbonati. Invece di autocelebrarsi, si č deciso di dedicare il numero di ottobre 2003 a un personaggio importantissimo nel panorama letterario del nostro paese, a Parti Nagy Lajos (1953), poeta e scrittore che per sette anni (partendo dal 1979) collaborň alla rivista e assieme a essa compie gli anni: ne ha cinque in piů.

Il numero in questione si divide in tre parti. Una č interamente dedicata al poeta cinquantenne. Prima di tutto tre poesie di tre poeti diversi celebrano il compleanno del poeta, ognuno a suo modo. L’inizio del Az órájára néz – Guarda sul suo orologio di Bertók László (1935) č una descrizione del tutto reale e diretta dell’atto di cominciare a scrivere, poi pian piano ci troviamo entro il modo (e mondo) di inventare di Parti Nagy da cui accediamo ogni tanto a un livello metapoetico per scoprire e riscoprire come pensa e funziona il poeta stesso. Una caratteristica molto forte della poesia sono i ventinove punti interrogativi e le diciassette parentesi con i quali il poeta riesce a materializzare le infinite variazioni e possibilitŕ che girano all’interno e al di fuori della testa dell’autore in lavoro. Kovács András Ferenc, detto KAF (1959) nella sua Egy röpke ötven Un cinquanta fuggente gioca sulla poesia Egy hosszú kávé Un caffč lungo di Parti Nagy Lajos. KAF sottolinea il modo di poetare alla Parti Nagy esagerando le sue caratteristiche: le scelte errate di suffissi, il cambiamento della funzione delle diverse parti del discorso, facendo funzionare per esempio un nome come se fosse un verbo, l’invenzione di parole non esistenti ma grammaticalmente possibili. Varró Dániel (1977) invece dedica un sonetto a omaggio del «Maestro», un vero e proprio augurio per il suo compleanno con geniali invenzioni linguisticoartistiche ovviamente intraducibili, concluso con una doppia alliterazione «Minek még, Mester, ötven évig örvendj.»

Seguono due conversazioni: nella prima Parti Nagy Lajos intevista Tolni Ottó (1940), poeta e scrittore, nella seconda egli stesso viene intervistato da una critico Nagy Boglárka (1967). Due recensioni sul nuovo volume, Grafitnesz, di Parti Nagy Lajos, (Magvet Könyvkiadó, Budapest, 2003) concludono la parte auguriale. Keresztesi József (1970) parla della metafora della frammentarietŕ collegata alla parte tecnico-artigianale della poetica di Parti Nagy. Kálmán C. György (1954) sottolinea l’impossibilitŕ di entrare nella poesia e farne parte come si poteva una volta, considerata un effetto fondamentale dei continui richiami alla materialitŕ della poesia, quindi dei giochi con le desinenze, con i suffissi ... ecc. Quando leggiamo una parola che non si adegua perfettamente alla lingua quotidiana, avviene un distacco e cominciamo a riflettere.Come dice Kálmán C., con parole volutamente errate si crea una spaccatura sul tessuto della poesia che ci costringe a guardare attorno all’apertura creatasi che funziona a volte anche come finestra su poesie diverse. Cosě entra in gioco l’intertestualitŕ con gli echi e le citazioni voluti o casuali tanto caratteristici alla poesia di Parti Nagy Lajos.

Nella seconda parte del numero di ottobre 2003 di Jelenkor troviamo un saggio di Michel De Montaigne, poesie di Meliorisz Béla (1950) e di Jász Attila (1966), una novella di Darvasi László (1962) e un saggio sulla raccolta di novelle di quest’ultimo scritto da Bartha Judit (1971). Nella parte conclusiva leggiamo sette recensioni di volumi usciti nel 2002 tra cui troviamo una raccolta di novelle, una favola, due raccolte di saggi, due romanzi e una monografia. Concentriamoci sulle poesie.

Meliorisz Béla raccoglie qui cinque immagini quotidiane in cinque poesie brevi senza maiuscole o punteggiatura. Anche se le parti sono tematicamente diverse, possiamo guardarle come una serie di momenti significativi e nello stesso tempo banali della vita umana. Ci sono riflessione e decisione (Mintha - Come se); malattia, abbondanza della cura familiare e la mancanza di quella divina (Az a dolgom - Č il mio dovere); amore dovuto alla voce dell’annunciatrice della radio (Bármit - Qualsiasi cosa); invecchiarsi (Egyre inkább - Sempre di piů); e la semplice contentezza del lavare i piatti dopo cena e prendere poi una birra (Elégedett vagyok - Sono contento). Il ritmo dei versi č del tutto tranquillo, solo gli enjambement frequenti causano accelerazione provocando una sfumatura di preoccupazione finché l’ultimo verso mette il punto sulla i concludendo o addirittura sospendendo quel che c’č da dire e ci fa sentire l’amarezza della solitudine.

Mintha csak kerekek kattognának – Come se ruote ticchettassero di Jász Attila (1966) cita un famoso detto del poeta Kosztolányi Dezső: «Tutto č ugualmente possibile.» Jász decompone e ricostruisce la frase diverse volte trovandosi in un dialogo al telefono. Stranamente non si sente nessuno, niente viene annunciato: la poesia segue il pensiero della persona che non emette neanche una sola parola durante il «dialogo», mentre l’altro che cerca di comunicare non si sente, viene collocato al di fuori del mondo dell’io poetante. Addirittura non riesce a entrarci e conclude il proprio monologo; questo atto fa finire anche la poesia.

L’ultima poesia del numero, A rejtély megoldása felé Verso la soluzione del mistero ha una forma apparentemente regolare, quasi classicheggiante, che invece viene ridefinita con gli enjambement, con la punteggiatura che nega le solite regole della sintassi, con rime interne e giochi di parole, i quali richiamano l’attenzione alla materia linguistica e non, o non soltanto al contenuto poetico-sentimentale. L’io dichiaratamente ha una forte presenza nella poesia, sta riflettendo sull’irrazionalitŕ del mondo, sulle possibilitŕ infinite del tempo presente e soprattutto sull’io che cerca di identificarsi con sé ma non ci riesce o solo difficilmente e in parte. L’io rimane diviso in superficiale e profondo, la realtŕ apparente e quella interna non si integrano.

Non ci rimane altro che congratularci sia con Jelenkor che con Parti Nagy Lajos per questa iniziativa.

 

Judit Radnóti 


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