« indietro ARAZZI FIAMMINGHI (SULLA TRADUZIONE)
di Jamie McKendrick
In Boys for the Blackstuff, vecchia serie televisiva scritta da Alan Bleasdale in cui si racconta di un gruppo di disoccupati di Liverpool, il pazzo Yosser cammina accanto a un inserviente che sta imbiancando con del gesso le linee di un campo da calcio. Dopo avere riflettuto in modo pensoso annuncia «Ce la faccio anch’io! Dammi un lavoro!» Il punto da cui cominciare per tradurre è spesso questa sicurezza «yosseresca»: le linee sono già marcate – anche se nella debolezza di un’altra lingua – e non può essere così difficile seguirle con le linee della tua e nella tua. La prima infelice lezione della traduzione è che una traduzione letterale è una dead duck (espressione idiomatica inglese che significa «qualcosa che non potrà mai andare a buon fine). Non è solo che gli idiomi e i giochi di parole di solito resistono alla traduzione, che il ritmo e la rima sfuggono ma che l’intero farsi e l’economia della poesia, i suoi tendini più sottili e la sua ossatura interna rischiano di essere persi durante il processo.
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Osip Mandel’štam ha scritto da qualche parte che la scrittura di una poesia è un «lavoro nel buio». Lo stesso vale per la traduzione poetica, eccetto che, in questo caso, il buio è illuminato fiocamente dal barlume dell’originale. Ma perché una poesia tradotta funzioni, è necessario che si ripetano le stesse scoperte fortuite di suono e disposizione dell’immagine. Dunque, un tipo di riscrittura... Non deriva alcuna garanzia dalla forza dell’originale per la poesia nuova – e mentre è irresponsabile scaricare l’originale, scimmiottarlo è solo pigrizia.
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Di solito comincio sforzandomi di essere il più fedele possibile, e poi mi trovo nella situazione di uno che cerca delle scuse per le proprie infedeltà. Ma quando vedo i tradimenti di altri traduttori provo indignazione. Chi ha dato loro il permesso? Le questioni di fedeltà o meno vanno oltre – la solita storia del ‘tradurre = tradire’ che abbiamo sentito fin troppo. Tutti sceglierebbero la fedeltà se fosse la condizione più felice, se funzionasse. È quando ciò non avviene che il traduttore comincia a guardare altrove.
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C’è una forma di empirismo crudo nel processo – Funziona oppure no? C’è qualcosa di superfluo. Se una poesia esiste già perché condurla alla ri-esistenza? Per aiutare quelli che non possono leggere l’originale o per aiutare la tua lingua con l’inclusione di qualcosa d’oltre (- un tipo di filantropia, allora?) O ad aiutarti (nei due sensi dell’inglese: «to help yourself» significa sia aiutarti che rubare una cosa)? Forse l’impulso non riguarda nessuna delle due cose – è più una questione di vedere se la poesia può risuonare anche in altre circostanze – culturali e linguistiche – di quelle in cui è nata; di vedere se può sopravvivere anche a un trasloco così violento. Un esperimento sinistro all’interno della lingua: per scoprire se una qualche tremante essenza può essere sradicata e poi trapiantata: evinta e poi trasferita.
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Aiuta conoscere bene la lingua originale? Almeno salvaguarda il traduttore dalle «gaffe» e dagli errori evitabili. Se non puoi sentire il suono dell’originale (anche se è impossibile riprodurlo nella nuova lingua) come fai a sapere di quanto l’hai mancato o che cosa occorre fare per avvicinargli la tua versione? Anche se paragonata a quella di molti altri traduttori la mia esperienza è poca, ho comunque tradotto poesie sia da lingue che conosco sia da lingue che non conosco bene, da poeti vivi e morti e da lingue vive e morte. Alla fine dei conti, nessuna combinazione ha facilitato particolarmente il processo, benché la possibilità di discutere con il poeta di qualche ambiguità sia sempre la benvenuta – per evitare quello che nel tennis si chiamano ‘errori non forzati’. Nel traduttore la conoscenza della lingua è più importante della conoscenza delle lingue.
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Nel tradurre c’è spesso uno squilibrio che danneggia l’equazione – la triste probabilità che il poeta originale possieda capacità superiore a quella del suo traduttore. Ma questo dislivello del talento non sempre è disastroso: qualcosa di buono può essere salvato dal naufragio di una capacità inferiore. E non sempre aiuta avere un attitudine di umile reverenza verso l’originale. Una cecità provvisoria davanti alle ineguaglianze abbaglianti può anche essere di aiuto.
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A tal proposito, noi tutti sappiamo delle perdite inevitabili – quando, per esempio, la sfumatura o il significato secondario di una parola in una lingua deve essere sacrificato nell’altra lingua. Siamo predisposti a una maggiore sensibilità a queste perdite nella nostra lingua. Ricordo di avere letto una traduzione italiana di An Afterwards di Thomas Hardy:
When the Present has latched its postern behind my tremulous stay, And the May month flaps its glad green leaves like wings Delicate-filmed as new-spun silk...
in cui il primo verso è stato reso così:
Quando il Presente avrà chiuso la porta dietro il mio tremulo soggiorno...
– che più o meno rende il nocciolo dell’idea ma perde in un colpo solo tutta l’intimità e la tenerezza di «latched» e la qualità un po’ provinciale e antiquata di «postern» – tutto questo danno già prima che i monosillabi del secondo verso e gli aggettivi ‘composti’ del terzo fossero persi di vista in modo irrecuperabile. Questo non esclude la possibilità di alcuni guadagni. Anche le poesie eccellenti possono avere dei momenti o dei passaggi deboli (anche Omero sonnecchia) dei quali il traduttore può approfittare, e mi pare legittimo che il traduttore viri la poesia nella direzione delle proprie forze. Se questo sia giusto o meno, non dipenderà dall’assunzione di una qualche posizione teorica e aprioristica ma dall’efficacia del risultato. La maggioranza dei lettori preferirebbe una poesia buona nella nuova lingua piuttosto che una traduzione statica e pedissequa. Detto questo, certi tipi di imprecisioni che derivano da trascuratezza come la ricerca della maestosità a tutti i costi possono risultare veramente scoraggianti.
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Se ho ragione ad affermare che c’è del superfluo nell’atto di traduzione, si può anche portare la cosa sino in fondo. Delle volte, traducendo, mi sono trovato a inserire rime in una poesia non in rima. A prima vista un tale eccesso potrebbe apparire ridicolo, ma forse anche questo fa parte del gioco delle perdite e dei guadagni. Vedendo quanti effetti acustici (come, per esempio, le rime interne) vanno persi, perché, mi sono chiesto, non cerchi almeno di rafforzare un po’ la struttura esterna?
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Tutto il processo comincia dalla fine (cioè dalla poesia già formata). Si comincia, per così dire, dal lato opposto, andando controsenso (forse in tutti sensi). Dopo aver riflettuto che la traduzione è come «guardare degli arazzi fiamminghi dal lato sbagliato, quando, benché si possano scorgere le figure, esse sono coperte da fili che le oscurano e non è possibile apprezzare l’effetto soave del lato corretto», Don Chisciotte cerca di consolare il traduttore che ha incontrato dicendogli che «ci sono delle cose peggiori e meno vantaggiose che un uomo può fare». Beh, si può cominciare ad apprezzare il lato sbagliato delle cose...
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