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STEFANO DAL BIANCO, Ritorno a Planaval, Milano, Mondadori, «Lo Specchio », 2001, pp. 121, Euro 9,30.

È indispensabile che la poesia, ancora oggi, sopravviva come inesausta testimonianza di una tensione regressiva e nostalgica per l’origine? L’origine, ovvero il luogo di compensazione dei difetti delle lingue, il mantra che permette di scongiurare il cortocircuito della comunicazione. I ‘ritorni’ in poesia generalmente annunciano la fragranza dell’idillio; idilliche sono anche quelle situazioni performative, prodotte dall’action poetry, in cui si cerca di fondare una comunità del sentire sulla base di una comunicazione trasparente che deve ovviamente prescindere dalla cattiva infinità del segno linguistico, che rimanda costitutivamente ad altro senza mai essere presente a se stesso una volta per tutte. Come se l’auspicata coincidenza tra significante e significato, l’auspicato principio d’identità si potesse raggiungere al di fuori del collasso semantico che risucchia ogni situazione idillica-originaria nel livellamento promesso da quell’Ego in Arcadia già rivelatosi a Poussin.
Sono considerazioni che s’impongono alla lettura del libro di Stefano Dal Bianco – poeta quarantenne d’area veneta, già curatore, con Gian Mario Villalta, del recente Meridiano zanzottiano; un libro diseguale, pur nella sua calcolata traiettoria, in cui la tensione conoscitiva di base si stempera nell’emergenza della pura espressività di un io lirico dai connotati tradizionali. Esaminiamo dunque il percorso di questa libera alternanza di brani prosastici e di agglomerati strofici, resi coerenti da un’intonazione diaristica che non deroga mai dalla ricercata immediatezza, fino al primitivismo espressivo. La fabula del testo ci racconta di un itinerario poetico che lungo sette stazioni, inquadrate da due liriche programmatiche liminari, cerca di rendersi conto delle ragioni di un radicamento urbano messo in rapporto dialettico con la tentazione di un altrove che può assumere i connotati del posto di vacanza o quelli del paese natale. La lirica incipitaria, in funzione prolettica, offre la cadenza cifrata del settemplice ordito testuale. Insisterei sulla chiave allegorica scelta da Dal Bianco: perché la moderna allegoria, ci ha insegnato Benjamin, è un processo di iniezione semantica ad un mondo dell’artificiale e dell’inorganico che ha espropriato il soggetto dalle antiche contiguità esistenziali. Salvare i fenomeni, e di conseguenza porre un argine all’alienazione, significa riconoscere nella distesa di cemento il modo d’essere necessario di un maquillage metropolitano che tuttavia pulsa di una vita che gli è propria, e che filtra nel respiro lento di uno sguardo cerebrale. Si potrebbe parlare di epifanie. «Il pesco che vedo fiorito tra i cumuli della città di Milano non è l’idea della vita che vince il cemento ma solo un’aria di cemento, una vita di cemento nel pesco, la mia vita». Piante con una vita di cemento, e che rappresentano l’organo estroflesso dell’intimità («il cuore della nostra casa posto fuori»). Oppure semplici cose che si ‘storicizzano’ – come una boccetta di profumo in pezzi: «raccolgo la sua storia di cosa legata alla mia» – denunciando nell’interazione intramondana l’ulteriorità della propria presenza muta, un’ulteriorità potenzialmente allegorica sollecitata da un esserci ambientale. Perché quella di Dal Bianco è, almeno nella prima parte, una poesia d’ambiente, che si anima nel vicendevole scrutarsi tra il soggetto e gli spazi che abita – «come si sta seduti / dopo il tramonto in primavera sul divano a fiori, / attenti all’ascoltare assorto della stanza». Senza i traumi, le angosce, le dissonanze di una Dickinson – si ricordi: «One need not be a Chamber – to be Haunted»; quello che conta in Dal Bianco è una riduzione mentalistica dell’esperienza che si modula, nei momenti migliori, su un essor conoscitivo molto più che psicologico-sentimentale. Quindi la tendenza all’astrazione concettuale, quindi l’allegoria, quindi la scelta di capovolgere l’ordine di successione logico fra sensazione e pensiero, per non incorrere nel «castigo, quando il non pensare si è tradotto in non sentire». Per sentire occorre pensare, si recepisce cioè la sensazione solo perché già passata al vaglio concettuale, con un platonismo – o kantismo – di ritorno che procede in senso opposto alla metafisica sensuous apprehension of thought. Allora occorrerà precisare quanto afferma Mengaldo nella nota di presentazione al volume: «Stefano Dal Bianco è un uomo che si guarda vivere ad ogni istante ostinatamente, dolorosamente». Non è uno scrutarsi: è uno scrutare le cose che da impressioni divengono pensieri – come quel volo di rondine che, con bella ipallage, persiste, in assenza dell’impressione, trasformandosi nel «pensiero della nostra rondine che vola nella testa». Non c’è introspezione e psicologia, ma semmai uno sguardo fenomenologico – «con negli occhi il puntare del pensiero» – che nell’impressione visiva scava l’eídos, rendendolo disponibile per l’attribuzione di senso potenzialmente allegorica. Questo non significa che la poesia di Dal Bianco punti, almeno in questa prima parte, a fermare la deriva semantica in un universo connotato ideologicamente: quello che conta, par di capire, è l’indagine sulle condizioni dell’attribuzione di significato. E tuttavia da tale prospettiva gnoseologica, con scarto sensibile, si arretra nelle ultime tre sezioni della raccolta, che, «senza pensare», approdano ad un impressionismo nostalgico e non più cerebrale. È il ritorno agli affetti di un tempo, è il ritorno al luogo dell’origine, ed ecco che il discorso si fa esplicitamente diaristico, intimistico – «il mio diario»; è un Retour Amont – Ritorno Sopramonte nella traduzione di Sereni – senza l’astrazione e la tensione metafisica ed oggettiva che anima l’itinerario di Char lungo il versante alpino opposto. «Non ho parlato né pensato / ... / Ho sentito di voler combattere il sentire»: è stata cioè abbandonata la prospettiva di appropriazione riflessiva dell’esperienza, perché il ritorno a Planaval è il ritorno all’armonia dell’origine, all’unisono con l’ambiente, dove linguaggio, pensiero e sensazioni non pongono l’oggetto come altro da sé, come termine di un’inappropriabile conquista. È quindi la fine della divaricazione allegorica, è l’idillio, approfondito da venature elegiache, e ribadito dall’evocata ottica performativa che chiude la raccolta per supplire, sotto l’auspicio dell’epigrafe petrarchesca di R.V.F XLIX 1-8, al difetto della lingua, alla defaillance della comunicazione che si affida alla funzione segnica della parola: è così che la poesia cerca di farsi presenza nella voce, nel gesto, nella deissi psicosomatica per vincere la dolorosa deiezione semantica della parola, la sua natura infelice di segno. «Ho posato una ciotola di sassi / tra me e voi, sul pavimento. / L’ho fatto perché vorrei parlarne / ma non mi fido delle mie parole ». Il gesto ostensivo, che vuol rinsaldare la comprensione, in realtà sembra ‘estorcere’ l’accordo sui significati facendosi non soltanto vicario della parola, ma addirittura vettore del silenzio: «Adesso io starei qualche secondo in silenzio, pensando ai sassi». Con queste parole termina il libro, lasciando aperto l’interrogativo sul senso di una ricerca poetica che in corso d’opera ha preso una svolta inopinata. In fondo, quel Wallace Stevens che Dal Bianco cita in nota, è stato anche il poeta che ha fatto di un gesto – «I placed a jar in Tennessee, / and round it was, upon a hill» – l’atto di fondazione di una comunità della vita e della parola, perché ha trasformato lo spazio in un luogo, in un ambiente, quindi in un centro di deriva semantica, di deiezione potenzialmente urbana, di equivocità ermeneutica. La parte vitale della poesia di Dal Bianco pare essere quella che, nei primi due terzi del libro, si misura, forte del suo basso parlato e della sua chiaroveggenza cerebrale, con l’orizzonte di un esserci che progetta nell’hic et nunc le sue sempre nuove e provvisorie origini.
Marco Manotta

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