« indietro EDOARDO ZUCCATO, La vita in tram, Milano, Marcos y Marcos, 2001, p. 127, Euro 9,30.
Nel segno del crescente distacco generazionale da un rapporto diretto con la matrice antropologica del parlato, le possibilità esperite dai più giovani scriventi in dialetto oggi vanno dalla declinazione dei vari gradi di contaminazione con le esperienze della lingua letteraria maggiore (liriche certo, ma anche ‘aperte’, ‘sperimentali’), alla scelta di mantenere nonostante tutto il massimo di vicinanza con tale matrice ‘basica’. Sull’effetto di straniamento (esteso ai contenuti) che ne consegue fa leva Giovanni Nadiani, mentre una forte coscienza metalinguistica del mezzo impiegato è al centro della poesia veneta di Gian Mario Villalta. Edoardo Zuccato di questi è forse il più incline a immergere la lingua della poesia nel bagno delle frasi fatte dell’uso quotidiano. Zuccato, che scrive un dialetto ‘altomilanese’ (varesotto/brianzolo), è un cultore del ‘ritmo della lingua viva’. A riprova, ecco un catalogo di espressioni ‘tipiche’ con relativa traduzione italiana (a bella posta, si direbbe, impoverita rispetto a una più che possibile traduzione ‘uno a uno’): «spüà spüìsc» (‘proprio uguali’, ma, ‘meglio’ sarebbe ‘precisi sputati’), «nöj nuént» (‘nuove di zecca’, ma ‘meglio’ ‘nuove nuove’), «a ’mpienì ’l piatt» (‘a mangiare’ ma ‘riempire il piatto’), «in fen daa fea» (‘alla fin fine’, ma ‘alla fine della fiera’); un raro es. del contrario: «campanjei di buteghi», potenziato in traduzione dall’onomatopea ‘din don dei negozi’. La sostanza ritmico/sintattica si impasta di una materia fonetica estesa a blasone di fisicità territoriale. Esemplare la litania toponomastica: «Bulâ Cariâ Bèrgual Fagnàn / Castalàsc Sulbiâ Sulbièll Ulgiâ / Castegnâ Castelànza Sinàgh.../ Non spaventarti non sto bestemmiando, / sono questi i nostri paesi». Ma risonanze geoglottologiche traspaiono meglio da un altro testo programmatico in cui all’acqua della pianura si accompagna il parlare ‘pieno di spigoli’ dei montanari, «le U che sanno di boschi e di brughiere, / di sirene di fabbriche di fonditori, / le È gentili e un po’ sbruffone / e nella Bassa le A in bocca a gente / che sembra allunghi le parole con l’acqua». Il riferimento metaletterario è sicuramente a Seamus Heaney (oltretutto Zuccato ‘di mestiere’ è anglista), ad alcuni testi di Wintering out (1972), doppiati dalla dichiarazione di ‘poetica’ per cui emergerebbe dal fondo dell’inglese (lingua letteraria nel segno allitterante delle consonanti) una musicalità tutta irlandese affidata alle vocali e intimamente legata ai temi personali. La coscienza regionalistica è insieme cronotopica, descrizione dello spazio-tempo nella durata. Il paesaggio scopre scorci preistorici e medievali come in Al ponte di Oleggio, racconto ‘epico’ della canalizzazione del Ticino quando appunto «la natüra l’è diventâ storia», esibente in esergo «i calibani gutturaloidi della Nea-Keltiké » del Carlo Emilio Gadda della Cognizione (e si ricordi: «in quella regione del Maradagàl, così simile, per molti aspetti, alla.... Brianza») e pensiamo ancora alla guttural Muse di Heaney. Un tale sentimento della lingua ‘forza’ l’assunzione per buona parte letteraria del personaggio dispensatore di invettive, lunghe tirades di didassi brechtiana («Dove arrivavano, i romani costruivano / strade ponti teatri e tombe: e fogne, / mostrando a tutti come nascondere / ciò che dà fastidio. Imperi e fogne»), ma soprattutto di pura tradizione milanese dal Porta al Tessa («Car’ul mè Carl’, ul mè Deglio») a Franco Loi (da cui viene probabilmente anche un’occasionale vena di ‘buonismo’: «incö in dul rüdu ch’è nassüü ’na rösa», ‘oggi nel letame è nata una rosa’). Invettive impure, dal basso della razza di quelli che prendono ancora il tram, e che danno corpo a buona parte dei magoni dei lombardi (un tremendo sospetto, il Giovannin Bongee se la sarebbe messa la camicia verde?). Dalla tradizione milanese scende ancora la vena didattico/illuminista circolante in una serie di vere e proprie epistole in versi (esemplare la ‘lettera’ a F. – Franco Buffoni? – sulla critica, A vöri cüntàtt sü quatar panzànighi). Su un altro piano, circola nel libro una vena descrittiva ‘modernista’ debitrice principalmente di modelli inglesi. Spiamo così nella quotidianità speciale delle ore libere del boia («Anch ul boi al g’ha i so urett da respir», ‘Anche il boia ha le sue orette di pausa: è vero, si lamenta con la moglie / che il nodo non scorreva bene / e che hanno tolto per mezz’ora la corrente’, e appende quadri, «natür mort specialment »), e sorprendiamo in un angolo della pianura, come in un quadro di Brueghel (scopertamente, W.H. Auden, Musée de Beaux Arts), un delinquente che sbudella un poveraccio. Immagini di alta definizione («e i bar inlüminâ / ’me ’n frigor vöj», ‘bar illuminati / come frigo vuoti’), ‘animazioni’ quasi ‘mansfieldiane’ (la vita del prato dopo la partenza del circo), e una vena di poesia d’amore non sempre al riparo dalla regressione vernacolare ma di tono più distesamente colloquiale. Il doppio lavoro sull’oggi e sulle radici, è nella poesia di Zuccato insomma lavoro di pazienza, «’me laurà ’l vedar l’or a pulenta » (‘come lavorare il vetro l’oro la polenta’).
Fabio Zinelli
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