« indietro ALESSANDRO GROSSATO (a cura di), Umana, divina Malinconia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», III (2010), pp. 374, € 25.
Malattia del corpo, della psiche e dell’anima, la malinconia per secoli di storia occidentale e orientale ha permesso a discorsi scientifici, medici, morali, letterari, iconografici di incrociarsi e sovrapporsi: una lunga tradizione – da tempo impostasi, per impulso della scuola warburghiana, come unitario e privilegiato oggetto di ricerca interdisciplinare – che ha visto la teoria ippocratica e galenica degli umori riprendere vigore prima con la scolastica aristotelica e poi con l’umanesimo, fino a cristallizzarsi nella celebre incisione düreriana e nella summa barocca secentesca di Robert Burton. I saggi che compongono questo volume confermano una medesima esigenza di apertura disciplinare e dimostrano in almeno tre modi quanto la questione storica di un modello binario di descrizione della malinconia, uno medico e l’altro psicologico, sia lontana dall’essersi esaurita. In primo luogo, molti degli autori hanno avuto il merito di estendere lo spettro di questa storia, contribuendo con le proprie specifiche competenze ad allungare il catalogo dei testi e dei personaggi saturnini (Gilgameš, Saul, Tristano). La cifra principale di alcuni di questi contributi risiede in una certa scelta di marginalità rispetto ai loci della più consolidata tradizione interpretativa, cui pure il riferimento è costante: un’estensione ai margini del ‘canone malinconico’ che può essere tanto storica quanto geografica, risalendo alle frammentarie testimonianze scritte dell’antica Mesopotamia (E. Couto-Ferreira) e alle sacre scritture (D. Hartman), oppure ai runi dell’epopea finnica e alla letteratura medica bizantina (G. Lacerenza), fino a riscoprire un secolo, quello dei lumi, trascurato dalla periodizzazione corrente, ma al contrario caratterizzato nelle arti e in letteratura da un particolarissimo tipo di sentimento dell’esistenza, la douce mélancolie (I. Piperno). Un’estensione ai margini che può infine essere anche più letterale, come nel caso dell’indagine condotta da Milena Romero Allué sugli aspetti volutamente paradossali della malinconia burtoniana, svelati a partire da un elemento solo in apparenza decorativo dell’Anatomy of Melancholy, il frontespizio inciso da Christian Le Blon; ma anche e prima ancora nel caso di una ricontestualizzazione della teoria degli umori nell’ambito delle cosmologie liquide antiche (E. Albrile). Un secondo nucleo di saggi insiste invece sulla tematizzazione, esplicitamente distante da una sua comprensione fisico-medica, della malinconia, nelle parole del curatore, quale «occasione di una dolorosa e profonda trasformazione spirituale»: rito di passaggio, da collegarsi ad antiche tradizioni sciamaniche, nei versi finnici del Kalevala (C. Corrado Musi), già a partire primi secoli del cristianesimo, nella sua contiguità con la categoria morale dell’accidia, l’esperienza della malinconia diventa un elemento centrale nell’opera di disciplinamento della vita monastica esercitata dalla letteratura patristica (C. Corsato). Una strategia che incontrerà nuova fortuna nel Trecento con la scuola mistica renana, quando essa, nell’approccio esperienziale di Suso e in quello dottrinale di Taulero (attraverso la nozione di getrenge, oppressione), diventa una tappa obbligata sulla via della conversione, in cui al peccatore è data la possibilità di «cavalcare la sofferenza sul modello cristologico della passione» (S. Salzani). Non diversamente nel secolo successivo il re portoghese Dom Duarte redigerà una sorta di autobiografia a fini didattici, in cui la tristezza, oltre a colorarsi di una caratterizzazione nostalgica che annuncia già la fortuna nazionale del concetto di saudade, si offre come exemplum, prova morale ed esorcizzazione che prelude, all’interno di un percorso di salvezza, alla rinascita del cristiano (R. Mulinacci). L’uso della rappresentazione della malinconia nella promozione di codici comportamentali trova poi un ulteriore ambito di applicazione in letteratura, dove la tristezza come malattia d’amore diventa misura di costruzione del sé dell’innamorato, sia in essa l’amore ideale teorizzato come fusione assoluta e reciproca (è il caso del Tristano di Gottfried di Strasburgo, romanzo duecentesco analizzato da D. Buschinger), sia esso invece rappresentato come squilibrio e separazione (è il caso invece delle situazioni malinconiche, dominate dalla figura del ‘fantasma’ dell’amato, presenti nella lirica persiana di Hafez indagata da C. Saccone). Questo ricco filone ‘disciplinare’ rivela come la nozione di malinconia sia stata a lungo uno strumento politico e normativo, non soltanto la descrizione di una patologia cui abbinare un determinato trattamento medico, ma un’esperienza spirituale con decisive conseguenze secolari, un insieme di discorsi insomma che legittima e promuove una serie di cure morali che si esplicano nella dimensione contingente e materiale delle pratiche. Un aspetto che è ottimamente messo in luce, infine, dall’impegno di due saggi nell’offrire una lettura diacronica di altrettanti capitoli a sé stanti della storia della malinconia: il rapporto con la licantropia (C. Donà) e l’associazione stereotipica alla cultura ebraica (E. Nissan e A. Ophir Shemesh). Qui la distanza fra diverse eziologie, quella biologica, legata all’impostazione razionalistica della medicina greco-araba, e quella teologica cristiana, tesa a vedere nella malinconia una sorta di possessione, attirando l’attenzione sulle categorie sociali, etniche e professionali (soprattutto maschili) che sono state associate nel tempo al temperamento saturnino, rende manifesto, con tutte le sue ricadute, il legame fra discorso sulla malinconia e potere. Chi scrive si augura che questo ricco e variegato volume possa servire in futuro a un tentativo più ampio e sistematico di storicizzazione di questo legame che ne consideri l’impatto sulla vita degli uomini e delle donne e sul loro modo di costruire la propria identità biografica in relazione a un’esperienza tanto frequente quanto diversamente valorizzata nei secoli.
(Toni Veneri)
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