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PATRIZIA VALDUGA, Libro delle laudi, Torino, Einaudi, 2012, pp. 64, € 8,50.

 

Il Libro delle laudi di Patrizia Valduga è, come vuole la tradizione della forma-lauda, enchevetrée, semmai, con la soluzione-loda, un libro di amore e di dedizione. Ed è un libro, come vuole la stessa tradizione, tanto più se vi si incapestra la declinazione dantesca, che si colloca al di qua e al di là della morte: oltre e ben dentro l’evento della morte e il convivere, o compatirla. Perché, se è vero che, fatalmente, non vivremo mai la nostra stessa morte, essa non finisce però di accadere nel nostro poterla sentire nell’altro e attraverso l’altro. Nel caso di Valduga il prima e il dopo, l’oltre e l’al di qua sono anche esplicitamente segnalati nella cronologia interna del testo. Il libro, infatti, reca al termine della prima delle tre parti la datazione luglio-agosto 2004, cioè il bimestre estivo che precedette la morte di Giovanni Raboni. Giovanni è infatti l’oggetto della lode, con ripresa e al tempo stesso rovesciamento di quella tradizione e di quel modello. Di questo dopo. Intanto osserviamo che le altre due sezioni raccolgono componimenti non datati, ma che vanno assegnati a una fase successiva al silenzio del settembre 2004, quando il dialogo con l’amato-laudato diventa tanto più assoluto e totalizzante. E di questa ulteriore assolutizzazione è segnale esplicito il fatto che il ‘dialogo’ si chiarisce progressivamente come una peculiare forma di ‘monologo dell’altro’ che l’io decide di assumere nella propria voce. Se infatti l’io che qui si dichiara esposto è «ladra di versi», ciò è innanzitutto perché si tratta di versi dell’amato-laudato, di parole sue, di suo respiro metrico riassorbito dentro le sintetiche coppie di endecasillabi che rimartellano la lode. L’ispirazione diventa così vera e propria inspirazione: come quando in un bacio ci si passa il fiato. Sarà insomma evidente che ci troviamo dalle parti della scrittura mistica, quella che teorizza la ‘morte per bacio’ prima ancora che l’ineffabilità dell’Amato, che infatti qui viene detto attraverso singole parole e interi versi debitamente denunciati nella Nota d’autore alla fine del libretto. L’occasione o il riferimento sintetico che viene abitualmente chiarito o denunciato in quella sede liminare si chiarisce, pertanto, come innesco del proprio stesso dire. Il proprio aver avuto accesso alla poesia, al dire, passa attraverso un «dittatore» che diventa così al tempo stesso scaturugine del fatto poetico e suo oggetto. Questa relazione diventa ancora più evidente quando si ricorda che, dopo la Lezione d’amore (2004), Patrizia Valduga ha pubblicato i suoi ultimi versi, precedenti a queste ‘laudi’ nel 2006, come «Postfazione» all’edizione postuma degli Ultimi versi di Giovanni Raboni. La derivazione dall’amato appare lì conclamata, giacché la ‘propria’ voce è esplicitamente subordinata alla voce dell’Altro; esiste solo perché seconda, ulteriore. Ed estrema: la bandella editoriale chiariva infatti che «Nella postfazione [si leggono] i testi che Patrizia Valduga ha composto durante la malattia di Giovanni Raboni nell’estate 2004». Che sono poi i componimenti che leggiamo come sezione I del Libro delle laudi. Sebbene le altre due sezioni raccolgano testi di altro tema, l’ispirazione di cui s’è detto resta la stessa; stessa è la derivazione. Sia quando si parla della propria «paura» o «angoscia» infantile, o della paura che ancora si fa sentire nella notte in cui si è rimasti. Sia quando il discorso si fa estroverso, polemico e corrosivo: quando insomma si volge alle cose dell’oggi, alle odierne storture e piccolezze: Del resto, per questo secondo aspetto, gli Ultimi versi raboniani hanno talvolta il carattere dell’invettiva (si pensi ai Trionfi lì contenuti). Dunque, ancora Giovanni; ancora la presenza ‘dittatoriale’ epperò pietosa («il marchingegno della tua pietà» è verso di Raboni che riappare in bocca a Valduga), benevola, di colui da cui si proviene. Si badi bene, però. Nonostante la fitta presenza di riferimenti al poeta-ispiratore, questo libro non credo possa essere inserito in una effettiva linea derivativa, men che meno epigonale. In Raboni lo sdegno civile o il discorso religioso sono motivi interiori lungamente sedimentati, che restano dentro una dinamica interiore, meditativa, la stessa dinamica che si trova sin dai primi suoi libri: i fatti esterni riverberano tra mente e cuore del poeta. In Valduga ciò che è in gioco è invece l’estroflessione, la rappresentazione nel mondo esterno dei movimenti interni. È il carattere ‘jacoponico’ di questo libro: come nel convertito medioevale la teologia del chiodo spinge a una rivisitazione dell’Evento che diventa pulsione quasi teatrale alla sua messa in scena (non rivivere nella mente, ma gridare per le piazze la morte del Cristo); così qui il progressivo venir meno dell’Amato, oppure l’attesa che la notte finisca e ci si ritrovi insieme («Guarda! Il cielo è sereno... È tutta luce / la neve sulle cime dello Schiara»: sono gli ultimi due endecasillabi del Libro), sono fatti interiori, addirittura intimi che vengono però spinti nel mondo laffuòri, e così resi plastici: teatrali, si direbbe. Ma una tale plasticità o teatralità è ricondotta dentro la storia della poesia, dentro la Tradizione della lirica italiana. Ed è qui che Jacopone s’incontra con Dante, le ‘laudi’ con la Vita nuova, che difatti ha al proprio centro la poetica della «loda». Pur triangolando tra «padre», «Signore» e Giovanni, il Libro di Valduga resta saldamente stretto sull’ultimo dei termini maschili (che infatti può a sua volta diventare un «padre»). È nel nome di Giovanni che è avvenuta la conversione: è in forza del suo amore che si può riconoscere il «Signore dell’amore» (incidentalmente si noterà la presenza di amore e cuore in rima: banalità resa incendiaria dalla ripetizione quasi ossessiva). Da qui, poi, Patrizia Valduga propone un percorso di salute, una conquista forse fantasmatica, che fa l’incanto di questo libro, ‘del’ libro: e che ne fa anche un’opera della confessione più che della conversione. Se è vero che nell’atto del confiteor l’antico martire testimoniava, etimologicamente, la propria avvenuta trasformazione in altro. A questo punto, inevitabilmente, attendiamo con curiosità il prossimo libro di Valduga.

                                                                      Giancarlo Alfano (Semicerchio, 46/1 2012)


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