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ANNE CARSON, Nox, New Directions, New York, 2010, pp. 192, $ 29.95.

 

Nox non è un libro. È una scatola: box. Pesante e grigia: come pietra. Inquietante. Come lapide. Una scatola-tomba. Un volume compatto, un blocco pieno – ma prova ad aprirlo. Che cosa c’è dentro Nox? Una perdita: un fratello sparito nel nulla, vagabondo per anni e riemerso all’improvviso, col desiderio di rivedere la sorella (Anne Carson, la poetessa che reinventa i generi, la traduttrice di Saffo e dei tragici greci). Ma appena prima che lei possa salire sull’aereo, raggiungere Copenaghen, incontrarlo – lui muore. «Who were you?» La sorella sa solo che è morto. Come può domandargli, ora che è troppo tardi nella notte: ora che è multa nox? L’unica cosa che può fare è cercare sue tracce – ombre nelle foto, pezzi di lettera – da incollare in un diario-bricolage, dalle pagine così materiche che reclamano di essere riprodotte nella loro fisicità emozionale. Solo a questa condizione il diario di Anne Carson diventa pubblicabile: presentandosi come «fiction of privacy», come un capolavoro di scanner e xerox. Si tratta però di un diario che non si lascia sfogliare. Perché non lo compongono pagine, ma un unico lunghissimo foglio, ripiegato e infilato nella scatola. Nox non è un libro: e dunque non lo si sfoglia ma lo si elabora. Come un pieno elabora un vuoto. Come si elabora un lutto. Un lutto elaborabile e inesauribile: è una traduzione mancata. Tentata e ritentata, tuttavia mai definitiva. Una traduzione che non finisce mai – per Anne Carson, quella del carme 101 di Catullo: «Catullus wrote poem 101 for his brother who died in Troad. Nothing at all is known of the brother except his death. [...] I loved this poem since the first time I read it in a high school Latin class and I have tried to translate it a number of times. [...] I never arrived at the translation I would have liked to do of poem 101. But over the years of working at it, I came to think of translating as a room, not exactly an unknown room, where one gropes for the light switch. I guess it never ends. A brother never ends. I prowl him. He does not end». Un fratello non finisce mai. Il carme 101 non finisce mai: Nox elabora all’infinito il lutto della perdita. E invece di tradurre il carme lo rigonfia, aprendo per ogni parola latina tutto il ventaglio delle equivalenze inglesi, complete di etimologie ed espressioni idiomatiche. A fronte delle singole parole espanse si collocano poi i frammenti dell’altra elegia – quella di Anne Carson. Che traducendo oltre le lingue mostra quanto siano risonanti quei due altri inconoscibili – il testo e il fratello – e che ricercandoli insieme tentenna nel buio. Nel buio di una stanza, nel fondo di una scatola – in cerca di luce: «I wanted to fill my elegy with light of all kinds. But death makes us stingy. There is nothing more to be expended on that, we think, he’s dead. Love cannot alter it. Words cannot add to it. No matter how I try to evoke the starry lad he was, it remains a plan, odd history. So I began to think about history». Una storia, la propria; e la Storia. Che cos’hanno in comune? Un oggetto perduto: il passato. E le sue tracce, da interrogare se lo si vuole ricostruire. Anne Carson lo vorrebbe. Così comincia a pensare alla Storia. Al suo fondatore: Erodoto. E al suo metodo più attendibile: l’autopsia. Dello storico antico, Anne Carson non può però condividere l’autorevolezza. Perché non ha visto la morte del fratello. Qualcuno gliela racconta, buca il silenzio. Ma lei può solo riferire autopsie altrui: «When my brother died his dog got angry. [...] My brother’s widow, it is said, took the dog to the church on the day of the funeral. Buster goes right up to the front of Sankt Johannes and raises himself on his paws on the edge of the coffin and as soon as he smells the fact, his anger stops. “To be nothing – is that not, after all, the most satisfactory fact in the whole world?” asks a dog in a novel I read once (Virginia Woolf Flush 87). I wonder what the smell of nothing is. Smell of autopsy». La sorella non ha visto. Ma chi le riferisce il racconto le consegna anche qualcosa da vedere: delle foto, scattate dal fratello durante i suoi anni di vagabondaggio. Foto che testimoniano di una sparizione e insieme le resistono. Inadeguati lembi di presenza. E che tuttavia la dicono quella presenza, la emanano. Testimonianze oculari meccaniche: sono tutto ciò che resta. È per questo che la sorella vi si affida, torturandole con forbici, colla, domande. Torturandole nel diario diventato scatola – in questa stanza da cui non si può uscire. Torturandole fino a quando il domandare non sembra esaurito. Ma non finisce mai.

(Maria Anna Mariani)


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