« indietro MARINA GUGLIELMI, MAURO PALA, Frontiere Confini Limiti, Roma, Armando, 2011, pp. 256, € 20.
«Frontiere», «confini», «limiti» sono concetti attigui dal punto di vista semantico: la nozione di «frontiera» generalmente indica il «limite della sovranità territoriale di uno stato»; la sua accezione figurata, però, è analoga alla definizione di «limite», inteso come «linea terminale o divisoria». A livello etimologico, la parola «limite» costituisce la base dalla quale deriva il termine «confine», composto dal prefisso latino cum e finis. Tuttavia, dietro a questa evidente contiguità si celano diverse prospettive di studio e analisi; si pensi, ad esempio, al valore che il concetto di «confine» assume in matematica, - «punti di un insieme che non sono né interni né esterni a esso» - o in geometria - «luogo dei punti di una figura che non sono né interni né esterni a essa». L’esteriore sinonimia che accomuna questi termini lascia quindi spazio ad un’ipotesi interpretativa ben più ampia, massimamente sincretica, al passo con la modernità «liquida» nella quale viviamo. Non stupisce, dunque, l’interessante scelta di Marina Guglielmi e Mauro Pala: a livello estrinseco-formale, la dimensione del dialogo pare inerire all’intero piano del volume Frontiere Confini Limiti, ed è evidente nell’adozione di uno sguardo caratterizzato da «bidirezionalità e reciprocità» (così i curatori nella Prefazione, p. 10). Frontiere Confini Limiti è una raccolta di saggi che presenta i risultati più significativi dei lavori svoltisi a Cagliari tra il 15 e il 17 ottobre 2009 in occasione del convegno annuale dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura «Compalit». L’opera, collegata alla pubblicazione del primo numero della rivista Between (1, 2011), si configura come un agevole percorso in sedici tappe, il cui scopo è quello di indagare sulla «ripresa importante dell’elemento spaziale e liminale come possibilità espressiva e dunque interpretativa del fatto letterario» (p. 8). Massimo Arcangeli apre la discussione con un’efficace riflessione sul concetto di «elemento separatore», mettendolo in comunicazione con i lemmi «luoghi», «cose», «persone». Da un simile confronto emerge un quadro preoccupante sull’attuale situazione storica, politica e sociale: la globalizzazione ha portato all’esplosione dei confini, al «tramonto di ogni opposizione, di ogni bipolarismo, di ogni geografia di luoghi distinti». Il saggio che l’animatore della teoria geocritica, Bertrand Westphal, dedica alla nozione di «orizzonte», inteso come «l’indicatore più fedele del passaggio dal luogo finito allo spazio indefinito» (p. 37), trasporta il lettore dalla contemporaneità all’epoca medievale. Difatti, il critico concentra la sua attenzione sulla geografia e sull’architettura dell’oltretomba dantesco, commentando l’uso originale che Dante fa del concetto nel Purgatorio. Con la sua consueta puntualità e incisività Giulio Iacoli «risponde» a Westphal sulle implicazioni spaziali del termine, introducendo il concetto di «ethos geocritico», un indice utile per la comparazione tra creazione letteraria e geografia. Fittissimi sono gli spunti che si possono ricavare dal saggio di Michele Cometa sulla «biopoetica», che ci congeda con l’affascinante interrogativo «[l]a teoria letteraria sarà in grado di accettare la sfida dell’evoluzionismo?» (p. 83). Questo stimolo viene colto da Mauro Pala nel suo attento excursus teorico sull’argomento, che giunge ad una conclusione in linea con i precedenti interventi: «[l]a scelta della biopoetica non deve [...] essere finalizzata al superamento di quella frattura a suo tempo denunciata da Charles Percy Snow fra la cultura umanistica e quella scientifica[; piuttosto deve essere finalizzata] a una compenetrazione fra le due sfere, che non rinunci però alla dimensione storica iscritta in discipline di tipo semiologico o antropologico» (p. 95). Il nesso tra letteratura e natura diventa reagente fondamentale per l’analisi proposta da Elisabeth Rallo-Ditche su Tess d’Urberville di Thomas Hardy. Alla poesia sono poi dedicati i successivi due saggi di Sandro Maxia e Maria Carla Papini, che si soffermano sulla filosofia del limen. L’ossimoro del mare fisso e diverso messo in rilievo da Maxia in Mediterraneo di Eugenio Montale viene ripreso da Papini, che commenta la sua funzione di minimo comune denominatore tra le poetiche di Michelstaedter, Campana e Ungaretti. Attraverso una serie di riferimenti calibrati e opportuni all’immagine del confine nella teoria postcoloniale, Silvia Albertazzi sposta l’attenzione verso le letterature di lingua inglese, proponendo una fine analisi del romanzo Shadow Lines (1988) di Amitav Ghosh. Dell’argomentazione di Albertazzi Marina Guglielmi coglie un aspetto particolare, al quale dedica il suo intervento: la funzione e l’uso della mappa nella definizione della soggettività. Anne Tomiche esce invece dal territorio anglofono per studiare le relazioni tra la letteratura europea e gli spazi geografico-culturali, interrogandosi sui possibili limiti della letteratura comparata. In questo contesto, riprendendo alcune domande sottese nel discorso di Tomiche, Radhouan Ben Amara pone l’accento sul ruolo del comparatista e degli studi comparati oggi. La storia del confine orientale italiano diventa invece oggetto della precisa trattazione di Ivan Verč. L’analisi, che muove da un’eruditissima ricostruzione storica e linguistica, mostra con invidiabile chiarezza come il confine tra italiani e slavi sia stato per lungo tempo percepito in modo conflittuale. Tuttavia, il superamento di una simile situazione è possibile attribuendo al concetto di «confine» una valenza positiva. Sulla scorta del pensiero lotmaniano, Verč sottolinea che non si tratta, però, di accettazione, «né spontanea, né coercitiva di un Testo di cultura altrui (oggi diremmo ‘integrazione’), non rinuncia a se stessi, ma creazione di un’informazione ‘additiva’ che nasce dalla consapevolezza dell’inevitabile transitorietà dei due (o più) Testi di cultura di riferimento, percepiti come immutabili» (p. 207). Del confine triestino si occupa anche Matteo Colombi che, confortato dagli studi dello psicoanalista sloveno Paolo Fonda, ne studia la semiosi. La riflessione conclusiva sulla translucidità come zona liminale, discussa da Silvano Tagliagambe e poi ripresa da Mario Dominichelli, sembra voler chiudere il cerchio, ricongiungendosi con il detto del filosofo prussiano Johann Georg Hamann posta in apertura del volume «[l]a chiarezza è una suddivisione appropriata di luce e ombre» (p. 7). Nel complesso, i saggi tracciano un percorso affascinante all’interno di un tema ricchissimo, che ha suscitato (e tuttora suscita) l’interesse di diversi settori disciplinari. In tale quadro, Frontiere Confini Limiti si offre senz’altro come importante dispositivo di apertura, una finestra rivolta alle posizioni italiane in merito, ma che al contempo guarda al dibattito internazionale.
(Irina Marchesini)
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