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GIAMPIERO NERI, Erbario con Figure, Lietocolle libri, Milano, 2000, pp. 22 (www.lietocolle.it).

 
Ad apertura dei Canti orfici di Campana il primo testo che ci viene incontro è la prosa intitolata Notte: «Ricordo una vecchia città [si tratta di Faenza], rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo», rimossa l’aggettivazione di sapore marcatamente carducciano il risultato sarà: «Si scendeva fra alte mura / vicino al parco di una villa / fino a raggiungere un bivio, / di lì si vedeva la pianura / e la cornice delle colline / verso il fondo», cioè la prima poesia di Sequenza, sezione cardine di questa plaquette che, per un maestro delle misure brevi quale Giampiero Neri, equivale praticamente al respiro di un libro. Campana, chi ci avrebbe pensato, non fosse stato lo stesso Neri a farsene un antenato in un’intervista concessa a Cesare Cavalleri («Chi mi ha dato molta forza è stato Campana … quelle prose che talvolta sono più belle della poesia»). E in effetti non troviamo modello migliore del «panorama scheletrico del mondo» di Campana per descrivere i risultati di quelle moltiplicazioni di punti di vista (un chiodo dell’autore, si veda nel libro la figura dell’apprendista pittore «Alla ricerca di un punto di vista»), che nell’opera di Neri rimandano di volta in volta a immagini di storia degli uomini, pubblica e privata, e insieme alla più lunga ‘durata’ della storia archeologica e naturale. Una galleria di quadri a risarcimento del fatto che non esiste (non solo per limiti epistemologici) un’immagine unica della Storia, e che la scommessa prospettica perlomeno equivale a perseguire un’impressione di verità, perché sorretta dalla consapevolezza che una corretta mimesi può farsi etica della realtà. Al centro dell’opera c’è la necessità di ridire un evento tragico di storia famigliare amplificato su un piano più vasto in una storia di vinti (ma di nessuna nostalgia): la morte del padre ucciso dai partigiani in un agguato. È il padre, come apprendiamo dalla stessa intervista, il Corso Donati capo dei guelfi neri (donde lo pseudonimo dell’autore, all’anagrafe Pontiggia), che comincia a cadere in immensum in L’aspetto occidentale del vestito (1976) e ancora cade nel libro nell’alone di una memoria che sfugge «Correndo si allontanavano / dal luogo dell’appostamento», di una leggenda in via di estinzione «A distanza di anni / qualcuno ricordava di averli visti». È un dramma ripercosso in una serie di figure di definizione tanto più nitida quanto più avvolte nel flou della ‘rimozione’: nel pretenzioso progetto letterario dello scrittore di provincia («Cercando la verità nel paradosso / lo scrittore di provincia guardava / alla figura di giuda»), nel «ronzino / condotto al suo epilogo», perché «il leur faut une victime», nella sorte della stessa casa, «passata indenne / dalla guerra e dopoguerra / come la salamandra nel fuoco», e nella torre edificata «con una velocità inaspettata», secondo le parole di Flavio Giuseppe nelle Antichità giudaiche, cioè Babele, il seme di ogni discordia. Il tono peraltro era già dato dall’epigrafe tratta da Il giocatore invisibile, uno dei più bei romanzi di Giuseppe Pontiggia, fratello di Neri (fratello forse ingombrante ma speculare, muovendosi i due sullo stesso asse che vede spingersi la poesia alla prosa e la prosa alla poesia, un ritorno di Neri nel più recente Pontiggia di Vite brevi di uomini non illustri essendo del pari verificabile): «Prese i tre libri e cautamente, attento a non incespicare lungo la scala ripida, scese a pianterreno» (donde scendeva nella poesia di apertura sopra citata). Basterà ricordare il titolo di due dei libri in mano del protagonista, vincitore désabusé della partita: Come non giocare a scacchi, Il sacrificio nel gioco degli scacchi («Il sacrificio era molto diffuso nell’epoca romantica degli scacchi … è un suicidio offrire pezzi al nemico. Di solito ne approfitta e vince»). In tale ottica, più che una prefigurazione metaforica un’ulteriore smorzamento («human kind can’t bear very much reality» diceva un poeta ‘etico’ inglese), è costituito dalle composizioni ‘botaniche’ della prima parte del libro, dove si assiste all’ingiallimento della già pugnace Opuntia di Teatro Naturale, forse figura dell’autore (così come l’asino caparbio di Teatro naturale che ritorna, ma bonario, nel quadro di Miró riprodotto in copertina, – sugli autoritratti insiste Silvio Aman, nel volume collettivo Memoria, mimetismo e informazione in «Teatro naturale» di Giampiero Neri, a cura dello stesso Aman, Milano 1999), e alla lotta «che vede il kiwi prevalere / la betulla vicina a soccombere», iniziando nel giardino del Keramikos il movimento di discesa, con quella vanga che rivolta la terra come l’iperbato la pagina («Scavando si addentravano negli anni / quanti mai di guerre e di memorie / di quella terra illustre»), che prelude a Sequenza che si apre subito dopo. E se queste osservazioni portano nell’insieme sulla rappresentazione e sugli effetti di fading in essa implicati, sia detto ancora che l’uso tipico di questa poesia di tenersi vicina alla prosa, quasi per costruire una possibile base pratica del discorso, e che su altri registri risulterebbe anodino, è qui funzionale, se vogliamo porci in una prospettiva umanistica e consolatoria, ad una pietas, ma altrimenti diremmo (meglio) onestà della rappresentazione, il modo quasi unico di raccontare una storia non del tutto politically correct (ma politicamente scorretto è Fenoglio, autore fetiche per Neri, il Fenoglio dei vinti e dei vincitori, quello che, beninteso, terrebbe ancora il mitra ben oliato, se tornassero), la prosa dunque, come se di questa ‘rimozione a metà’ fosse il non troppo canto, il non troppo oblio.
                                                                          Fabio Zinelli


Semicerchio, 24-25 (2001) pp. 136-137

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