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ALESSANDRO FO, Mancanze, Torino, Einaudi, 2014, pp. 123, € 11,00.

 

Il lettore del prezioso Corpuscolo (2004), che aveva avuto modo di avvertire il «balenare della grazia», di sentire la forza protettrice delle scarpe di Emma e di meditare sul progetto del Libro d’oro, che terminava con una memorabile riflessione sulla necessità della dissolvenza e dell’oblio, declinazione sofoclea di un «esodo fuori dal coro», affronterà feliciter questa nuova raccolta. Giacché Mancanze (‘traduzione’ italiana del tecnicismo filologico reliqua desiderantur, espunto infine giusta la sua non immediata intellezione e l’eccessiva assonanza col composita solvantur di Fortini ‑ secondo quanto rivela Fo stesso [p. 111], non senza ammiccante minimalismo) riprende il filo di progetti già avviati e in parte editi, ma con una continuità iscritta nel segno della sottrazione, della mancanza di completezza appunto, come ammonisce il medesimo reliqua desiderantur in refrain a ognuna delle tre sezioni. Ecco dunque, come introitus, Il libro d’oro, che campeggiava già nella terza sezione di Corpuscolo, e che qui appare ampliato ‑ sebbene incompleto, ché altri testi sono stati omessi ‑ ma poieticamente organizzato (una poesia in limine, 4 nella prima sezione, cinque nella seconda, nove nella terza dedicata a Maria: 4+5 = 9, ma anche 1+9 = 10, come le ecloghe così amata dal ‘semipagano’ Fo?). Vero libro d’ore del poeta, le liriche che lo compongono nascono dalle «pericopi delle vere preghiere». Il progetto, già enunciato nella chiosa e autocommento di Corpuscolo, è quello di una poesia che cerca di attingere il divino nel flusso della vita materiale (l’immagine, di origine platonica, ricorre più volte: ad es. nel «flusso del mio gregge», p. 25): «Il tentativo era accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà» [p. 112]. Il risultato è una poesia misticamente laica, che ravvolge per proteggerla la misteriosa complessità del quotidiano, microcosmo che riflette la complessità dei sette cieli («nulla è mai davvero come sembra / ma almeno sette volte più complesso», al Figlio; ma si veda anche il «settimo piano» di Ultimo piano, in allure buzzatiana). Se l’estasi agostiniana (Conf. IX) può ingenuamente apparire quasi a portata di mano, in ispecie ‘non lontano da Ostia’, nondimeno Fo mi pare disegnare un’estetica neoplatonica (si noti che Plotino è evocato solo in lontananza [p. 111], proprio cioè alla maniera dell’autore) contratta, nella quale l’ascensione si intravvede «lungo il lucido sentiero» e si prepara, e di cui l’opera letteraria in continua evoluzione, per il tramite di sottrazioni e concrezioni, ne è immagine (neoplatonicamente, appunto: in benedetto il frutto il poeta «risale dal foglio» e si riflette nel pensiero, che può essere «nientemeno che un’idea di Dio») e compimento. Plotino nuotava nel mare amaro della materia, guidato dalla luce lontana del dio e capace grazie ad essa di elevarsi, secondo la poetica visione di Porfirio (Vita di Plotino 22). Fo, invece, è un indagatore innamorato della hyle, pieno di carità e senso di appartenenza (vedasi Il prato metafisico); l’«aiuola che lo inscrive» non lo ha fatto feroce, ma pensoso «delle persone belle, calde, vive / a cui ho voluto bene e ho fatto bene», ma altrettanto consapevole della inevitabile Grazia dell’oblio (della nostra morte). Plotino considerava l’arte immagine del mondo noetico, e così tenta Fo, incapace però di «levitare / all’inimmaginabile visione, / con altri sensi (questi), / in un’altra dimensione» (fra le donne). Troppo è l’amore che prova per le creature. Il protettivo e discreto neoplatonismo cristiano di Fo guarda al mondo, anche perché conosce la difficoltà di guardare in alto: il piccolo Alessandro implora aiuto, ma la voce (dell’altro Alessandro, di Dio?) dal settimo piano (ancora) lo conforta solo un attimo e «grida forte, / implora il padre, e ormai rinnega pure / la pura verità di avermi udito» (che sei tra i cieli). Il rapporto figlio/Padre, anche nelle sue declinazioni terrene, figlio/padre (ma anche il desiderato padre/figlio, una delle assenze più tormentose del libro), torna più volte nella sezione e nel resto del libro (su tutto: Padre già quasi angelo), legandosi ad altri temi riaffioranti di continuo: lo scorrere del tempo, la morte e l’oblio, l’amore e le perdite, la bellezza delle cose semplici immagine della bellezza celeste (ad es. «Amo i versi, e altre schegge / di libri e vite, la salsiccia che Brahms / si cuoceva a un fornello / con Mahler sulla porta a registrare / quella musicale, maliconica / epifania del Bello», tu sei benedetta).

La seconda sezione del volume è dedicata alla terrena musica delle sfere: poesie su Chopin che nascono da momenti biografici (anche queste specimina di un progetto più vasto [p. 112]). Il tono blu (cioè il ‘tono naturale’, il colmo della grazia e della sublimità) è una serie di variazioni che mettono in pratica quella poetica di cui sopra, tutta basata sulla dialettica piccolo/grande, minimo/sublime, ma anche sulla preziosità del dettaglio e sulla lentezza. L’impulso iniziale, proveniente di volta di volta dalla lettura della biografia chopiniana di Iwaszkiewicz, da un libro del musicologo Beghelli, dalle Note a Chopin di André Gide, nonché da Ripellino, Virgilio (e suoi lettori d’eccezione), da immagini di dischi, è ogni volta illustrato nell’appunto finale [pp. 112-114]. Il risultato è degno del miglior Fo, quello in cui ‘le cose parlano’, in cui pochi grandi auctores innervano con naturalezza i suoi versi (ad es. in Ecloga, in cui Chopin diviene «Virgilio polacco», o la ripresa di Buc. 1.48 in Diciassette). Chiave di questa sezione a me pare Fuga, in cui il presunto ritratto da morto di Chopin induce il ricordo di altri ritratti (di Delacroix ad es.), per passare a riconoscere la trasfigurazione del musicista in altri: in Mozart, in un abate, ma anche in Del Piero, in Leopardi, nell’italianista Carrai, fino alla sua epifania in una (ora chiusa) libreria di Siena. La musica è il flusso (concolore?) della grazia e del bello, ed è ovunque, fino alla sua elevazione nel suono pensato del silenzio (Concedo (Gide in Italia)).

Il terzo movimento, Figure d’angeli, è la sezione più lunga (ma anch’essa risultato di sottrazioni [p. 122]), che continua la riflessione sul divino nel mondo sensibile, offrendone una nuova declinazione, fra Dante, Ripellino, ma anche Agostino, Petrarca e Wenders. Se grazie al viatico di Vita Nova 34.3 «Onde, partiti costoro, ritornaimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli» il lettore è chiamato a intendere queste figure come anagogici tentativi di cogliere la Bellezza celeste in ritratti di bellezze terrestri (realizzando dunque quanto detto in fra le donne [p. 26], «Lavoro per espansione: / applico un’ennesima potenza al fascino delle creature, / quasi se ne condensi / formula matematica»; si veda poi qui Assenza del Trecento), ognuno di questi ritratti è una celebrazione della semplice bellezza della vita, con le sue gioie terrene e col suo dolore e i suoi rimpianti. Angeli sensuali e di luce, ma anche uomini, come il padre o un giovane studente o l’ ‘angelo del Signore’ che parla la lingua degli angeli, cioè la melodia (il prete di Angelo Ciriaco, o kyriakòs). Tutti còlti in epifanie nel banale, in momenti di vita quotidiana che schiudono porte d’oro, con «metafisica dolcezza», perché «l’infinita bellezza del creato / si rifrange in singole creature» (Angelo che cerca posto) sino all’apparizione su e giù per una scala dell’angelo down (Angeli su scale). Fo come nessun altro nel panorama attuale è capace di una testura coltissima e ricca di ascendenze in una lingua cristallina, in cui nulla è fuori posto, frutto di un sorvegliatissimo labor limae che è «fatata saponetta» (rubo il verso da Angelo veterano), che riscatta persino i nostrani graffiti dei bagni pubblici (adesso), o le «tenere, a sventola, / orecchie incandescenti» (dell’angelo Flavia). Il miraculum del quotidiano, da sempre al centro della lirica di Fo, qui non è più meditato ma raccontato, come si raccontavano le visioni antiche, in certezza di realtà e in bisogno di esegesi. Una metafisica del piccolo gesto, come il carezzare i capelli o dare un bicchiere d’acqua che con sant’Agostino dà senso al mondo. Un senso tuttavia non finito, ma che si accresce continuamente, come il senso delle Scritture (laiche e sacre, letterarie e visive) che crescono con chi le legge, ma che non possono esaurirsi. Per questo manca il resto, perché dovrà sempre essere cercato.

                                                                                                  (Gianfranco Agosti)
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