« indietro Gualberto Alvino, L’apparato animale, introduzione di Giovanni Fontana, Torino, Robin, 2015, pp. 146.
La raccolta (comprendente quarantadue poesie suddivise in quattro sezioni – De miglior desegnio et meglio finitta, Narranze, Guiomar. Conti de viagi et navicatori, Per il più a praticarsi – e introdotta da un suggestivo scritto da uno dei nostri massimi poeti sonori, Giovanni Fontana), pur essendo caratterizzata da una rimarchevole unità tematica e di linguaggio, esige un serio sforzo per identificare i fili, scarsamente evidenti ma solidi, che collegano fra loro poesie composte nel corso d’un ampio arco temporale, nonché per cogliere la continuità fra la produzione in versi dell’autore e la sua attività di narratore, critico, filologo e linguista. Soccorrono il lettore attento spie e suggerimenti disseminati in vari luoghi, che offrono, a chi sappia intendere, la chiave per decifrare il senso di un’opera poetica improntata a una rigorosa e costante tensione ideale. Va detto in primo luogo che Alvino è un umanista nel senso letterale della parola: l’uomo o, per meglio dire, l’apparato animale così denominato, è oggetto privilegiato e pressoché unico della sua riflessione poetica. Ma Alvino è anche uomo di fede: in quanto tale non ha bisogno di ricercare l’essenza dell’uomo, perché gli è già rivelata ed è riducibile al corpo. Il corpo a sua volta è pensato come somma delle sue componenti: organi e apparati puntigliosamente elencati, denominati nel latino arcano degli anatomisti: «supercilium rima palpebrarum / pars tarsali palpebrae superioris / limbus palpebralis / plica semilunaris conjunctivae / bulbus oculi fornix sacci lacrimalis» (p. 22). Humanitas, il testo sacro della religione atea professata dall’autore, si colloca non a caso all’inizio della raccolta, proponendosi implicitamente come manifesto di poetica, subito dopo Compos sui (p. 19), centonaria opera di montaggio di componimenti giovanili. In una recente intervista, alla domanda «Che cosa significa corpo?» il Nostro risponde in maniera inequivocabile: «Tutto. Non siamo altro, come dichiara il mio testo [Humanitas]» (5 questions to Gualberto Alvino, «Naked truths», 3 dicembre 2013). Ancora più rivelatrice la risposta alla successiva domanda che pone in relazione «la parola, la realtà, il corpo come veicoli di messaggio» e che riportiamo integralmente: «Tu vedi tre elementi, io un unicum (corporeo). La realtà, meglio: le realtà (tante quanti gli individui), non sono che invenzioni e proiezioni di quell’unicum; la parola è anch’essa un fatto fisico, materiale – o, come dicono i critici d’arte, materico –, parte integrante dell’unicum. Quanto al “messaggio”, sconsiglio sempre di utilizzare questo termine: chi lancia messaggi utilizza la parola come veicolo, snaturandola. Io sono per l’espressione. Contro la comunicazione. Io sono per la parola non come mezzo ma come fine (assai più sostanziosa dei cosiddetti contenuti-significati)». Non solo quindi la “parola”, termine col quale si sintetizza tutto ciò che è rapportabile alla presunta sfera spirituale, non ha altra concretezza che quella dell’apparato che la produce e della materia con cui l’apparato è costruito, ma la stessa realtà altro non è, in ultima istanza, che emanazione dell’unicum corporeo al di là del quale niente è dato ipotizzare e tanto meno conoscere. La stessa percezione che l’individuo ha di sé è dubbia: «Come si può percepire qualcosa essendo nient’altro che quel qualcosa?» si afferma altrove nella stessa intervista. Se dunque soggetto percipiente e realtà percepita altro non sono che epifenomeni d’un unico congegno vitale, privo di qualsiasi ragionevolmente ipotizzabile finalità trascendente, di quali messaggi può farsi latrice la parola? Quale mondo dovrebbe interpretare? Quali contenuti potrebbe mai comunicare? E a chi? Non si pretende di dare risposta (o anche semplicemente senso) a questi interrogativi: basti trarre l’ovvia conclusione che se la parola è semplice attività fisiologica della macchina umana è al pari di essa priva di qualunque trascendenza e altro non può esprimere se non sé stessa. Se è vero, aristotelicamente, che l’uomo è dotato di logos, è anche vero che il logos altro non è che uomo, ovvero ζῷον (apparato animale sembra una plausibile traduzione): «tutto è corpo e il corpo dura finché deve / ribellarsi a questo è oratoria» (Schola Panormi, p. 108), sterile esercizio di chiacchiera a vuoto. Nell’affermazione «il corpo dura finché deve» è implicito un pessimismo di stampo gnostico: il corpo non è fatto per durare; malattia e morte sono suo destino ineluttabile; essenza dell’apparato è il caos informe dal quale origina e a cui è destinato a tornare. La morte è sovrana del mondo della carne, ma le analogie col pensiero gnostico finiscono qui: nessuna σοϕία è in grado di ricondurre l’inesistente anima a una inesistente patria celeste. La contemplazione del corpo devastato dalla malattia è il tema dominante della poesia da cui è tratto il verso citato: «non più che un girello impazzito con lui su / sbatte or sì or no su scaffali rompe / il ginocchio della serva Roberto ormai / funziona a caso impossibile fidarsi […] dopo espulso il po’ di mondo / secreto l’ultimo muco / dicono che tuttora non parli né lo vuole un tubicino / in petto due impiastri sul dorso della mano / li cambiano ogni sei giorni puntuali» (p. 107). Nell’ampia sezione Narranze (pp. 47-83) l’attenzione si sofferma sul vacillare della mente e sulla disgregazione di personalità e socialità. Accompagnato dalla farneticazione nevrotica di una sommessa voce femminile, nella quale si riconosce l’evanescente io narrante del romanzo Geco (Roma, Onyx Editrice, 2014), il lettore è condotto in un allucinato pellegrinaggio attraverso sordidi ambienti popolati da personaggi loschi, contempla immagini di umanità degradata, assiste a brutali scene di sesso animalesco. Alcuni esempi: «per festeggiare ha deciso di portarmi in casa / tutti i pancabestia della stazione / strumenti spartiti cani inclusi / naturalmente la mia opinione / non conta né ho la minima / intenzione di farla valere perderei l’altra volta / toccò ai rom del viadotto col foglio di via usarono / i libri come sgabelli le tende come / fazzoletti vasche e armadî pieni / di lattanti dagli occhi indemoniati le madri / si tagliavano le unghie dei piedi / nei bidè intanto gli uomini predavano / la credenza fingendo di riparare / i cardini coi coltelli / a serramanico […] perdeva l’equilibrio ansimava così / sono salita sulla specchiera ho puntato i piedi / contro il pilastro premendogli / il petto sul viso spingendo / strusciandogli la lingua sul collo negli orecchi / non c’è altro modo per farlo finire […] ha alzato una botola abbiamo sceso una scala / di legno che metteva in un corridoio / illuminato da una lampada / nuda col filo annodato nella stanza in fondo / brillava una luce pure / giallastra ma più intensa dietro una porta / di ferro ho intravisto la testiera di un letto / su cui uno ronfava mani fuori dalle coperte / profilo d’imperatore a terra un pitale / colmo di cicche spente a metà due voci / chiocce discutevano con calore fughe / assegni a vuoto pegni […] mi hanno chiesto un racconto due giorni / di tempo non ne ho voglia / ma pagano ho pensato al popolo dei rifiuti / intere famiglie in viaggio perpetuo / da un bidone all’altro ridono spingendo / birocci si girano ogni tanto a contemplare / i tesori scambiandosi sguardi increduli gomme / radio manici d’ombrello prese albicocche […]». Il racconto, continuamente inceppato da digressioni e mutamenti di scena, procede come il vagabondaggio di un ubriaco. La continua frammentazione delle unità narrative è evidenziata per contrasto dalla surreale monotonia della voce. La volubile fluidità della struttura acquisisce un imprevedibile e solido vigore nell’efficacissima concisione del settimo componimento della serie: in pochi precisi tocchi si consuma il patetico epilogo di una vecchiaia precipitata nella segregazione e nell’abbandono da una grottesca catastrofe domestica: «non era riuscito a dormire gridava si girava / nel letto come un pollo allo spiedo era scattato / in piedi dandosi a perlustrare ogni angolo / della casa brandendo a mo’ di sciabola una torcia / da campeggio sotto il cui peso sbandava fin / quasi a cadere ogni volta che il cono di luce / investiva qualcosa […]». La dimensione epico-narrativa, predominante anche in Guiomar – suite di fantasie esotico-avventurose in cui si esplorano le possibilità espressive di un linguaggio arcaico e primitivo – è presente in misura variabile in pressoché tutte le poesie della raccolta, magmaticamente miscelata a una altrettanto onnipresente vena di indole gnomico-teoretica, alimentata da appassionate riflessioni sui temi del linguaggio e della filologia. Si propongono alcuni esempi fra gli innumerevoli possibili: «non le cose ma gli effetti che producono / scorticato e vivo / il mondo perdavero uscito dai cardini / tutto il novo sapere positivo / scriptor compilator commentator auctor / il faut aller à l’essentiel / non è — Rolando — il testo che mi vuole / esso mi tesse / servitude volontaire» (Incipiuntur laudes, pp. 35-36); «ma non bisogna credere che l’ermeneutica / sia deformazione è un controsenso / posto che l’opera non è forma è tensione / si dice l’interpretazione è tanto / più autentica quanto più evita / consegnarsi alla distorsione / chiede perché l’opera deva diventare parte / del nostro presente non saprei ma sia chiaro / fin d’ora che lo sconfinato amore per la lingua / rivendico il diritto d’affermare / in piena scienza e coscienza / è il primo movimento d’un percorso / florebat olim / a raggiera in mille direzioni» (Pepe, p. 32); «un procedimento centonario non può / non avere una sua dignità l’accostamento / di più frammenti testuali / che il copista abbia sbadatamente omesso / le modifiche perfino le più tenui devono condurre / a un mutamento di senso / il riscontro è tuttavia ben poco affidabile» (Poculum vini aut bona puella, pp. 33-34). Non mancano esplicite dichiarazioni di poetica: ovviamente «nessuna poesia piana a intendere / non più che un valloncello ameno / può dirsi veramente poesia» (Prova a rovesciare il criterio, p. 103) Né d’altra parte esistono temi poetici privilegiati: «se niente è escluso a priori dal poetico non vedo / perché poetare puoi far versi finanche / sul callo in fronte del guerriero masai / che ti serve la quattro stagioni nel palmo / della Venere ottentotta grattandosi / l’inguine io dico l’arte ha il dovere preciso / di costruire immagini sottrarre scavare / tane tale indecifrabilità ed esorbitanza / mai achevée solo interrompue / senza reciderne l’origine» (Mal di testo, p. 38). Particolarmente illuminanti i seguenti versi: «poesia è uno condizione due rendere alla cosa / il suo nome segreto tre depistare quattro / spezzare la lingua spazzarla farne / un’altra con ciò s’intenda tono / timbro sguardo facci un pensierino / promesso?» (Sdvig, p. 128). Come il corpo (cui appartiene) la parola è caduca, la lingua (si)ammala e (si)corrompe. Dalla decomposizione e dalla promiscuità babelica delle favelle si generano mondi inesplorati. In Dommitiana road (pp. 120-23) si presta ascolto alla «musica inaudita» e alla «straordinaria espressività del gergo di rapina» dei migranti africani in Campania: «we are not dogs no house no nenti here / vivi mali cca no so no capisi talian beni / fa barbere macela agneli big trouble ici / problema lavori tanta problems / racoli arangi venti iuro / maximum twentyfive iurnata pochisima / no poso parli entre nous sinò cacci / sometimes we sing chianechiane». Persino i testi tramandati dalla tradizione sono stravolti da omissioni, interpolazioni, errori di copiatura e d’interpretazione, con conseguenze talvolta irreparabili. Nel primo romanzo di Alvino Là comincia il Messico (Firenze, Polistampa, 2008) il filologo è definito «scalco di testi»: il suo lavoro è quello di dissezionare lo scritto, liberarlo dalla sovrapposizione di elementi estranei, riparare deformazioni e mutilazioni allo scopo di restituire, per quanto possibile, l’originale nella sua integrità. Si potrebbe dire che ufficio della poesia,secondo Alvino, filologo di riconosciuto valore, è compiere sulla lingua la stessa opera di dissezione che la filologia esercita sui testi, allo scopo di depurarla d’ogni finalità comunicativa mettendone a nudo i puri valori espressivi. «Spezzare la lingua spazzarla farne / un’altra»: a questo scopo viene impiegato il bisturi del notomista: come i visceri estratti dal corpo, così le parti del discorso, liberate dai legami degli automatismi verbali del parlato quotidiano o della maniera letteraria, vengono esposte sul tavolo settorio prive del valore funzionale che le imprigiona abitualmente in contesti stereotipati e rese disponibili per nuove imprevedibili combinazioni. Un esempio per tutti, scelto pressoché a caso: «guarda che succede / lì / fra la terza e la quinta / hanno come dei marchi non so graffiti dai colori / arsi li avranno fatti con le unghie / lì / fra la testa e il collo / che pieghe carnose / rosse vien voglia di pare d’averle / in è impossibile / non vorrei dirlo ma si abbracciano / guarda / intrecciano le dita come se tra loro / corresse chissà quale / certi si baciano succhiano non lo dànno a vedere / l’elementarità animalesca l’incedere / goffamente ardito prorompere / canino degli ossi pullulare dei liquami vanno / tornano sempre più insistenti» (Prima della cosa, p. 26) Il lettore si trova intrappolato in un labirinto polisemico privo di vie d’uscita, fatto di preposizioni che si sporgono nel nulla, aggettivi privi di sostantivo, verbi orbi di soggetto e predicato, avverbi alla deriva in un arcipelago di sintagmi isolati che rimandano uno all’altro, intrecciando un groviglio di percorsi inestricabile. Alla polifonia del discorso corrisponde la polifonia dei temi e dei toni. Parimenti si sovrappongono i registri espressivi, che vanno dal linguaggio colloquiale al linguaggio letterario tra alto e altissimo. Il tessuto verbale è composito, arricchito talvolta dalla citazione di testi classici, perlopiù medioevali, da arcaismi, da espressioni dialettali e da brevi inserti inglesi francesi latini spagnoli. Raro l’impiego di neologismi: perlopiù univerbazioni con valore avverbiale (perdavero, culoculo, stringistringi).In un solo caso (Affetti di scanner) si ricorre ad artifici tipografici per obnubilare la scottante materia (il terrificante rapporto col padre). Alcune poesie sono caratterizzate da un dettato meno aspro e di più agevole decodificazione, come nella esilarante invettiva intitolata Contra linguistas (di ritorno da un seminario sul parlato spontaneo): «sulla pista di quel saggio La lingua dei / linguisti vorrei dire non v’è / non è proprio ragione d’aggiungere / spontaneo il parlato è parlato niente / di meno aggettivabile nòe? stolto / truismo bianca neve di mamma / sol una il merlo canta tre e tre fan / sei corre il corridore ché se tale / non fosse correrebbe mica e sapreste / a fortuna dirci di grazia voi che vece / di bacon caffellatte pappate pappa / e scienza a ogni risveglio dopo / allentato il ventre voi / che nell’auletta spellata da stiantare / senza slide sei borse macchinarî dieci / besoin de clarté et de logique / non proferite parola qual mai sarebbe / l’opposto scilicet / il parlato forzato artificiale costretto? / il letto forse? recitato? il teletrasmesso? ma dio / quello parlato non è mica / spiatemi quando squadro le fiche» (p. 99). Particolarmente apprezzabile l’efficacia sarcastica della versificazione deficiente, con la quale si rende implicito omaggio a Sanguineti – poeta molto caro ad Alvino – e della perentoria clausola dantesca. Se la musique è l’essenza della poesia s’impongono, per concludere, alcune parole sulla musica dissonante del proteiforme linguaggio poetico alviniano, nella quale si rifugge ostinatamente dall’uniformità tonale e ritmica; mal’obiettivo non è perseguito tramite la rinuncia a strutture metriche canoniche, bensì, al contrario, mediante il ricorso, più o meno ostentato,a un vasto armamentario d’artifici sillabici e quantitativi abilmente combinati e deformati, in un dettato sincopato e imprevedibile, le cui variazioni, apparentemente casuali, sono sempre sottilmente aderenti all’andamento (o alla frammentazione) del discorso. Si propone la concisa analisi di uno dei casi più esemplari, da annoverare fra le poesie più riuscite della raccolta: Conto: «se riamato t’amassi t’amerei / con nessuna pietà furiosamente / ahi ridursi a tal stato sentir chiaro distinto / lo scavìo nella nuca il fracasso del tarlo e fingere / che il suolo sia sotto la luna in alto / a mezz’aria le colombe e tutto ciò cui dato / staccarsi sia di giorno rispondendo / a tono perfino alla cagna / sia di notte nei percorsi di guerra / (se prendo chi ha lasciato la secchia il fastelletto / dei tarocchi al centro esatto del disimpegno) / numera i secondi dello scroscio facendo / la cresta velocitando con in bocca il sapore / del sonno nel dietro degli occhi / quel tepore come dopato dal quale / guai staccarsi basterebbe un niente la prescia / di tornarsene giù lungo a èsse culoculo con lei / in breve possibile mai che stringistringi / di quegli anni resti solo un conto sospeso / me le sogno le scene una a una me le / aggiusto le pettino annullo ripristino modifico / miglioro il disegno aggiungo ocra rosso verdino / ma la faccenda è una sempre quella / il rimorso di non averla stesa non graziato / un solo millimetro / di quella carne / fulva su cui il canino / non avrebbe / lasciato segno» (pp. 111-12). Riecheggiando alcuni folgoranti incipit di Montale (Arsenio, Iride) la poesia inizia con due incalzanti endecasillabi collegati da un enjambement («se riamato t’amassi t’amerei / con nessuna pietà furiosamente»). Segue un terzo endecasillabo («ahi ridursi a tal stato sentir chiaro») prolungato dal trisillabo piano «distinto» che, imponendo una pausa, spezza bruscamente il ritmo. Segue un lungo verso sdrucciolo, di complessa struttura: la sequenza sincopata di tre anapesti è interrotta in chiusura da un sonoro dattilo introdotto da una sillaba lunga non accentata che funge da pausa d’attesa (lo scavìo-della nù-ca il fra cà-sso del-tàr-lo e fìngere). Altra pausa. Riprende il ritmo anapestico (che il suò-lo sia sòt-to lalù-na in àl) seguito da una serie cadenzata di sei spondei, poi un dattilo e altri tre spondei (to / à mez-zària-lè co-lòmbe e-tùtto-ciò cui-dàto / stac-càrsi-sìa di-giòrno). La parola sia funge da modulazione introduttiva al cambiamento di tono e d’argomento, grazie al duplice valore di verbo che chiude la frase precedente e di congiunzione che introduce immagini di latrate aggressioni diurne, alle quali bisogna pur reagire, e di avventurose minzioni notturne in dormiveglia, causa di andirivieni domestici accidentati da ostacoli imprevisti cui la scelta di vocaboli arcaici conferisce tragicomica grandiosità (un banale secchio diventa una tassoniana secchia, un mazzo di carte si trasfigura in un fastelletto dei tarocchi). Da questo momento il ritmo mantiene un volubile andamento discorsivo, nel quale si inseriscono ben dissimulati endecasillabi, parzialmente sovrapposti (chi ha lasciato la secchia il fastelletto; il fastelletto / dei tarocchi al centro; solo un conto sospeso / me le sogno; me le sogno le scene una a una). Nel finale si esplicita «il fracasso del tarlo»: l’ossessivo oggetto di fantasie e rimpianti. Si riprende, con linguaggio meno letterario, l’andamento metrico iniziale («ma la faccenda è una sempre quella / il rimorso di non averla stesa»). Si chiude con altri due endecasillabi sovrapposti (millimetro / di quella carne / fulva; fulva su cui il canino / non avrebbe) seguiti da una saffica clausola quinaria («lasciato segno»). L’inusuale associazione dell’aggettivo fulva e del sostantivo carne evoca l’immagine dei petali vellutati di un’indimenticabile rosa mai colta. ¬ top of page |
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