« indietro ALESSANDRO MOSCÉ, Luoghi del Novecento. Studi critici su autori italiani. C. Pavese, P. Volponi, T. Guerra, A. Bevilacqua, U. Piersanti, Venezia, Marsilio 2004, pp. 165, s.i.p.
La letteratura ha tracciato ogni tipo di spazio, ogni luogo possibile: dal viaggio in terre reali alle fughe nel fantastico, su una luna dove nessuno era mai approdato o in territori abitati da esseri prodigiosi, in isole utopiche e città ideali. Per quanto il concetto di ‘cronotopo’ proposto da Bachtin possa per certi aspetti ritenersi superato, è però indispensabile non dimenticare il significato gnoseologico e antropologico del termine, che riporta all’Estetica di Kant (spazio e tempo come forme indispensabili di conoscenza) e, di conseguenza, all’immagine dell’uomo all’interno del testo stesso.
Ed è entro confini storico-geografici ben precisi, trasformati però in «luoghi psichici o luoghi dell’anima», che si muove il saggio di Alessandro Moscé, Luoghi del Novecento. Studi critici su autori italiani. C. Pavese, P. Volponi, T. Guerra, A. Bevilacqua, U. Piersanti. Si presenta come un’indagine nella stabilità degli spazi e della loro storia – un paesaggio limitato all’Italia centro-settentrionale tra Piemonte, le terre emiliane, romagnole e marchigiane – che si oppone alla più labile dimensione del tempo. La logica seguita per inoltrarsi materialmente nei territori di appartenenza di questi autori (indagati in prevalenza come poeti) è, almeno in apparenza, coraggiosamente tradizionale: Moscé inizia sempre ricordando luogo e data di nascita, contesto storico, con un taglio da antologia o storia letteraria. Quello che più interessa è invece il legame tra parola e spazio espresso, ad esempio, dalla voce del dialetto e dai miti che esso contiene. Così nel modo di dire di Pavese «mangiare la cena», che richiami i discorsi dei contadini della Langa, oppure negli irriverenti correlativi oggettivi di Tonino Guerra, il poeta sceneggiatore di Santarcangelo di Romagna: «la figa l’è una montagna / biènca ad zócar / una forèsta in do ch’e’ pasa i lóp, / l’è la caróza ch’la tóira i caval; / la figa l’è una baléna svóita / pina ad aria nira e ad lózzli (La fica è una montagna / bianca di zucchero, / una foresta dove passano i lupi, / è la carrozza che tira i cavalli; / la fica è una balena vuota / piena di aria nera e di lucciole)». Altrettanto significativo è il dialetto parmigiano che anima «la poesia policroma del Po» nei romanzi di Bevilacqua, dove si sedimentano la lingua spagnola e francese, ma anche le parlate dei barcari e dei cercatori d’oro. Ri-trovare o ri-conoscere un luogo vuole dire attivare la memoria per delineare uno spazio «vero due volte», come dice Vittorini in Conversazione in Sicilia, superare la delusione dello scarto tra ciò che è perduto e ciò che rimane, isolare il suo significato assoluto, mitico: i falò, i noccioli, le vigne, il mare diventano – nei Dialoghi con Leucò di Pavese – interlocutori dei grandi personaggi mitologici; per il Volponi della poesia Il ramarro (pur ricordato anche come autore del Memoriale) tornare alla giovinezza significa poter rievocare ogni volta «questo vivo fuoco di ginepro», ripensando alla donna amata ai tempi della scuola e, inevitabilmente, alla Urbino di allora; infine il mito si affaccia negli interrogativi alla natura di Umberto Piersanti che evocano gli stessi paesaggi marchigiani ai quali si rivolgeva Leopardi. Anche l’intertestualità, infatti, è un dato sotteso – anche se non troppo approfondito – a questi spazi e ai miti che li occupano: non solo si riaffacciano altri poeti e scrittori italiani dietro quelli indagati da Moscé, ma anche figure lontane e distanti, legate per analogia, come Omero, Mann, Ovidio con le sue Metamorfosi. Chiara Lombardi
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