« indietro IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 116-117 (scarica il pdf) GIOVANNI GIUDICI, Trentarighe. La collaborazione con «l’Unità» tra il 1993 e il 1997, a cura di Francesco Valese, San Cesario di Lecce, Manni, pp. 334, € 18,00. Nel 1993 Giovanni Giudici sta ultimando il libro di versi che uscirà nell’autunno dello stesso anno per Garzanti, Quanto spera di campare Giovanni; ha appena concluso la collaborazione (1989-1992) con lo storico quotidiano genovese «Il Secolo XIX» per cui ha scritto di attualità e costume. Ha da poco licenziato la raccolta di “racconti sulla poesia”, Andare in Cina a piedi (e/o 1992). È tornato a vivere in Liguria già da tre anni, prima nei luoghi d’infanzia alle Grazie, poi alla Serra di Lerici, senza mai abbandonare del tutto la residenza milanese. Quello che l’autore inizia, o che ha già intrapreso, è il terzo e ultimo periodo di una riflessione in versi tutta assunta da una prospettiva tarda, dal personaggio di un senex in agostiniana auscultazione del presente tra memoria e attesa. La «nerezza» del decennio appena cominciato è fitta e lascia spazio a pochi lampi e barbagli, a una speranza sottile: l’Italia è quella di Tangentopoli, delle stragi di mafia, della tv spettacolo che porterà presto all’affermarsi di Silvio Berlusconi. È in questi frangenti che l’amica e complice dei «Quaderni piacentini», Grazia Cherchi, gli sottopone una nuova sfida: ripartire dalla pagina culturale de «l’Unità», e ripartire dai libri, dalla lettura che rende umani e consente l’ultima azione sociale necessaria. «Ma perché “Trentarighe”? Perché un giorno (mi sembra) del maggio 1993 a Grazia Cherchi che mi sollecitava a riprendere una collaborazione con l’Unità che, iniziata nel 1977, si era interrotta nei primi mesi del 1989, io avevo risposto che non avevo più voglia di scrivere sui giornali e […] che avrei potuto scrivere al massimo trenta righe» (p. 224). E renta, o giù di lì, sono quante escono con cadenza quasi settimanale sull’inserto «Libri» tra il maggio 1993 e il marzo 1997, per un totale di 154 articoli. «Uno dei propositi di questa rubrica? Dare spazio a qualcosa o a qualcuno che, secondo i parametri correnti, faccia poco notizia. E questo può darsi sia nel caso di un quadernetto di versi, sia in quello di uno scrittore diventato troppo “grande” e troppo “vecchio” perché si ritenga di doverne ribadire l’importanza» (p. 74): così Giudici presenta il lavoro in uno dei primi “Trentarighe”. L’editore Manni, nel decennale della morte di uno dei massimi autori del Novecento, gli rende omaggio raccogliendo per la prima volta un lavoro di autentica militanza che non si rivolge alla politica scellerata dei partiti e si spinge nella regione in cui le idee e il sentire comune prendono forma: la letteratura e, prima e dopo, la vita quotidiana. Nei primi articoli che Giudici pubblica per la rubrica si avverte l’urgenza di esprimere un orientamento, se non proprio una “poetica”: fare con la cronaca culturale ciò che si è tentato nella «vita in versi», esprimere sul campo la ricerca di una comunità, una religione, un legare insieme (re-ligare) sé e l’Altro. La familiarità di Giudici con la pubblicistica e, in particolare, con «l’Unità» risale a ben prima del 1993, e la storia del laboratorio dentro e fuori i “Trentarighe” è ben ricostruita da Simona Morando nel saggio che introduce il volume, e dal curatore Francesco Valese, che in Appendice pubblica gli articoli “fuori rubrica” usciti su «l’Unità» sempre tra gli anni 1993-1997.
Giudici conduce il progetto dei “Trentarighe” secondo una foggia personalissima: ecco che presentare una nuova uscita o recuperare una lettura e un nome, un’immagine dal passato, narrare un aneddoto di vita quotidiana, diffondere frammenti autobiografici – e farlo attraverso la formula scorciata delle “trenta righe” – diventa l’occasione perché il particolare mostri il suo potenziale di meta-narrazione e si faccia anello di congiunzione tra la «piccola storia individuale» e la Storia, edificazione di un dialogo ancora possibile. Si prendano, come segmento campione, i primi due articoli della rubrica, quelli che vorrebbero da subito definire una direzione. La presentazione del libro di racconti Poche storie (Theoria 1993) di Sandra Petrignani viene filtrata attraverso un Leitmotiv del primo Giudici, il binomio di essere-dire, ripreso nelle raccolte poetiche (Quanto spera di campare Giovanni, Empie stelle, Eresia della sera) e prosastiche (Andare in Cina a piedi, Per forza e per amore) degli anni Novanta attraverso il binomio racconto-raccontato: «È difficile che un libro di racconti riesca […] ad attuarsi in una compatta omogeneità di tematiche e di stile da cui emergano un volto (per così dire) dell’Autore stesso e un’idea della concezione non si dirà “del mondo” ma dell’“esperienza” e dove il “non detto” riesca poi a prevalere sul “detto” e il “raccontato”, infine, sulla volontà (spesso pretesa) di “raccontare”» (p. 57). A seguire, il secondo "Trentarighe" si intitola Tanto va Pinocchio alla tangente… e, nel segnalare l’edizione del classico di Collodi appena uscita per Feltrinelli con il commento di Fernando Tempesti, l’autore rivela l’Italia marcescente della corruzione, senza rinunciare a una memoria personalissima (che coinvolge Pietro Nenni, Fernando Bandini, la Federazione socialista di Verona) accostata a un presente sempre più scuro, la «nerezza» che invade la trilogia in versi degli anni Novanta, ribadendo il legame a doppio filo che da sempre vincola, nel caso di Giudici, i due tavoli di lavoro poetico e giornalistico. n prospettiva strettamente letteraria, alla presentazione di nuove voci del campo contemporaneo, più o meno sconosciute, si accostano le letture e le riletture, quelle dei poeti di nuova generazione (si pensi almeno a Eugenio De Signoribus, Maurizio Cucchi, Enrico Testa), quelle dei modelli (Dante, Eliot, Puškin, Kafka, Machado), dei maestri (specie Saba, Fortini, Noventa), il ricordo degli amici e degli interlocutori (come Caproni, Zanzotto, Sereni, Rosselli e Raboni). Le isotopie (che accomunano, ancora, poesia e prosa giornalistica) creano come dei percorsi interni di lettura del volume: a) la disillusione del «teleutente» che vede incarognirsi la politica interna tra politici-attori e attori-politici; b) la trovata ironica che sospende o esacerba l’amarezza del presente; c) la riflessione sulla lingua; d) l’interesse per l’immagine, la fotografia, il video; e) la mappatura del sistema editoriale che si affaccia al digitale, continuando un discorso di apocalisse culturale attivo almeno dalla Letteratura verso Hiroshima (1976); f) l’aneddoto brillante di autobiografia finzionale; g) la riflessione sul soggetto poetico. Ed è sui soggetti e sulle identità che Giudici chiude l’ultimo “Trentarighe” del 1997, Il vino nel bicchiere: saluta i lettori e i redattori dell’inserto «Libri» («ciao Antonella, ciao Bruno, ciao Oreste, ciao Walter, vi saluto con i vostri nomi») e si firma attraverso un io sintomaticamente stratificato nell’autocitazione di versi – da lui tradotti-riscritti – dell’Onegin di Puškin: «Beato chi lasciò il festino / Della vita senza bere / Tutto il vino del bicchiere, / Non lesse il suo romanzo fino | In fondo e seppe dirle addio / D’un tratto, come a Onegin io» (p. 225). Il volume di Manni si porge come uno strumento importante per i futuri commenti all’opera di Giudici, reso prezioso dall’acribia di Valese che fornisce il regesto degli articoli corredandoli da note puntuali a sciogliere le allusioni più sotterranee, e al saggio introduttivo di Morando che interpreta e riconduce la storia dei “Trentarighe” a una poetica, a una storia dell’autore, alla Storia di quegli anni. di Francesca Santucci ¬ top of page |
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