« indietro WALLACE STEVENS, Tutte le poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, Milano, Mondadori, 2015, pp. 1325, € 80. A oltre un anno dalla pubblicazione del Meridiano che raccoglie tutte le poesie di Wallace Stevens è interessante rileggere i commenti usciti a caldo sull’opera in versi del maggior poeta statunitense della prima metà del secolo scorso, tradotta e annotata da Massimo Bacigalupo. Il dato che accomuna la maggior parte delle recensioni riguarda un 'luogo comune' legato alla scrittura di Stevens: la sua grandiosa difficoltà, l’oscurità e la freddezza di un poeta esoterico ed enigmatico che mette a dura prova i suoi lettori. È una vexata quaestio, scrive Bacigalupo nella bella e utile introduzione, perché in Stevens l’oscurità «è ricchezza, invito a fermarsi e a (non) ragionare», a entrare nel meccanismo del suo procedere dove le certezze della ragione sono sostituite dall’immaginazione come strumento di conoscenza. In questo gigante della poesia mondiale, dice il curatore, «tutto è chiaro e incomprensibile », «perfetto e misterioso», «indecifrabile ma intrigante», facile e difficile. «Le mie poesie mi sembrano così semplici e naturali che non riesco mai a capire come possano sembrare altrimenti a chicchessia. Non vogliono essere né profonde, né oscure, né misteriose», scrive Stevens in una lettera del 1922 che Bacigalupo riporta. Esse sono, come sappiamo, la trascrizione metaforica di un ininterrotto colloquio fra mente e realtà, sono la prospettiva di una mente su una realtà mutevole che chiede al pensiero di riformularne continuamente il quadro, di fer mare, nell’incontro col reale, l’atto stesso del pensare. Tutta la sua scrittura tende a comporre «[i]l poema della mente nell’atto di trovare / ciò che sarà sufficiente». Si apre così un celebre testo del 1940, Della poesia moderna. Qui, con una metafora teatrale, il poeta dice cosa debba essere la poesia moderna: sul palcoscenico della mente deve svolgersi una scena contemporanea, recitata nella lingua del luogo e del tempo; come un «insaziabile attore», la poesia deve trovare le parole per un pubblico invisibile affinché, Stevens scrive in un saggio, il poeta-attore dia agli altri la sua immaginazione perché la facciano propria. L’attore è un «metafisico nel buio» che pizzica uno strumento a corda i cui suoni contengono, come le parole, la sua mente e il suo pensare. Ma cosa è sufficiente perché tutto ciò esista? Un’immaginazione che afferri il mondo, lo percepisca e lo ricomponga per restituircelo sempre nuovo. Ogni cosa quotidiana, ogni evento – «un uomo che pattina, una donna che danza, una donna / che si pettina» – su cui l’occhio della mente si posa basta a far esistere poesia, poeta e realtà. Nel teatro della mente di questo pittore di metafore i quadri si susseguono trasformandosi continuamente in quella «finzione suprema» della poesia che è strumento di redenzione e, come scrive Stevens, «ha il ruolo di aiutare gli altri a vivere la propria vita». Nel poemetto Note per una finzione suprema, sviluppa in tre momenti la sua visione della poesia, la quale deve vivere su un piano simbolico, astratta dal reale, essere mutevole come mutevole è la realtà e il modo di immaginarla, dare piacere creando ordine e bellezza. Questo «Conoscitore del caos», come s’intitola una nota poesia, aspira a cercare un’unità nel disordine delle cose rinnovando sempre il rapporto fra mente e realtà senza prescindere dal suo metodo, dallo speculare sulle possibili forme, minime e massime, del reale. L’opera di Stevens è dunque un immenso esercizio di stile intorno a un unico tema. Diceva Pavese che narrare è monotono come nuotare, ma che la «bellezza del nuoto, come di tutte le attività vive, è la monotona ricorrenza di una posizione». Questo vale anche per la poesia di Stevens dove ricorre un meccanismo specifico nel sistema immaginativo del poeta, l’«eterno direttore d’orchestra» (Sera senza angeli). Allenarsi alla lettura rende perciò quasi 'semplice' il viaggio nel suo schema fisso, che non prescinde mai dalla metamorfica, inafferrabile natura delle cose e della mente umana che le contempla e ne estrae la bellezza: «Questo mondo nuvoloso, con l’ausilio di terra e mare, / giorno e notte, vento e calma, produce / altre notti, altri giorni, altre nuvole, altri mondi» (Variazioni su un giorno d’estate). Il Meridiano di Bacigalupo offre ai lettori italiani l’opportunità di allenarsi alle trame poetiche di Stevens attraversando con lui mezzo secolo di storia, dalle prime pubblicazioni nel 1915 alle ultime del 1955. Oltre all’introduzione vi troviamo una dettagliata biografia, gli Adagi e gli epigrammi tratti dai suoi quaderni, una esaustiva bibliografia e, soprattutto, le utilissime note e informazioni metriche per ogni singolo testo. Conviene leggere questo libro cronologicamente perché scopriremmo così che il poeta più astratto e cerebrale della poesia inglese moderna è aderentissimo al suo tempo – il tempo storico, il trascorrere delle stagioni dell’anno e della vita. La sezione Parti di un mondo del 1942 tratta, ad esempio, della guerra: «Questa carne amara / ci sostiene...Chi dunque sono costoro, qui seduti?/ La tavola è forse uno specchio in cui siedono e guardano? / Sono uomini che mangiano riflessi di se stessi?» (Cuisine Bourgeoise); il poemetto La roccia del 1950 parte dall’immagine grigia spogliata di foglie e fiori del titolo per meditare sulla vecchiaia e sul passato («E’ un’illusione che abbiamo mai vissuto, / abitato le case delle madri, costruito noi stessi / di nostro proprio moto in una libertà dell’aria...»); alla gioventù rimanda Sunday Morning del 1915 e le molte poesie dove i caldi climi della Florida o i lillà primaverili alludono alla stagione della sensualità e dell’amore. Il Meridiano ci invita a una lunga passeggiata poetica al passo cadenzato e monotono della pentapodia giambica prevalente e delle magnifiche architetture strofiche di Stevens. Come il poeta era solito percorrere a piedi i quattro chilometri da casa all’ufficio ogni mattina e ogni sera, così leggere la sua opera richiede un’analoga quotidianità per abituarsi a un percorso che si ripete uguale e diverso dall’inizio alla fine. Il libro si chiude con Del mero essere, forse la sua ultima straordinaria invenzione linguistica per celebrare il mondo creato e la poesia che lo reinventa.: «La palma alla fine della mente, / oltre l’ultimo pensiero, sorge / nella scena bronzea, // un uccello dalle piume d’oro / canta nella palma, senza senso umano, / senza sentimento umano, un canto strano. // Sai allora che non è la ragione / a farci felici o infelici. / L’uccello canta. Le piume splendono. // La palma svetta al limite dello spazio. / Il vento muove piano nei rami. / Le piume infuocate dondolano giù». (Antonella Francini) ¬ top of page |
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