« indietro LIDIA RIVIELLO, Sonnologie, Zona, 2016, pp. 60, € 10,00.
Esce per i tipi di Zona, dopo sette anni di silenzio, l’ultimo libro di Lidia Riviello. Rispetto alle raccolte precedenti, qualcosa evolve nello stile: si passa dall’accumulazione verbale del catalogo – forma cara alla miglior poesia di ‘ricerca’ – ad una sorta di regressione del linguaggio, proferito da una zona di dormiveglia paralizzante e asettica. Sonnologie si presenta infatti come un decalogo, o meglio un trattato epigrammatico sulla ‘Scienza’ del sonno. La sua architettura in tre parti, ispirata ai principi della retorica medievale, è ambivalente. Al contempo riconoscibile e irriconoscibile, tale scrittura predilige lo sviluppo orizzontale del discorso, cui sono affidati contenuti programmaticamente ‘prosastici’, senza rinunciare tuttavia ad una certa ‘fiducia’ nel mezzo poetico, ravvisabile – più che nella discreta traccia metrico-ritmica di misure regolari – nel tentativo di costruzione di un ‘libro di poesia’ dall’impianto articolato, se non addirittura coerentemente ‘unitario’, malgrado la caleidoscopica varietà di materiali, citazioni e immagini che vi confluiscono. Nella prima di queste tre sezioni ci troviamo in un non meglio specificato «istituto», popolato da «clienti» e «utenti» in preda ad un pervasivo e contagioso sonno. Dormire, ridotti a compratori inconsapevoli, è qui una forma di rinuncia all’essere che comporta la perdita della facoltà di discernere e agire, risultato di un’egemonia democratico-capitalistica che Fukuyama, citato non senza ironia da Riviello, definisce «fine della storia». Dormire è infatti peregrinare in uno stato di semi-incoscienza sonnambolica, che colpisce tanto gli individui quanto la cosa pubblica, condannando uomo e società a muoversi senza sapere dove andare. Dormire significa inoltre non esser desti, e tuttavia non sognare, giacché i «sognatori» che non possono più sognare, come un tempo, «senza produrre» – sono «estinti» (e a maggior ragione quelli i cui sogni abbiano un qualche – freudiano – «significato »). Dormire è non saper più vedere – se non da sopra un treno che ci lascia meri spettatori del mondo, precludendoci l’esperienza viva del reale («il cane / e il mare saranno visibili solo dai treni») - ma solamente, appunto, essere visti, facendoci «fotografare prima del sonno», ancor meglio se a fotografarci siamo noi stessi, con «autoscatti riabilitativi». Dormire è, anche, «non trov[are] altre immagini che l’essere sulla barca», una barca da cui è scomparsa, come nell’utopia dell’autogoverno di una società digitale, «la definizione di conducente », oltre che qualsiasi idea di meta. A finire è, a ben vedere, insieme alla Storia, una certa idea di Uomo – e del soggetto, in specie lirico – che lascia il posto ad un interlocutore massificato, senza qualità, non più individuale e non ancora collettivo. Ci troviamo di fronte a una folla umana in costante transizione che abita mercificati e onirici territori urbani. Nella seconda sezione, infatti, alla statica sonnolenza di cui sopra è accostato il topos – anche linguistico – della metropolitana, metafora di una «velocità commerciale» in cui ogni grado e scala di priorità risultano azzerati in nome di un appiattimento di oggetti («tanti / oggetti di nessun valore molto cari»), individui (ridotti a «passeggeri ») e sentimenti «digitalizza[ti]». Il ritmo accelerato del contesto metropolitano non deve tuttavia accompagnarsi alla mobilità della mente umana («non desiderare il pensiero d’altri in movimento») perché «la specie se la lasci riflettere determina il controllo della velocità» e non si sa mai che le prenda il raptus di voler scendere dalla «macchina» in corsa, rallentarla, o «manometterla». Tale tema sarà portato alle estreme conseguenze nella sezione finale, in cui si affronta la condizione del linguaggio, segnato dai vacui modi di dire – parodiati – del mondo della pubblicità e dei media. Nella sovraesposizione semiotica di «un mondo che non potremo più trascrivere », il linguaggio appare dilapidato, oltre che impotente, e parla allora soltanto per frasi fatte e figées. Attraverso la critica al linguaggio svuotato di senso, il libro svela dunque un’ulteriore possibile chiave di lettura, un fil rouge che attraversa tutte le sezioni e ne detta l’articolazione interna: quello politico. Il mercato del sonno a cui è assoggettata una società che comunica per slogan ha, infatti, come principale conseguenza la seduttiva «colonizzazione dell’inconscio» di cui parla Zinato, nell’utile nota a fine libro. L’apatia sostituisce l’azione, l’immagine la cosa, la persuasione il discorso. Nello stesso modo, l’intrattenimento soppianta l’esercizio del governo («la performance divora l’azione politica») e ne risulta una svalutazione del ruolo di chi è governato: «una quantità indeterminata di uomini perde peso dentro la macchina, // gli stessi perdono alla schedina, gli stessi perdono un modo un potere di indeterminazione che li rese lieti quando capitava di ballare in forma di squalo». La massa umana perde: peso, potere (anche d’acquisto). Non rimane nulla, in questo lento processo di spoliazione, se non la nota «liet[a]» di un passato rimemorato, il ricordo di un tempo in cui ancora «capitava di ballare». Tuttavia nemmeno il ricordo potrà salvarci, poiché manca l’agire presente in un mondo «fatt[o] di sola memoria» e l’antica speranza nel fiore del deserto – la leopardiana «ginestra» che china il capo senza spezzarsi – sembra anch’essa ridotta a un’«insopportabile» e illusoria «sconfitta»: «è fatto di sola memoria il mondo che ci lascia nel gruppo, nelle basi della responsabilità di vita e morte, delle ginestre che non usate nelle rivoluzioni materiali sono davvero insopportabili adesso. // tingere di giallo il mediterraneo ha provocato molte sconfitte alle estremità del mondo, anticorpi per gli incendi». A contrastare la perdurante stasi che ci attanaglia sorge, in chiusura, una minuscola e dubitativa luce, ed è la speranza di un risveglio, «la rimessa in moto d’uno stupor per ora appena sgranato». (Sarah Ventimiglia) ¬ top of page |
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