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In principio fu La poesia salva la vita, titolo di un agile saggetto, uscito ormai un decennio fa, di Donatella Bisutti. Ad oggi è piuttosto vasto – risultando ulteriormente amplificato dalle possibilità messe a disposizione dalla Rete – il panorama delle pubblicazioni dedicate all’importanza e, attraverso l’uso di questa parola-feticcio, alla fungibilità della scrittura poetica. In barba all’elementare nozione jakobsoniana della funzione poetica – che fungibile, in realtà, non è – si discetta delle possibili finalità alle quali potrebbe servire la poesia. Nel suo libro d’esordio, Vittoriano Masciullo sembra riproporre, senza tuttavia fornire alcuna risposta, lo stesso interrogativo: “a che serve”, con la variante “a che è servito”, è infatti la stringa più ricorrente nel testo, con l’effetto di istituire un orizzonte interpretativo che non è soltanto metapoetico, ma ha anche risvolti esistenziali, psicanalitici, culturali e politici. Come si può notare in molte delle occorrenze – un esempio per tutte, la prima: “salva però salva o a che serve” (p. 22) – il procedimento di Masciullo mantiene sempre in vita la struttura dualistica dell’interrogativo, costruendo così un libro che, come ben osserva Cecilia Bello Minciacchi nella postfazione, è “gremito di opposizioni” (p. 80). D’altronde, un chiaro punto di riferimento dell’autore è Vittorio Reta – poeta del secondo Novecento che per lungo tempo è stato accantonato, fino almeno alla ripubblicazione di Visas e altre poesie (Le Lettere, 2006), per la curatela della stessa Cecilia Bello Minciacchi – all’interno di un rapporto di fedeltà, del resto mai epigonica, che non riguarda soltanto i procedimenti compositivi, ma che implica anche l’adozione di una prospettiva tematico-ideologica più generale. In effetti, oltre al notevole impegno profuso da entrambi i poeti nella forzatura sintattica della versificazione, in Masciullo vi è anche, “con le necessarie differenze, la dialettica messa in campo da Reta tra il sentimento della vita, del respiro quotidiano, delle considerazioni esistenziali, e il desiderio di sperimentare attraverso la scrittura, nutrito spessissimo, con insistenza ossessiva, di altra e varia letteratura” (p. 77). Una dialettica irrisolta, incapace di facili trionfalismi e al tempo stesso consapevole dei tentativi di sintesi che sono perennemente in atto, a discapito non soltanto del singolo individuo, ma anche delle più diverse collettività. Tali tentativi sono costantemente promossi sia dall’alto che dal basso delle gerarchie culturali e politiche; se infatti è vero che Dicembre è visto dall’alto, nel titolo del libro, la raccolta si apre e si chiude all’insegna di un “comunque” che si può immaginare, invece, proveniente dal basso: “e al pensiero non succede / il pensiero suo e viceversa / e comunque succede” (p. 13); “nessuno // rimane // comunque” (p. 66). In questo uso – non sempre rassegnato, anzi talvolta riottoso – non si rileva traccia di alcun fatalismo; si ha conferma, piuttosto, di quanto ha recentemente scritto Luciano Mazziotta in una recensione del libro apparsa su Nazione Indiana (20 febbraio 2020), rifacendosi esplicitamente a un caposaldo della psicologia winnicottiana: “nel momento in cui nel soggetto si verifica la paura del crollo, il crollo è già avvenuto”. Si tratta di un principio compiutamente formalizzato nell’intero libro di Masciullo – come si può notare, appunto, nell’alternanza delle stringhe “a che serve” e “a che è servito” – e che può efficacemente integrare l’ipotesi, avanzata da Cecilia Bello, di una scrittura che ambisca a costruire, o ricostruire, “sulle macerie”, intese in senso classicamente benjaminiano (p. 80). In effetti, il crollo, in quanto sempre già avvenuto, è registrato fino alla sua più minuscola evidenza poetica, a partire da quel processo fonologico tipico della lingua tedesca, ossia la desonorizzazione o indurimento delle consonanti finali, che è citato nel titolo della prima sezione, Inaspettata (o delle conseguenze dell’Auslautverhärtung). Nonostante molti testi di questa stessa sezione (pp. 13-25) ricorrano all’epanadiplosi, la circolarità così presupposta non si realizza mai appieno: l’abisso, corrispondente a ogni “caduta” del verso in direzione del verso successivo, si può spalancare da un momento all’altro. Di questo abisso, si darà compiuta definizione solo molto più avanti – “tra me e il sé c’è un abisso di coraggio” (p. 61) – ma già nella prima parte si delinea la dimensione primariamente psico-sociale del confronto con questo baratro, in una chiusa che significativamente riprende il titolo dell’intera sezione: “lei ha una grande / capacità di affrontare / inaspettata dice / inaspettata” (p. 19). A seguire, la seconda parte del libro (pp. 29-34) – intitolata a Ueno, quartiere tradizionale di Tokyo – svolge un ruolo di cerniera tra la prima e la terza parte del libro, instaurando un processo di transizione che è principalmente spaziale e linguistico, e non temporale né di movimento dialettico. Inizia infatti ad affacciarsi – in realtà, piuttosto timidamente, grazie ad alcune citazioni e tematizzazioni – quel plurilinguismo e quella sovrapposizione di spazi, geografici e psichici, che caratterizzerà poi la terza sezione, Nessuno spiega chirone (pp. 37-66). In questo senso, la scrittura di Masciullo può forse essera accostata ad altri esperimenti plurilingui attivi nello stesso ambito bolognese nel quale opera l’autore, come ad esempio quelli avviati da Sergio Rotino (Cantu maru, Kurumuny, 2017) o da Domenico Brancale (Scannaciucce, Mesogea, 2019). Tutti questi autori non si muovono tanto alla ricerca di una lingua primordiale e pura che emerga dall’armonizzazione di suoni altrimenti deprivati di significazione, bensì proprio nell’impossibilità di tale armonizzazione pre-linguistica ritrovano il movimento e l’articolazione che ritengono specificamente proprio della scrittura poetica. Al tessuto mistilingue di questi testi si aggiunge poi la lunga serie di campionamenti indicati da Masciullo in calce al libro (p. 70), con la parallela costruzione di un panorama letterario e artistico molto vasto ed eterogeneo, nel quale spiccano, per una rilevanza che non è solo citazionista, almeno due riferimenti: il già citato Vittorio Reta e Amelia Rosselli. Serie ospedaliera (1969) di Rosselli, in effetti, è un titolo esplicitamente citato in un verso di Masciullo (p. 44), come punto di riferimento poetico – anche qui squadernato in tutti i suoi possibile livelli – al quale corrisponde, nel presente libro, l’esigenza e al tempo stesso l’impossibilità della cura. D’altronde, il libro si pone all’insegna di Chirone, personaggio metodologico che “nessuno spiega” ma che Masciullo riesce a ricreare sapientemente nei suoi versi: il medico di Achille, successivamente colpito dalla ferita non rimarginabile, ma al tempo stesso non letale, inflittagli da Eracle, è la figura che meglio può suggellare l’interrogativo senza risposta che Dicembre dall’alto ha posto e continua a porre. (Lorenzo Mari)
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