« indietro ALBERTO CELLOTTO, Vicine scadenze, Civitella in Val di Chiana (AR), Zona 2004, pp. 51, 8,00.
Se si può ormai parlare di una vera e propria ‘officina del Nord-est’ ciò avviene, oltre che per mobilitazione istituzionale cementata da festivals e letture con tanto di foto di gruppo dei poeti dell’A 22 (l’autostrada), soprattutto per la reperebilità di una temperie stilistica omogenea. La linea veneto-friulana si sta infatti avvantaggiando sulla vecchia linea lombarda per il fatto di essere più rapida a trapiantare nel grigio d’ordinanza perentorie sortite verticali nel sublime: questo significa scrivere alla soglia di Zanzotto, della luce bianca di Mario Benedetti, delle luci ‘coatte’ di Villalta. Si prenda il bel libro di esordio di Alberto Cellotto (Treviso, n. 1978). Da un lato prospera il regno dell’anti-sublime, la gestione di un’«urgenza di vita [...] nelle sue pieghe anche burocratiche» (qui viene in mente, a raffronto, il lavoro di Igor de Marchi dove però lo strumento di controllo è soprattutto metrico), una «Quotidianità / deità spuria», riparo in interni di «linoleum scollato». Del tutto naturalmente, abbassatasi la soglia dell’auscultazione, si incontrano fitti elementi di bestiario (si pensa ai Malcerti animali di Villalta): zanzare, i cimici (dialettalmente), galline, mosche. Questi possono riumanizzarsi facendosi, brechtianamente, apologo, come nella poesia delle due vacche sulla pedana del macello, o anche canzonetta: «In fondo / il desiderio si gratta / come una gatta / il collo», con esibizione, come spesso, della rima povera. Ma la frequentazione attenta del mondo grigio dei fenomeni prelude, costituzionalmente, all’apertura allo spazio di pensieri più strutturati e alati. Inevitabile qualche peccato di lirismo: «In poche / nuvole si fissa / un tremore d’ala, / certo della tua presenza», per più scolastiche metafisiche: «la giornata / aspetta un fischio / per finire». Sono però altre le incisioni che meglio riescono a Cellotto. Intanto un sistema di geometrie semplificate fatte di angoli stretti tra espressione dell’astratto e del concreto: «un’occasione di mosche», «il criterio dei colli» «questa solitudine di case / incastrata nei giardini». Raramente, la scrittura si tende a esiti espressionistici: «La campagna incinta», più spesso trova un simbolismo (anche questo) povero: «il vento ha suonato la casa», «intonare / gli alberi». Allo stesso modo si registra tutto un catalogo di ‘sostituzioni’ di poche sorprese, ipallagi: «un vento di schermo», «Chiaro guardo la luna», «Gioisce oggi di tempo / incoronato qualsiasi gesto», «senza / sera è questo quarto di luna». In realtà, per catalogate che possano sembrare, sono frasi / girandola dove a soffiare si cerca di girare il senso dal terrestre a uno spicchio di mentale, eventualmente di sublime. Sono macchine di fantasia, come avviene al meglio nel gioco di specchi che è la poesia su Mantova: «La terra ha sbagliate / le curve ma sta col tronco / a meraviglia. E poi si ferma / l’occhiata in un pozzetto / a riflettere. Fuori dalle piazze / si chiamano righe / le acque e le piante: / saranno buone come figlie», o anche effetti di leggero illusionismo: «Ancora, in testa e gambe, nuvole e luce / bassa dell’inverno / che non muove» (dove muove è naturalmente tutta la distanza che lo separa da muore). Da qui, più che nel congelamento lirico delle trasparenze dello sguardo, si liberano le spinte di energia più convincenti, dal sorprendente «Sei bella, nuda, nonna» in un contesto melodico rock da ‘solo musica italiana’, a quella sorta di curriculum di intenzioni burocratiche ma giocoso, con sordina di immagini trans-quotidiane: «Più o meno lavora e consuma / le suole in Padova / su spigoli di marciapiè. / Alla sera funghi lunghi / e arance spazzano via qualche / intenzione debole».
Fabio Zinelli
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