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MILO DE ANGELIS, Tema dell’addio, Milano, Lo Specchio, Mondadori 2005, pp. 85,  9,40.
 
A pochi mesi dalla sua comparsa, Tema dell’addio può già vantare pagine di profonda e appassionata comprensione critica. Non perché sia un libro facile in assoluto, ma più probabilmente perché è un libro facile da amare; un libro in cui si celebra l’addio a una persona amata – la poetessa Giovanna Sicari, compagna del poeta e morta di malattia sul finire del 2003 – e che è in grado di attivare come un diapason corde che nel lettore sono già in stato di vibrazione latente. C’è nel buio della perdita un’altezza di ispirazione che arriva diretta, senza quegli accumuli metaforici che in precedenza – almeno fino alla prima svolta di Distante un padre (1989) – avevano talvolta occultato al lettore l’oggetto della poesia di De Angelis, contrassegnata così troppo spesso dall’insufficiente etichetta di neo-orfismo. Tra i molti libri di lutto, si pensa ad altri legati a doppio filo a questo. Birthday letters, chefu un libro commovente, doppiamente testamentario, che Ted Hughes scrisse nel 1998 poco prima di morire dedicandolo alla poetessa americana Sylvia Plath, la sua prima moglie suicidatasi trentacinque anni prima. E poi gli Xenia di Montale, che furono un libro di rottura, liberatorio e straziato. Quella doppia suite di quattordici brevi componimenti aprì una strada molto anglosassone alla poesia italiana e rivelò un Montale nuovo, più fluido del precedente, meno concentrato ma non meno ispirato. E ancora la quasi totalità della poesia ancora poco nota di Ferruccio Benzoni, canto funebre che si è andato prosciugando con il tempo fino ai tesissimi epicedi dei Numi di un lessico figliale, dello Sguardo dalla finestra d’inverno. Ma le prospettive di un tema così assoluto e antico sono qui scritte a un grado tale di potenza emotiva che niente risuona come già letto. A metà della prima delle sei sezioni, dimenticato Montale, dimenticato Hughes, dimenticato Benzoni. E infatti la danza si apre col momento dell’attesa della donna amata alla stazione (ribaltando specularmente un altro Montale, quello dell’Addio fischi nel buio cenni tosse). Ecco quindi un Tema dell’addio che germoglia non dalla partenza della donna amata, ma dal suo arrivo in stazione, foriera di una grande notizia. «Contare i secondi, i vagoni dell’Eurostar, vederti / scendere dal numero nove, il carrello, il sorriso, / il batticuore, la notizia, la grande notizia. / Questo è avvenuto, nel 1990». Il registro emotivo oscilla tra pochi poli puntuali, come il pendolino del rabdomante esitante tra diverse e vicine fonti d’attrazione. In quella prima ripetizione («È avvenuto, certamente / è avvenuto») si introduce dirompente il dubbio che la reiterata affermazione della realtà apra la porta alla propria negazione, alla sensazione che la vita sia tutta un’enorme e assurda allucinazione, che tutto si schiacci su un presente in cui rimbombano passi lontani e indistinti. La poesia agisce così come un recettore di verità, mette a fuoco lo sfuocato, lo strappa dall’abisso. Ma quasi subito dopo ecco un’affermazione crudele, opposta eppure sorella di questa, che restituisce noi all’abisso, noi salvati: ciò che è avvenuto non è più dato. «Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola / la morte, poche le ossessioni, poche / le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade / che portano fuori di noi, poche le poesie.» Il poeta che salva l’altro dall’oblio – l’altro già al di là delle parole, col corpo che «si è fatto musica / delle sfere, voce consacrata, silenzio» – si condanna alle tenebre con lo stesso gesto della parola in cui si invera l’addio. E ancora un altro sintagma semplicissimo e potente punteggia la costellazione emozionale: «non c’era più tempo». A sigillare uno strazio ancora diverso, un’altra dimensione del dolore, dove la morsa del ricordo di oggi si aggrava del peso trascinante del rimpianto di ieri, risucchiata nell’imbuto inesorabile del tempo che ci avrà tutti. Ma per chi resta, dopo l’ultima accelerazione, il tempo si blocca. E in quella sospensione la ricognizione degli eventi accaduti diventa un vero esercizio spirituale: «C’è stato un compleanno, all’inizio, certamente. / Cinque candeline azzurre, i parenti mai visti, / gli evviva. C’è stato, quello c’è stato». Quello dell’addio è filo conduttore, ma non unico tema compatto. Questo è anche, e forse soprattutto, un libro sul tempo, quando esso «rivela i suoi grandi paradigmi». La danza per Giovanna – danza tacita, eseguita in un silenzio di ospedali che riecheggiano la fissità cosale del mutismo dei lavandini in un ricordo precedente – è un continuo oscillare tra accelerazione e stasi, esitando tra la drammatica partecipazione all’evento che a esso pone fine («ti cedo la parola, ti chiedo un po’ / di morte») e il suo rifiuto offeso, scandalizzato («Vattene / nulla morente, / vattene ferita / dei minuti che tornano qui»). Così quello alla compagna non è l’unico congedo che si celebra nel libro. E quando la storia urla da dietro i vetri che circoscrivono la nostra solitudine, (nel momento storicamente topico in cui «Affogano le nazioni. Crollano le torri») il poeta si siede a un tavolino e convoca le sue ombre. Il padre, altre figure femminili, infine di nuovo Giovanna. Tema dell’addio è ancora una volta un libro pieno di Milano, della sua periferia. Una Milano che fa da isotopia poetica al corpus di De Angelis, dagli esordi di Somiglianze (1976) a quel Dove eravamo già stati uscito sempre nella nuova collana de ‘Lo Specchio’ nel 2001. Una Milano in cui l’asfalto liquefatto penetra nei corpi e li corrompe. Dall’immagine di copertina si sprigiona la luce di una sospesa unreal city, immobile e presaga, coi grumi urbani dei navigli, le macchine e l’industria, la storia e la prosa dei giorni. Il brano di strada che si intuisce è un lastricato, e sul marciapiede è terra. L’asfalto non c’è. È entrato tutto dentro alle pagine, entrato nei corpi, e racconta così di una morte comune. Una morte che sembra tornare ad allontanarsi nell’impenetrabile fissità di ciò che è fuori dal tempo, sezione sottratta al fluire della storia e consegnata a un estenuante gioco di dilatazioni. Morte aerea e rarefatta, dalla quale diventa necessario strappare il materico, il terrestre, ciò che è stato. E si viene come interpellati, chiamati a testimoniare della propria partecipazione, affermando che è tutto realmente accaduto. Se questo è l’interrogativo che Tema dell’addio pone al lettore, allora questa è la risposta. È accaduto l’incontro minimale a Rosario, è accaduta la notizia clamorosa che apre a una lieve molteplicità di letture chi volesse interpellare il testo nei suoi singoli interstizi. Tutto ciò che viene detto è stato, sia esso vita, morte, dolore, addio. Le muse foscoliane sorreggeranno ciò che viene qui cantato ben aldilà dei nostri individuali codici terrestri.

Lorenzo Flabbi

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