« indietro ALBA DONATI, Non in mio nome, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004, pp. 96, € 8,00.
L’autrice di La repubblica contadina (1997), riconferma la propria sensibilità civile e umanistica, in quest’opera che sembra nascere da un triplice rifiuto. Rifiuto dell’io poetico unico e individuale, aspirando alla ‘polifonia’, quell’affresco corale – già sperimentato nella silloge precedente – in cui si intrecciano storie, fatti, testimonianze, memorie. In secondo luogo, rifiuto della poesia come esercizio di stile, rinuncia all’incanto intimistico a favore di una più diretta comunicabilità del tema, di una forma più duttile e al servizio della materia, ora più colloquiale e discorsiva, ora più contratta e drammatica, in cui verso lungo e verso breve si alternano a rendere la libera ma organica varietà del canto, con punte di concentrazione lirica («Dentro l’acqua s’agitava un cumulo d’erica / la bambina veleggiava verso il centro del mare / incontro al suo trasparente amore»). Infine, rinuncia all’ambizione di unità di tempo, azione e luogo, per fondere in nome di un autentico doloreamore che si fa urgenza di pace, diverse epoche e patrie, esperienze vicine e lontane, con il coraggio di ‘nominare’ innocenti e colpevoli, date, fatti (dagli eccidi nazisti al G8 di Genova, alla tragedia del Vajont, al crollo della scuola di san Giuliano di Puglia). E si chiede pubblicamente scusa per i nomi non detti («per tutti quelli qui non nominati / è mia grandissima colpa»), a ribadire l’intento di una poesia che non limiti il suo ‘impegno’ a menzionare tragedie e morti, ma che vuol far vivere, ‘suscitare’ le voci, dare un nome e ricreare un volto ad ognuna. La pace tanto attesa è questa aspirazione a uno spazio-tempo dilatati, per ridisegnare una geografia senza confini, che parli di noi migranti, di noi in attesa ed esposti al divenire. «L’atlante dei potenti è saltato, / tocca a noi cercare la geografia più giusta, / la vulnerabile carta degli umani». Luogo di sincretistica unione diventa l’acqua, da simbolo sacro a simbolo storico, quell’acqua dove trovarono la morte in anni e luoghi diversi gli adolescenti Valerio (1944) e Giulia (1996): i due corpi si uniscono idealmente in un incontro di pietà e di testimonianza, in quella Portovenere (il cui nucleo era già presente nel libro del 1997) più adatta a conservare l’animo puro dei bambini in attesa del compleanno che una asettica e fredda pietra tombale. Acqua che, paradossalmente, da elemento che tutto fa scorrere diventa monito che resta, culminante in una preghiera al «Signore delle acque e delle paludi, / Signore della melma e della paura...». A queste due riproposte si mescolano altre voci: ecco il «cerchio rosso» dei bambini sterminati dai medici nazisti, in nome di una sanità e di una civiltà superiore, ‘segreto’ rivelato nella dura evidenza di un male che «si propaga come un temporale», mentre il bene «per percorrere la via all’indietro impiega un altro secolo...». Polifonia è anche, nella terza più attuale sezione, voce di un mischiarsi di generazioni, collettiva esperienza di genitori ‘non tradizionali’, di famiglie non vincolate, e di figli da salvare, che, eredi di memorie e di volti, dovranno scegliere se essere migliori o peggiori prima che altri scelgano per loro. Nell’ottica di cantare il «santo della vita normale», forse davvero la storia non è che il tempo «in cui mia madre ha vissuto prima di me», come da citazione di Roland Barthes. Così, se talvolta sembra riemergere proprio l’Io autobiografico, si mira pur sempre alla funzione pubblica del dichiarare che anche la letteratura è voce/ medium, denuncia di intenti, che si dibatte tra libro e tv, autori odiati e preferiti (c’è anche una poesia-listone di consigliati e sconsigliati, nomi-e-cognomi) e il carretto del fiorentino venditore ambulante di volumi usati (o dimenticati) «a pochi euro». Può lasciare perplessi la mancanza apparente di un nesso logico/causale tra le tre sezioni del libro, se si presume che vi possa essere una risposta unica. Ma è una prerogativa della poesia-seme mirare, più che a convincere o soddisfare ad una prima lettura, ad essere incamerata secondo una ricercata poetica del dono, quei doni di sé che si scambiano, suggerisce Alba Donati, come i vestiti, di generazione in generazione e di paese in paese, di pacco in pacco; o come le parole, che passano di bocca in bocca, tendendosi «come elastici nelle mani dei bambini» e sono di tutti. È così che questa poesia, da rimasticare, dal contenuto non facile perché a rischio di essere equivocato come troppo ‘facile’, può essere trasmessa e sopravvivere oltre l’occasione pacifista di un «NOT IN MY NAME» a caratteri cubitali, e tornare nel tempo a riesplodere come voce che macina dentro, e si ribella.
Caterina Bigazzi
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