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ANDREA INGLESE, Bilico, Napoli, Edizioni d’if  2004, pp. 28,  3,50.
 
Libro inscritto nel segno dell’equilibrio precario, dell’incertezza, e del dubbio programmatico, Bilico di Andrea Inglese appare in realtà come una silloge tersa in cui il dettato poetico ha spigoli vivi. Le immagini si susseguono piane e inesorabili, lo sfasamento esistenziale di cui il libro è quasi delatore sembra affidato soprattutto alla connessione breve, sincopata delle immagini, e a certe loro distopìe, a certi tagli netti quanto obliqui. Il bilico è anche un cardine; è piano inclinato ma anche perno su cui ruota una porta, una finestra, uno sportello, o su cui si agganciano i piatti della bilancia. Proprio questa ambiguitas leggibile sulla soglia del testo – precarietà d’equilibrio e fulcro di movimento e di misura – percorre strutturalmente l’intera raccolta. Il suo perno è nella datità del reale, il suo rischioso scivolamento è nella percezione, nella lettura di quella datità. L’inquietudine monta quasi di soppiatto, in Bilico, quasi inavvertita, a guardarsi lentamente intorno. E a scoprire, intorno, non l’unico ma i molti anelli che non tengono, le smagliature che si aprono in silenzio, i nodi che s’allentano. Una prima versione mai pubblicata, diversamente articolata e comprendente anche testi che in questa licenziata non compaiono, si intitolava Dintorni maligni ed era distinta in due sezioni, In bilico e Molestie di passaggio. Vi dominava la stessa consapevolezza di disagio che emerge oggi dalle poesie di Bilico. La quotidianità è notomizzata, i gesti che ne condensano il carattere precario, quando non maligno, sono scelti con misura, emblematici nella loro schietta, comune esemplarità. C’è una disperante pulizia, nei versi di Andrea Inglese, una lingua decantata ed esatta, che procede, priva di aloni, «a rasoiate brevi», e un passo metrico scandito su un respiro calibrato, un tono mai urlato. In questa poesia perbene i gesti perbene non appaiono tali. Le minute occorrenze del quotidiano sono quelle che slogano l’esistenza, che la mostrano nella sua inerte vacuità, nel suo spiazzante catalogo di oggetti scompaginati, di «corpi opachi, / malfermi». Il problema della vita, la «coltre di preoccupazioni» che ci impedisce di «vederci chiaro», acquista trasparentissima evidenza sia nel novero di realia pericolosi o fastidiosi – «Ci sono cani in giro senza museruole / che possono farti a brandelli un polpaccio. / Ci sono idraulici che ti scassano il pavimento, / e poi spariscono. C’è il caldo / che ti fa sudare proprio dietro la nuca» – sia nel disincanto di incertezze sostanziali – «A quest’ora non sai neppure / dove lei sia esattamente / e con chi dorma stasera» – sia, infine, nella valenza allegorica di una fuga – «A forza di vedere polizieschi / mi convinco che il vero problema della vita / sta nel sopravvivere ad un inseguitore / armato. Bisogna riuscire a seminarlo, / senza esitazione / sulla scala antincendio. E mai / voltarsi indietro. / Mai osservare / le crepe di vernice sul corrimano». Questo è proprio ciò che Inglese disattende: egli si ferma a guardare le crepe di vernice sul corrimano. E tutto perde e acquista senso. L’unico senso possibile: quello della precarietà. Del turbamento. L’esterno è allora «il regno tetro della necessità». E dunque l’inseguitore armato gli è addosso. E così il perturbante che emerge dagli oggetti più usuali e noti, dalla familiarità con gli spazi abitati e con le persone che vi coabitano. L’ultimissima raccolta di Andrea Inglese, un e-book per le Edizioni Biagio Cepollaro (www.cepollaro.it 2005), è propriamente intitolata L’indomestico. Raccolta ancorata ad un presente «sfiammato», come è quello descritto nell’Inventario dei giovani che sono tanto cari agli dei da morire subito, da schiantarsi contro il sistema, «contro il muro, in gloria / di lamiere». Raccolta che soffre di una sempre più asfissiante oppressione, come è quella che raccorcia «a sproposito» i metri quadri casalinghi nella poesia I limoni, titolo montaliano quant’altri mai eppure niente affatto ‘scrosciante’, niente affatto solare, ma scaraventato nell’orbita vuota, piena di inquietudine dell’oggetto perturbante in termini freudiani: i limoni «nel piatto afgano, / pronti a cader fuori. Deformi, / grandi come patate» spremuti perché il loro succo fa bene alla salute, e vinti, arresi coi «vani» delle loro bucce di fronte al soggetto poetico che guarda «il loro piccolo vuoto / negli occhi».

Cecilia Bello Minciacchi

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