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Canto irlandese 
di Giuseppe Conte

Un poemetto di Giuseppe Conte ci ha dimostrato che esiste ancora la possibilità di creare oggi una poesia civile sobria e commossa senza rinunciare al linguaggio lirico e senza cadere nella vuota retorica. Da quest’ipotesi, da questo testo è partita la ricerca del numero presente: lo ripubblichiamo, con la gentile autorizzazione dell’autore, dalla rivista «Titus» n. 3, maggio 1986 (Arezzo). È dedicata al patriota irlandese Bobby Sands, lasciatosi morire di fame in carcere nel marzo 1981.

In memoriam
Bobby Sands


Qualcuno lo ricorda ancora, Bobby
Sands, i suoi zigomi da pellerossa,
il suo sorriso tambureggiante

il suo sorriso di gioia e di riscossa?
Qualcuno lo ricorda ancora, il

ragazzo del carcere di Maze?

I secondini portavano in cella

ogni giorno le arance e il pane nero,

sbattevano le porte, ridevano

forte tra loro; dicevano: «è vero?

non toccherà neppure più la gelatina?
andrà diritto per la sua strada?»

E lo spogliavano, ogni mattina
e sguardi impauriti scendevano
giù dal collo sino al costato.

E intanto Marzo era incominciato

e fuori l’inverno scricchiolava

sulle brughiere, sulle lingue di sabbia

dove il mare lento si inarcava
sulle scogliere confinanti con i
pascoli, dove solitari

cavalli bradi dal manto grigio
sostavano obliqui, contrari

al correre costante delle nuvole.

Fuori le onde continuavano

ad assottigliarsi tra le alghe brune

e i laghi ad inseguirsi, amarsi, come

crollati a capofitto tra le colline.
Il ragazzo del carcere di Maze
Voleva scrivere, scrivere poemi.

E vide un giorno da un’inferriata
le briciole di pane che un amico
lanciò, udì i primi cantori

scesi a beccarle: «qualcuno almeno
mangi!» pensò: era un antico
sogno bambino il suo, sapere

la vita degli alati, dove vanno

nel cielo dell’equinozio, dove tutte le sere
ritornano. Alati! Alati neri, i

corvi li udì mentre calavano

sui comignoli larghi delle case
da Armagh a Clifden, patriarchi

loro, del volo e dell’attesa.

I corvi hanno secoli per andarsene.
Sorvolano falesie, sabbie, città

che hanno veduto nascere e vedranno

cadere. Spesso la loro immobilità

è un mistero. Spesso il loro urlo

più roco di quello dell’uragano.

E udì i chiurli, i fringuelli, il loro
richiamo di fine inverno, compagni

cantori dei bucaneve e delle primule.
E attese di udire le allodole

spiriti felici che pure sanno

della morte qualcosa di più certo
che noi; le attese: «se verranno
presto e voleranno alto, l’estate

sarà secca e calda, l’estate

nuova, che io non vivrò». E ricordava
da bambino, quando a guardarle

il pianto di una libertà sovrumana

il sogno di una chiarità d’oltre cielo

lo prendeva. Che cosa c’è di là dei canti

dei gorghi di luce che né crochi

né papaveri possono fare quaggiù?
Oh li aveva amati tutti gli

alati e tutti i voli. E ora i secondini
portavano patate calde e pane nero,
ridevano sulla porta della cella

e battevano forte le mani.

«E’ vero che non tocca più niente?
Questo muore, questo muore domani».

E lui per un attimo voleva
formaggio olandese e miele, ma

poi sorrideva: «passeranno a sciami

traverso la mia gola spalancata
presto rugiade e costellazioni.

Correnti che nessuno conosce

presto mi accompagneranno, canzoni
di timpani e triangoli in fondo al mare.
Europa che non sai più ascoltare

le voci dei confini, delle foreste

le voci delle onde e dei fondali,
Europa senza poemi, Europa muta

dai templi isteriliti, sghembi
fatti di vetro e d’erba marcita
Europa saccheggiata, caduta.

Dove sono gli stormi dei gabbiani

che scalavano ogni giorno i promontori
dove dispersi gli iris e le calendule?

E i boschi sacri, le pietre in cerchio
delle tue vette, parallele

al sole e alle galassie, dove sono?»

Moriva: e insieme a lui allora
furono tanti, furono schiere.

I secondini portavano nella cella

il vassoio pieno e il bicchiere,

sbattevano forte la porta
ridevano forte tra loro.

«Qualcuno se ne andrà questa volta!»
Finì quel Marzo dell’81

vennero i mesi del verde e del chiaro

cielo, ma i ragazzi del carcere di Maze
caddero come gli iris e le calendule
che una tempesta astrale baca sullo

stelo: Bobby Sands, Francis Hughes,
Raymond McCreesh, Patsy O’Hara

e Thomas McElwee, di cui la bara

vuota, portata a spalle a sera, per le vie
di Galway io ho salutato a capo chino.
Tu dio dell’aria e della terra e delle

acque, dio dei miraggi e della marea
montante e dei fortunali, dio-bambino,
che ami le battaglie e le sirene

che hai casa in ogni alba e in ogni
tramonto, tu che sai le pene

di chi è fratello in morte, tu accoglili.

Il ragazzo del carcere di Maze
voleva scrivere, scrivere poemi,
ma non ebbe più forze né sogni.

I secondini mangiavano in cella
arance e pane nero, ridevano forte
tra loro. Era vero, era andato

diritto per la sua strada, oltre ogni
porta da chiudere e da aprire
ogni oltre gioia e ogni dolore

era migrato ormai. La mattina
lo spogliarono, sguardi impauriti
scesero sul collo e sul costato

E Marzo è passato e tornato
fuori la primavera ha ancora
fronti di fiori viola e vermigli

nuvole che volano nel cielo

come uccelli di passo verso la foce
tiepida di un fiume. Il ragazzo

del carcere di Maze, ricordatelo!
Alto con le allodole della luce.

 

 

[1983-1986, primavera]


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