Quadrivium
Hospes rapaces lirat hirundines pugnis coercens compita tactilis phari, lacertorum cicatrix lampyrides, quasi culter, urit
coram vehiclis is laniat diem fraudatus horis quas labor asperat ubi viarum nat pyritas
murmuribus famulatus aegris
postes pererrans prismate pannuli odit clientes, odit imagines tamquam protervis laesus ansis vel furiis male syncopatis
dein, pausat imis marginibus, latet, chrysanthus oris, copula temporum ut, membra dilatans, apopsin
sub tetricis vomicis repellat
nummi subactus, prae cute, sensili sphaera, cruentat solis hyperbolen, an vellus allidit vitrorum
syllabicis laqueatus umbris?
mixcix abyssis invius absidum repit nigrorem, repit anhelitum nec fratris implorat philema insidiis iterum repressum
vis, quae piatur, nunc febrit in coris et prorsus isthmis exsulat ulcerum dum grandis ulnarum crepido sidereis tumefit corymbis
tum se silenter fert vola, vastitas cui terra clamat, stat pyra pectoris, immensa caelorum litura,
pone laros dubiumque flumen
languor, machaon pulveris, intimum latus lacessit, vertebra sanguinis
fit sudor et phyllon genarum
par subitis volucrum prophetis
crux verticalis vesperis imperat gestum redemptum gestibus, advena lodicis irretitus extis
automatis equitat cometis.
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Quadrivio
Bifide luci lo straniero fende toccando i fari con le palme: in esse come di lame brilla una ferita
(di lucciole - diresti - un ulcerarsi).
L’auto riparte e ne disperde l’ombra
ma resta un furto di sfiancato braccio
ed è il metallo delle vie la cupa
voce dolente di sconfitto ilota.
Muove lo straccio su sportelli e vetri
ma odia le facce che dal vetro sfrange come oltraggiato dalla sfrontatezza
o per delirio di furore amaro.
Poi se ne sta per i più ciechi anfratti
(il viso è un fiore bello e già defunto: giogo di tempie su scomposte membra). Nelle vesciche livide dei polsi
del mondo un orizzonte si restringe.
Si accascia su un trillare di moneta
che brucia sulla pelle, eclissa il sole, prima che cresca, di domani - il giorno
di vetri di sportelli e di lamiere -
unica tregua della sua tortura.
L’uomo non c’è, non si raggiunge: striscia per absidi abissali il nerofumo
della sua pelle, e dal respiro espunge
carezze rifiutate di fratelli.
Questa è la pena e la violenza: febbre
delle pupille screpolate spente,
balaustra di graffi e piaghe, enorme
astrale pergolato di corimbi.
S’offre in silenzio il palmo della mano
su questo gran deserto cui risponde
l’urlo del mondo e un cuore che si schianta - il cielo è una rasura vasta - scorre
il fiume dei gabbiani e dei perché,
tormento polveroso che nel fianco
scava profondo: un gocciolare sangue
si fa sudore sulle guance come
profetico volatile improvviso.
La croce di un tramonto verticale
domanda un gesto che altro gesto segua. Lui, lo straniero, al fondo del giaciglio avvolto vaga per le sue galassie
di macchine e di ruote e ghisa e ferro.
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