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Dante e Petrarca nella letteratura italiana Di Pier Vincenzo Mengaldo
A quanto pare, all’origine delle grandi e durevoli letterature stanno dei padri fondatori che determinano profondamente il loro corso: Omero, Cervantes, Camões, Shakespeare, Goethe, Puškin; o in altri casi diarchie di fondatori; anche della Francia, con la sua letteratura notoriamente a molti poli, è stato detto giustamente che si è sempre dibattuta tra Montaigne e Pascal e per la sua poesia valga l’acuto paradosso di Tomasi di Lampedusa che tutti i bei versi della letteratura francese sono stati scritti da Racine. E la letteratura statunitense poggia sulla grande coppia Hawthorne-Melville. L’Italia non fa eccezione, appartenendo in modo quasi paradigmatico alla seconda fenomenologia con i suoi due opposti e complementari fondatori: Dante e Petrarca. Per entrare nella questione prenderò le mosse da quanto ha affermato drasticamente Gianfranco Contini e cioè che la letteratura italiana è del tutto incomprensibile senza Petrarca mentre si può comprendere benissimo senza Dante. Fino a qualche tempo fa questa tesi più o meno mi persuadeva ma oggi mi lascia perplesso; proverò dunque a contro-dedurre. La prima contro-deduzione è la seguente: la letteratura d’Italia, e principalmente quella poetica, non è costituita soltanto da testi scritti in italiano ma anche, largamente, nei più vari dialetti della penisola assunti a dignità di lingua letteraria; qui, l’azione di Petrarca è del tutto marginale, mentre molto di più – e per tanti aspetti si può dire esclusivamente – incide Dante. Non alludo tanto al filone, pur così cospicuo, delle versioni dialettali della Commedia in quanto tali, ma semmai all’influsso di queste sulla poesia originale in dialetto – come succede per esempio a Milano dal Settecento a Porta – e, beninteso, a quella stessa poesia originale – ciò che stanno lì a dichiarare i due vertici ottocenteschi: Porta e Belli, e uno dei maggiori poeti del ‘900, il milanese Delio Tessa. Un secondo punto lo accennerò a partire dall’estremo del decorso storico, da due casi di straordinaria reviviscenza di Dante e precisamente delle sue invenzioni, non in poesia ma nella prosa di memoria o di romanzo del Novecento: uno è il Canto di Ulisse che rinasce in Se questo è un uomo di Primo Levi; l’altro è l’audace rifacimento – chiamiamolo così – dell’episodio di Pier della Vigna in pagine non meno memorabili di Menzogna e sortilegio della Morante; e si potrebbero aggiungere facilmente tanti passi di Meneghello o, per passare alla poesia, tutte le situazioni dantesche che riemergono in Montale a siglare il riferimento a situazioni tristemente caratteristiche del secolo passato – gli «incappati di corteo» in Ossi di seppia – o le grandi sintesi esistenziali. In tutti questi casi, dunque, Dante è innestato su idee e poetiche assolutamente moderne. Si può arricchire la documentazione – ed è più che facile – ad esempio con un salto indietro su un grandissimo classico: il Furioso, letteralmente grondante di echi danteschi. Per prendere un solo caso, e dovete credermi sulla parola, nelle prime venti ottave del canto IX ci sono non meno di sei sicuri echi danteschi. Dagli accenni fatti già potrebbe scaturire una conclusione del genere: Petrarca agisce a lungo e capillarmente sulla lingua; Dante anche, e prepotentemente, sull’immaginario. Mentre va da sé che è soprattutto Dante a contribuire così ampiamente agli aspetti sapienziali della lingua letteraria italiana, e prima ancora della lingua d’uso, senz’altro, come non occorre star lì a documentare. Ma a dir la verità neppure questa dicotomia mi accontenta del tutto, perché della lingua non si tratta di vedere solo gli aspetti grammaticali ma le forme dell’organizzazione complessiva e, prima di tutto, i metri. Ora, si sa che i metri del Canzoniere petrarchesco sono già per l’essenziale danteschi, senza variazioni di fondo – come è stato dimostrato nuovamente in un bel volume collettaneo sulla metrica di Petrarca – ma Dante ha inventato la terzina incatenata, quale che ne sia il punto di partenza, e ciò a cui dobbiamo guardare non è tanto l’immediata fortuna, quasi istituzionale, di questo metro nella poesia allegorica e didattica – compresi i Triumphi dello stesso Petrarca, il quale ne fornisce con ogni evidenza una regressione non dinamica ma statica, per così dire per addendi – quanto invece il suo fissarsi come forma di nuovi generi rinascimentali come la poesia pastorale o la satira, e dunque anche in poeti primari come Boiardo o Sannazaro o Ariosto; e più tardi il suo rinascere in un’opera per molti aspetti singolare e audace come i Poemetti di Pascoli e, attraverso questi, nella poesia ideologica e narrativa di Pasolini. La secolare fortuna della terzina incatenata – va sempre ricordato – non è dovuta solo all’autorità dantesca; ma prima di tutto alla sua mirabile struttura o congegno, nei quali si uniscono senza posa soste e rilanci, chiusure e aperture, coinvolgendo nella stessa natura bifronte una sintassi che si adagia nella terzina, ma anche la scavalca, pur presupponendola, e la qualità delle rime dove si alternano facili e difficili, leni e aspri, comuni e rare. Certo, è soprattutto la straordinaria forza narrativa della terzina di Dante che, a tanta distanza, Pascoli e Pasolini mettono a frutto. La forza e la frequenza dello stampo di Dante non appaiono certo minori quando si guardi alle modulazioni più ristrette della materia linguistica, entro il verso o al suo confine. Il profilo di un verso come «Al tornar de la mente, che si chiuse» è lo stesso – lo ha notato acutamente Contini – del petrarchesco «Al cader d’una pianta che si svelse», e ciò si ripete per tanti altri moduli danteschi entro il Canzoniere. L’eccezionale verso, con accento su tutte le sillabe pari: «di qua, di là, di giù, di su li mena» viene ripreso molte volte da Boiardo e Ariosto. L’attacco dell’Orlando innamorato «Signori e cavallier che ve’ adunati» risente della tessitura fonica e non solo lessicale e sintattica del dantesco «le donne e i cavalier, li affanni e li agi». Ed è Dante a inventare – io credo – il tipo sintattico-metrico con ‘quando’ in fine di verso, più marcatura: «Dopo la dolorosa rotta, quando / Carlo Magno perdé la santa gesta»; «gittò voce di fuori, e disse quando / mi dipartii da Circe» – modulo che viene subito accolto da Petrarca e diventa presto un micro-istituto della poesia italiana. Lo stesso più o meno si ha da dire con il tipo analogo con ‘forse’ in fine di verso, più marcatura; mentre l’altra formula dantesca con l’espressione ‘senza fine’ al centro del verso, seguita da un aggettivo a chiuderlo – «per la tua fame senza fine cupa», «giù per lo mondo senza fine amaro» – risuona ancora – è sempre Contini ad averlo visto – nel gozzaniano, ad esempio, «donna mistero senza fine bello». Vedo che ho già toccato più volte il tema di Dante e Petrarca sulla cui qualità, dopo Contini, hanno scritto pagine notevoli degli studiosi più giovani. Io mi limiterò ad insistere sul fatto che non si tratta solo di un capitolo molto rilevante di storia della lingua poetica o di stilistica storica, ma anche e senz’altro di storiografia letteraria perché la massiccia influenza sulla lingua del Canzoniere petrarchesco di quella della Commedia (cioè – va sempre ricordato – di un’opera appartenente a un genere tutto diverso), influenza molto, ma molto maggiore, di quelle delle liriche dello stesso Dante, è una spia e anche una condensazione notevole del fatto che lo stile lirico di Petrarca si lascia alle spalle la monocromia stilistica della poesia d’amore del Duecento con una tavolozza, rispetto a quella, notevolmente più ricca, varia e sbozzata. L’incontro con la lingua della Commedia è dunque determinante nell’instaurazione da parte dei Fragmenta petrarcheschi di un discorso amoroso ed etico così evidentemente nuovo, diciamo pure rivoluzionario, rispetto al Duecento. Il che vorrà dire anche, alla rovescia, che quando quel discorso petrarchesco si porrà, a partire dal Quattrocento, e non solo in Italia, come modello fondamentale di ogni stile lirico si porterà dietro qualcosa di più che un’ombra di Dante – o insomma che da quel momento ogni stile lirico potrà, anzi dovrà, istituirsi anche attraverso la memoria della Commedia. Ma torniamo al punto principale: a Petrarca, assieme e in contrasto con Dante, come immissario. Evidentemente Petrarca è estraneo a tutta una linea stilistica della letteratura italiana di cui invece Dante è il massimo patrono: quella che con una certa estensione si suole chiamare la linea espressionistica; e non parlo affatto di un ingenuo impulso stilistico ma di un impulso realizzato entro precisi stampi grammaticali come, nella formazione delle parole (non a caso il terreno delle innovazioni più vistose dell’espressionismo storico per eccellenza, quello tedesco), i verbi con prefissi ad-, dis-, in-, sapientemente differenziati da Dante per luoghi e cantiche diversi. Ora, questa energia formativa di matrice squisitamente dantesca si ritrova, non dico, ad esempio, in D’Annunzio, ma ancora nell’espressionismo italiano del Novecento attorno alla «Voce» e oltre, tra Rebora e Montale, e anche nella prosa narrativa di un cospicuo inventore verbale come Gadda. Con questo, sono bel lontano dall’affermare che nella nostra storia linguistica Petrarca, poiché non agisce se non lateralmente sulla poesia espressivamente vigorosa, agisca solo su quella tenue o mezzana o grave nell’accezione della gravitas cinquecentesca. Come si sa, incide anche e profondamente su testi appartenenti a generi ben diversi dal lirico, e anzitutto in poemi del Cinquecento infusi in un modo o nell’altro di liricità e inclini a realizzare le norme grammaticali del secolo. Dunque, non ancora in Pulci e Boiardo, nei quali invece è così forte la presenza dantesca, ma sì in Ariosto e poi in Tasso. Qui occorra far sempre mente locale alla vera e propria rivoluzione attuata dal Furioso dell’Ariosto, che con precisione sempre maggiore, dalla prima alla terza edizione del poema, immerge nel fluido grammaticale petrarchesco l’esemplare di un genere fino ad allora alieno e più umile, e questa operazione direi che corrisponda perfettamente alla stessa forma dell’ottava ariostesca, così ben bilanciata fra chiusura lirica e apertura narrativa. Ma occorre ripeterlo: tutto ciò si realizza per dar voce a invenzioni, immagini, figurazioni che hanno ben poco di petrarchesco e sono invece largamente e intensamente dantesche. Ancor più che alla lettura direi che ciò si percepisce inconfutabilmente all’ascolto, come è capitato a me di recente rivedendo la geniale messinscena di Luca Ronconi con la collaborazione di Edoardo Sanguineti. Osserviamo ora le cose da un’altra angolatura. È evidente che dopo i pochi anticipi duecenteschi, Guittone e Cavalcanti, è Dante a fondare e definire per sempre con il suo poema la poesia concettuale e filosofica in Italia. Il che non sarebbe stato possibile senza la sua straordinaria attitudine, fin dalla giovinezza o dalla prima maturità, a riflettere acutamente sulla propria esistenza e il proprio lavoro letterario, proiettando nello stesso tempo queste riflessioni su uno schermo teorico ed universale. Si tratta del contenuto filosofico delle sue poesie nel Convivio, della curiosità linguistica e da critico letterario nel De vulgari, della passione e delle idee politiche nella Monarchia. Tutto questo torna e si ricicla puntualmente, com’è ben noto, nella Commedia, e non conta tanto notare la continuità o discontinuità dei contenuti, quanto il persistere e acuirsi di una forma mentale. Non occorre spendere parole per ricordare che a Petrarca quest’abito teoretico è del tutto estraneo, che gli è insomma estranea la necessità con cui in Dante emozione e concetto, individuale e universale, si rovesciano instancabilmente l’uno nell’altro. Petrarca è semmai, e soltanto, un moralista. Da questo punto di vista il modello dantesco sembra poco produttivo in un paese come l’Italia, nel quale la poesia filosofica è sempre stata piuttosto povera e marginale, forse in rapporto a una certa debolezza, dopo il Medioevo, della stessa filosofia italiana (altra naturalmente è la questione della poesia religiosa dalle origini a Manzoni e oltre); si può forse dire che Dante è più incisivo all’estero che in Italia. Però nella stessa Italia, cinque secoli dopo di lui, opera un poeta grandissimo che è contemporaneamente un pensatore di prima importanza, capace di una poesia concettuale di fortissima tensione: è chiaro che sto parlando di Leopardi. In Leopardi si dà allora la situazione di un lirico che in un certo senso è l’ultimo rappresentante del petrarchismo italiano, ma nello stesso tempo si allontana del tutto da Petrarca ed è invece il vero erede di Dante in quanto poeta concettuale, poeta filosofo. E l’attenzione a questo nesso ci può e deve condurre a considerare meglio il lascito propriamente linguistico di Dante in lui, che è ingente nelle due fasi in cui la lingua poetica di Leopardi è più ricca, varia, aggressiva: le Canzoni e i Canti fiorentino-napoletani. Questa sorta di biforcazione è del massimo interesse, e tra l’altro è seguendone le tracce che dobbiamo riconoscere in particolare che un testo come la grandiosa Ginestra è ormai totalmente fuori dal petrarchismo. La nascita e la vita secolare del petrarchismo sono ricchi di insegnamento per noi oggi anche da un’altra prospettiva: quando il petrarchismo, in senso forte, nasce e si afferma nel primo Cinquecento, e poi si stabilizza anche come fatto di costume e quindi si prolunga nei secoli, in questa vicenda la cosa più evidente alla quale noi assistiamo è il formarsi e stabilizzarsi di una koiné linguistico-stilistica – e non solo, ovviamente; anche, se posso esprimermi così, di una koiné della stilizzazione psicologica, fondata solidamente e quasi religiosamente su Petrarca, e che tuttavia si arricchisce, strada facendo, delle sovrapposizioni di certo solidali dei petrarchisti. Ma mai e poi mai invece, nel corso di una letteratura italiana, si può parlare di una koiné dantesca. Guardando alla ricezione, quanto detto significa, schematizzando un po’, ciò che segue: l’aggancio a Petrarca può essere anche aggancio al petrarchismo, per esempio nel caso di Leopardi il finto dialogo con Sannazaro; l’aggancio a Dante è sempre e solo aggancio a Dante in persona, alla sua potenza linguistica e immaginativa, che tollera unicamente rapporti, come si dice in filologia, «du même au même». E passando ancora rapidamente al Novecento, non è certamente errato discorrere di petrarchismo per Cardarelli e Ungaretti; ma quanto c’è di fatto in loro di Petrarca e quanto nell’ultimo grande petrarchista, appunto Leopardi? E fino a quando dura l’egemonia petrarchesca? Trascuro naturalmente il cosiddetto antipetrarchismo cinquecentesco che in fin dei conti conferma per assurdo quell’egemonia, per non dire dittatura e una sorta di opposizione di Sua Maestà. Tralasciando questi episodi un po’ patologici un po’ fisiologici, credo si possa dire che l’egemonia petrarchesca entra in crisi, in un certo senso definitivamente, tra secondo Settecento e primo Ottocento. Poiché anche per questo genere di fenomeni è bene tenere la mira alta, trascurerò un episodio come le poeticamente depresse visioni del Varano, semmai sarà da guardare a Parini, e non solo nel Giorno ma anche nelle Odi. Ma conviene soprattutto guardare al massimo lirico del nostro Romanticismo: Manzoni. Se credessi ai puri numeri, potrei propinare le somme differenziali dei dantismi e dei petrarchismi nella lirica manzoniana – quali si ricavano dagli ottimi commenti recenti di Lonardi, Azzolini, Gavazzeni. Mi si creda sulla parola se confermo quanto ognuno del resto può cogliere alla lettura, e cioè che la volontà artistica e il tessuto stilistico della lirica manzoniana, nella loro mirabile sconnessione e asprezza sempre come sull’orlo di una vertigine, sono completamente al di là del petrarchismo, mentre non lo sono certo del modello dantesco. In dettaglio è quanto si può verificare per esempio e subito dalla escussione delle fonti del Natale. E viceversa gli innesti danteschi si intrecciano in modo altrettanto frequente e significativo con quelli biblici e anche patristici, nonché con quelli della grande apologistica francese. E un complesso nuovo, senonché scorrendo all’indietro noi possiamo vedere che l’incontro Bibbia – Dante si dava già proprio nel Canzoniere petrarchesco. Il sostrato biblico di quest’opera è stato studiato magnificamente dal padre Giovanni Pozzi. Il confronto positivo che vale a tutti i livelli tra la lirica di Manzoni e quella di Leopardi aiuta a mettere a fuoo, di questa, l’intenzione che sottostà alla sua pratica. In semplicissime parole: Leopardi è – pur nei limiti e con le articolazioni indicate – l’ultimo petrarchista appunto perché isolato poeticamente nella sua fiera battaglia antiromantica, e cioè dunque opposto alla maniera di far poesia di tutta, più o meno, quella italiana del suo tempo e del successivo. Controprova: perché la sua lezione sia veramente attiva, bisogna aspettare in sostanza – a parte episodi isolati come quello, notate, della povera Matilde Manzoni – Pascoli. E ancor meglio il Novecento di tanti nostri poeti. A occhio e croce sembra pure che la lezione leopardiana non conti molto nella librettistica dell’Ottocento, sulla quale invece pesano tanto, non solo Metastasio, ma Alfieri e il Manzoni stesso. E se si guarda ai musicisti, ecco che Verdi, la cui pressione sui librettisti è proverbiale, è in tutto e per tutto un manzoniano, non un leopardiano. Un po’ come in altra zona – oso dire – De Santis, le cui pagine su Leopardi possono perfino risultare oggi un po’ deludenti per un critico di tal razza. Ho appena nominato Pascoli, il quale, in veste di critico, ha dedicato a Dante e alla Commedia un’attenzione insistente, analitica e molto puntuta; di Petrarca si è sempre disinteressato. Questo può contare e non contare, ma resta il fatto che uno dei più strenui studiosi recenti di Pascoli, Maurizio Perugi, ha creduto di interpretare tanta parte della poesia pascoliana alla luce dell’esegesi dantesca di Pascoli stesso. Può darsi che Perugi, come molti ritengono, abbia ecceduto; ma la sua impostazione e le relative analisi rimangono suggestive, anzi intriganti, e rimane comunque il fatto che le interpretazioni dantesche di Pascoli in Minerva oscura e Sotto il velame non sono quelle di uno studioso oggettivo e disinteressato ma sono letture e costruzioni ‘en poète’. Del resto le antologie scolastiche di Pascoli danno indicazioni in tutto e per tutto convergenti con quanto accennato: in Sul limitare sono antologizzati ben trenta brani, anche assai ampi, dell’Inferno, più il sonetto Tanto gentile, e di Petrarca appena due sonetti, Se lamentar augelli e Levommi il mio pensier. Quanto alle ragioni del dantismo pascoliano occorrerebbe veramente scavarvi come qui non è possibile, ma almeno un dato si affaccia e cioè la ripresa dell’allegorismo sia nelle poetiche che nella critica e nelle arti figurative di fine Ottocento. Per andare a vedere poi il Novecento poetico, non potrò che limitarmi sinteticamente a pochi punti. Uno è la potente reviviscenza, in varie forme, di Dante presso grandi stranieri come Pound, Eliot, Auden, Mandel’štam, i maggiori ungheresi, e tanti altri. Non senza precisi rimbalzi in Italia, per esempio su Montale. La seconda premessa è che per tutto il novecento poetico italiano continua a correre naturalmente una linea petrarchistica, magari da non sopravvalutare, che però si doppia via via di altro da Petrarca: oltre a Leopardi, Shakespeare in Ungaretti, i cinquecentisti francesi di Luzi e di altri fiorentini, e così via; e che comunque è una linea che si sbiadisce e si spenge del tutto in autori più recenti come Giudici e Raboni. All’inizio del secolo ecco subito il dantismo di Gozzano, studiato a fondo in un bel libro di Angela Casella, che si coagula in una lirica come invernale – quella del pattinatorio per intendersi – specie intorno all’episodio di Ulisse e al folle volo, in modo da indirizzare, se non in senso letterale, almeno in quello profondo del testo, un’ebbra corsa sul ghiaccio del patinoire che si trasforma in un volo; e si può notare per contrasto che pure i petrarchismi gozzaniani tendono ad avere spesso carattere citatorio. Il debito verso Dante dei cosiddetti vociani ha appena bisogno di essere richiamato: Rebora anzitutto, ma poi anche Boine e gli altri, Campana compreso, e quindi il grande erede di quella stagione stilistica, Montale. Il suo è un espressionismo che si dichiara evidente fin dagli Ossi di seppia, basta osservare la prima lirica della serie, Mediterraneo, «a vortice s’abbatte», che è di un espressionismo, appunto, paradigmatico e infatti sottesa di schegge dantesche o dantistiche, ma che resta una costante decisiva dello stile montaliano, su cui non insisto perché è cosa piuttosto nota. E chiaro che Montale può aver fatto autorità anche in questo, voglio dire nel trasmettere ai più giovani il gesto dantesco, ma si può proseguire fruttuosamente per esempio con due poeti di forte tempra concettuale: Caproni e Fortini. Per il primo è sufficiente ricordare che il forte legame con Dante si fissa addirittura in un titolo di raccolta, il Muro della terra, e lo stesso avviene in Fortini, «questo muro»: «Beatrice è di là da questo muro». Notevole che da entrambi l’immagine di separazione ed esclusione tipicamente moderna del muro, o affini, venga espressa, anzi categorizzata, con elementi danteschi. E dal punto Montale si può nuovamente retrocedere, a Sbarbaro e Saba in particolare. Nel primo il petrarchismo è totalmente messo fra parentesi, come vuole la sua direzione rasoterra anti-lirica; in Saba ovviamente no, ma anche in lui è soprattutto un fenomeno giovanile e spesso mediato e risolto da Leopardi. E l’ingente presenza, anche in Saba, di Dante va vista come non si fa abbastanza entro il grande spessore culturale dei suoi versi, quello ad esempio per cui, cantando della disperazione del «portiere battuto» nell’attacco dell’ultima delle Cinque poesie sul gioco del calcio, Saba rimette a nuovo nientemeno che una situazione omerica – «Il portiere caduto alla difesa ultima vana, / contro terra cela la faccia, / a non veder l’amara luce» – che è citazione omerica ma anche, nella fine di questi versi, ripresa leopardiana. E ricordo che – e qui forse sottilizzo – si trae dietro un retrogusto dantesco: […]. Con quanto detto non voglio riabilitare la semplicistica divaricazione che temo di aver sostenuto anch’io in passato, di una più incisiva linea dantesca nella poesia del Novecento di contro ad una petrarchesca minoritaria e più evasiva, che sfocia in particolare nell’Ermetismo fiorentino; sarebbe una mezza verità, e forse neppure. Quella intera mi pare piuttosto che l’impronta di Dante, non solo, ma che nell’altra linea la suggestione petrarchesca possono aprirsi abbastanza per accogliere in sé anche quella della Commedia; ne fa testo il maggiore degli ermetici fiorentini, Luzi, che dal petrarchismo iniziale sviluppa un precoce e crescente nel tempo affiatamento con le atmosfere purgatoriali del poema, ideologico prima che politico. E per finire un’occhiata al poeta che più da vicino agisce sull’Ermetismo fiorentino, essendone poi a sua volta influenzato, cioè Carlo Betocchi. Nella sua prima raccolta, Realtà vince il sogno (1932), colpisce la fortissima azione dell’inventività linguistica e immaginativa di Dante nella totale assenza di Petrarca, e pure in un assetto metrico dominato dalla canzonetta di versi brevi e con tonalità di fondo prevalentemente post-pascoliane e post-crepuscolari. Accenno orientativamente a parole o immagini come: dismagliare, scosciare, l’immagine dell’allodola che mentre sale in cielo canta e il canto la consuma, alta fame, onda brulla, la terra bruna, e via dicendo. Certo altro si raccoglierebbe guardando ai sistemi di rime e parole-rima, perché Betocchi è fin da subito un metrico iper-raffinato, al limite della maniera. Probabilmente il dantismo risentito ed esposto nel primo Betocchi è un caso limite, ma proprio per questo mi sembra indicativo di una stagione poetica che nel momento stesso che si è voluta nuova ha avvertito il bisogno di rifare intensamente i conti con Dante. Questa stagione ha uno dei suoi centri qui e con due fiorentini che ne sono stati i due maggiori attori. Mi piace di concludere, qui, oggi. Grazie.
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