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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 116-117 (scarica il pdf)

«Tacete, o maschi». Le poetesse marchigiane del ’300 accompagnate dai versi di Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda, Franca Mancinelli. Figure di Simone Pellegrini, Ancona, Argolibri 2020, pp. 64, € 18,00


Amanda Gorman, esiste? Esistono, le poetesse? O sono frutto dell’immaginario patriarchista, i loro corpi senza corpus? Che l’esistenza delle poetesse, prima della contemporaneità, implichi un rimodellamento dei concetti basilari di tradizione, o canone letterario, fondati sul binomio ‘vita e opere di’? Esiste una storia della autorialità femminile in versi o bisogna bearsi di leggendarie mitopoiesi? Suscita questi e altri ripensamenti questa piccola antologia illustrata, che ha ricevuto un immediato successo di critica, su quotidiani e riviste, e di pubblico, giungendo rapidamente alla ristampa. Un’operazione editoriale fortunata, un libro giusto al momento giusto, anche perché riapre un (non troppo e non isolato) cold case, un giallo letterario irrisolto. La prendo larga. Nel 2019 esce Contro l’identità italiana, un pamphlet di Christian Raimo. Nel quarto capitolo, Il virilismo dell’identità italiana, l’autore fa sua la «domanda-manifesto» di un altro pamphlet, dell’anno precedente, La storia in poche righe di Federico Sanguineti, sull’«uso politico del canone letterario». A costruire l’identità del Bel Paese, «il vero romanzo storico dell’Ottocento italiano», è la Storia della letteratura italiana di De Sanctis del 1870-71, con una «rimozione gigantesca», «l’abolizione delle donne». Così Sanguineti. Raimo rincalza: «un femminicidio culturale, che sostituisce la presenza politica, sociale, creativa delle donne in prototipi idealizzati, figure femminili, ideali estetici e politici, simboli». «L’Italia nasce dalla sua narrazione letteraria, e nasce senza donne. Ed è un paesaggio che sostanzialmente non cambia se arriviamo a oggi». Quindi rileva le percentuali minime di autrici nei manuali del Novecento italiano, nonché nei corsi universitari, e quanto alla «questione linguistica e tematica» denuncia la ghettizzazione della «scrittura femminile», ridotta alle tematiche inerenti al privato (amore, relazioni, famiglia). La società italiana resta permanentemente regressiva, provinciale, grossolanamente maschilista e familista. Prima che il manuale di De Sanctis facesse piazza pulita delle donne, la Storia della letteratura italiana dell’abate gesuita Girolamo Tiraboschi (prima edizione 1772-82), citato a esempio virtuoso da Sanguineti, proponeva un’altra invenzione della tradizione, ampiamente inclusiva, in una pagina intitolata La Poesia Italiana coltivata da molte Donne giungendo l’abate alla «pacifica conclusione» che «fin dal primo nascere nella Poesia Italiana avean cominciato le Donne a gareggiare cogli uomini a coltivarla». Fra le molte antologizzate da Tiraboschi spicca la figura di Luisa Bergalli Gozzi (1703-1779), poetessa veneziana e drammaturga, traduttrice, critica letteraria, che, da arcade ventitreenne, allieva di Apostolo Zeno, compila una antologia, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo. Parte prima, che contiene le Rimatrici Antiche fino all’Anno 1575 e Parte seconda, che contiene le Rimatrici dall’Anno 1575 fino al Presente. In Venezia, Appresso Antonio Mora, 1726. L’esemplare conservato alla Biblioteca Marciana è stato riprodotto in edizione anastatica nel 2006 dalla Editrice Eidos di Mirano (Ve).  Per un totale di 250 poetesse, una sequenza ininterrotta di presenze poetiche pari, almeno per continuità, a quella maschile, lungo un arco temporale esteso dal Duecento ai suoi giorni (traggo queste informazioni da Gilberto Pizzamiglio, Sull’‘antologia’ poetica al femminile di Luisa Bergalli, in «Quaderni Veneti», n.s. online, 5/1, giugno 2016, pp. 55-67). L’invenzione del canone italiano poteva dunque andare diversamente. Nella Tavola delle rimatrici dell’ottima Bergalli, corredata di brevi profili volti a storicizzare ciascuna antologizzata, le sonettiste petrarchiste trecentesche marchigiane esistono. Della loro presenza al mondo facevano fede le fonti della Bergalli, due precedenti antologie, di Ludovico Domenichi (1559) e di Giambattista Recanati (1716). Tuttavia sulla curatela della Bergalli pende nei secoli una ipoteca di scarsa accuratezza filologica. La breve introduzione della nostra antologia, Le poetesse marchigiane del ’300: una generazione cancellata, è affidata a due studiosi, Mercedes Arriaga Flòrez e Daniele Cerrato dell’Università di Siviglia e dell’Università Ateneum Gdansk, Polonia, ma il tono e l’intenzione, conformemente alla Premessa dei curatori della collana, sono divulgativi e ideologici (la nota biografica pullula di gender studies). I curatori hanno invitato tre famose poetesse italiane a dialogare con le poetesse marchigiane del ’300, qui ricanonizzate, rispondendo per le rime all’uso antico. «Il nostro obiettivo era quello di riproporre i testi di questo gruppo letterario sistematicamente escluso dalla nostra tradizione letteraria, composto di sole donne – e forse il più antico femminile ad oggi noto nella letteratura italiana – non solo riabilitandolo, ma permettendone una leggibilità diversa dalla lettura esclusivamente filologica, critica e accademica», una lettura «poetica», «intuitiva» e «politica», per favorire un «dialogo intimo tra poetesse di epoche diverse» circa la fondamentale «questione di genere». Senza apparato critico, i testi sono trascritti non specificando i criteri editoriali adottati avvertendo, recita frettolosamente il colophon (sotto lo sponsor, la Regione Marche), che «l’edizione di riferimento seguita fedelmente, fatta eccezione per le modifiche d’uso, è quella contenuta in Topica poetica di Andrea Gilio da Fabriano, 1580, e per l’ultimo sonetto, di Elisabetta Trebbiani e Della biblioteca volante di Giovanni Cinelli, accademico gelato, e dissonante Scanzia quinta, di Giovanni Cinelli, 1686». Tuttavia sulle motivazioni dell’opera di Gilio pende nei secoli un’ipoteca di necessitas municipalistica. Nell’introduzione, mentre si denuncia giustamente il forte disequilibrio, ancora nel XXI secolo, nella rappresentazione e nello spazio assegnato nelle storie e nelle antologie letterarie e nei corsi universitari, manuali, programmi scolastici fra autori e autrici, si entra nel merito delle nostre sonettiste, ignorate, cancellate, delegittimate dall’«infida quanto interminabile diatriba tra difensori e detrattori». Fra i detrattori qui si cita Apostolo Zeno (che pure fu maestro di Luisa Bergalli) e Tiraboschi, invece lodato e portato a esempio da Sanguineti. Tiraboschi afferma che le marchigiane non sono mai esistite realmente e che i loro sonetti sono contraffatti, scritti secoli più tardi. Carducci (1862) dice di non averle incluse nelle sue Rime scelte di lirici del Trecento per «amore verso la critica letteraria». «Egli considera infatti queste scrittrici delle contraffazioni compiute da Andrea Gilio e Egidio Menagio», ipotesi ribadita da Medardo Morici nel 1899, causa nascita di Gilio a Fabriano, per interessi campanilistici. Per Borgognoni «non esistono poetesse prima del Rinascimento». Per meglio orientare una mia opinione, cerco le sonettiste marchigiane sul Dizionario biografico Treccani online. Alla voce Eleonora della Genga prevale la linea scettica, «in assenza della testimonianza dei codici». Cioè in assenza di un corpus poetico tramandato. Questi sonetti sarebbero un falso cinquecentesco, dubbie le attribuzioni. «Affermazioni che contraddicono i documenti storici che provano la reale esistenza di queste donne, raccolta in diverse cronache cittadine», continua l’introduzione, proiettano «giudizi misogini personali, smentiti in seguito dalla ricerca storica e letteraria»: le poetesse marchigiane costituiscono Il «tassello mancante per completare il quadro letterario» trecentesco, affermando la dissidenza femminile, già attiva in ambito teologico e religioso, in ambito letterario. Il «negazionismo» è l’ennesima dimostrazione di mancanza di rigore scientifico di una critica guidata da pregiudizi. Il «presente volume» è un «nuovo capitolo» di questa «affascinante storia» di rapporti letterari di sorellanza e amicizia che qui si rinnova con le contemporanee italiane che raccolgono il testimone proseguendo «la genealogia femminile di scrittrici». In fondo al libro, nelle notizie biobibliografiche, una nota a pie’ di pagina in corpo minore recita che le brevi note sono contenute nel primo tomo de Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo di Luisa Bergalli, seguono i cv delle tre poetesse contemporanee). «La prima generazione di scrittrici della letteratura italiana», unite da spirito di sorellanza e reciproca auctoritas e maestria, nella Fabriano delle cartiere. Piacerebbe pensarlo. Ma resta un’ipotesi, un sogno veterofemminista. Impossibile disambiguare, nella furia antologizzante dei secoli, fra realtà e contraffazione, fra volontà campanilistiche e accademico femministe e autorialità femminili che sfuggono dal canone e ci rientrano per denigrazione o per passione. Il nostro libro accarezza l’imitazione di un’anastatica, ogni sonetto ha il capolettera purpureo, i disegni colorati alludono al gusto miniato trecentesco: corteggia nuovamente le icone, più che le autrici. Argolibri – una validissima nuova realtà editoriale per la poesia italiana contemporanea – raccoglie il florilegio femminile nella collana Talee, che significa, citando la Treccani online, forme «di moltiplicazione vegetativa [...] per rigenerare un nuovo individuo» poetico, dalle antiche alle contemporanee secondo un processo «organico, biologico», tipico, secondo i curatori, della poesia. Due su tre delle poetesse contemporanee si sentono in animo di auspicare, nei loro contributi in versi, non tanto e non più alla parità di genere, quanto piuttosto alla parità interspecifica, alla dissoluzione dell’umano nei regni animale e vegetale, piuttosto che alla revisione del canone. Non sarebbe meglio insistere con la filologia prima di destinarsi all’anonimato di specie, per riscrivere il canone della tradizione italiana facendo luce su centinaia di desaparecide? Il sonetto eponimo di Leonora della Genga (di sapore cinquecentesco, cfr. «Qual’invidia per tal, qual nube oscura») è un manifesto, dichiara la parità fra generi in ambito culturale. Le risponde, non per le rime, ma con una predica epistolare pop new age farcita di edificanti luoghi comuni iperbuonisti, con prosaica femministizzazione enfatica dell’«energia femminile /spingente, accudente/ la germogliante forza», demagogica di Mariangela Gualtieri, rimettendo l’aura e l’aureola a nomi senza corpus, a idealizzazioni iconiche, con ciò contribuendo alla regressione della coscienza letteraria italica tramite riconferma di stereotipi. Più pertinente, e per le rime, il Sonetto disubbidiente con cui Antonella Anedda risponde, con ironiche didascalie interlocutorie, ai sonetti attribuiti a Ortensia di Guglielmo, invitandola con sottile ironia autocritica rispetto all’operazione editoriale cui partecipa, a non scrivere a Petrarca quanto piuttosto a aggiungere una H davanti al suo nome diventando «la libellula di Amelia»: riferimento alla Hortense/Ortensia di Rimbaud chiamata in causa nel testo con cui Amelia Rosselli ha, di fatto, innovato, e da un punto di vista femminile, il canone della poesia italiana libellandolo a Vita Nova come autrice di un poema di fondazione della scrittura femminile contemporanea (alla metà del secolo scorso). I frammenti di Franca Mancinelli, alludendo a un io lirico disperso e infine ricomposto in un noi assolto da necessità spazio-temporali, rifrangono immagini versali dei sonetti attribuiti a tre delle poetesse antiche antologizzate, un accenno incoraggiante alla risoluzione dei nostri problemi di inclusione a canone non con le canonizzazioni ma con l’anonimia del soggetto poetante, che resta una via d’uscita anche filologicamente appetibile.

di Rosaria Lo Russo

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