« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 119-120 (scaricail pdf) FRANCESCO MARIA TIPALDI, Spin 11/10, Faloppio (CO), Lietocolle (Gialla Pordenonelegge) 2019, pp. 126, € 13,00 «Alcune scene dell’Inferno di Dante sono inventate»: così recita un’irriverente verso di Spin 11/10, il nuovo libro di Francesco Maria Tipaldi (1986). Cosa nasconde una dichiarazione così clamorosamente oltraggiosa? Non è solo uno sbeffeggiamento della posa distinta dei filologi incravattati: se Tipaldi si prende la briga di contraddire il Divin Poeta vuol dire che – come Rimbaud, Eliot, Pound, Buzzati e molti altri – una catabasi sui generis l’ha compiuta pure lui, e noi dobbiamo crederci. Non solo per questo Spin 11/10 merita attenzione critica: già nelle prove precedenti era riconoscibile il carattere di unicità della scrittura per stile, registro linguistico e immaginario. Ma di che inferno parla Tipaldi? Di un regno ulteriore parallelo al nostro, uno scenario fantastico? Non c’è dubbio che l’autore lasci ampio spazio ai traumi della visione onirica, ai fantasmi prodotti dal terzo occhio. Non è solo questo, però. La quête infernale è un modo per raccontare la realtà per come lui la esperisce, e per cercare le radici del male osservandone gli effetti più stranianti. Per Tommaso Di Dio, Tipaldi «ci riporta a sentire il mondo che è, esattamente così come non è».
L’immagine evocata nella prima poesia del libro è terribile: siamo in un interregno oscuro del poetico, tra Hitchcock e una versione splatter del Betocchi di Realtà vince il sogno. Di fronte a un pubblico di curiosi (l’abituale «clientela della morte»), «migliaia di piccioni» attaccano un «neonato nell’erba» e lo fanno sparire prima di volare «famelici […] verso l’inferno». Questa migrazione è solo il primo capitolo di un’inedita descensio ad inferos che non viene raccontata dalle Parche, bensì da un notiziario: la tragedia viene trasmessa con la compassata naturalezza di chi conduce un servizio di cronaca locale. Al lettore viene proposto un patto unilaterale: la sospensione dell’incredulità, l’uscita improvvisa da quella che oggi chiameremmo la ‘comfort zone’ delle «ben strutturate abitudini insediate nella pratica della lingua» (Villalta). Il viaggio di conoscenza comincia dunque con un atto di supremazia violenta del mondo animale su quello umano. Non è un caso: Spin 11/10 è un osceno polittico surrealista invaso da esseri antropomorfi, «bestie bestiali» scelte da un catalogo degno dei bestiari medievali. Tipaldi racconta con tono oracolare e stile tarantiniano le vicende di maestre-merluzzo, uomini-alce, «anguille / nelle sale parto», lama, zanzare, pinguini, granchi, scimmie dal «ventre gonfio», un maiale-cervo risorto dai morti, un orso lynchiano, un padre con gli occhi di «pesce cotto», molti cani «non desiderabili, non augurabili». Figure impossibili che potrebbero popolare un quadro di Bosch, ma che al poeta sembrano perfettamente a loro agio nel nostro mondo. Si potrebbe parlare per Tipaldi di iperrealismo surrealista, e se volessimo tracciare un canone di riferimenti letterari, ci tornerebbero alla mente più i prosatori che i poeti: Savinio, Landolfi, Wilcock, Buzzati, Volodine, Gombrowicz tra gli altri. Per la poesia, invece, è lo stesso Tipaldi a fare i nomi: Eliot, Rimbaud e Leopardi, dal quale eredita la tensione interrogativa del reale nella dimensione universale del tragico. «Bisogna preferire / l’orrore dello stare al mondo a quello di uscirne?». Sembra Leopardi, ma non è: i resoconti infernali di Tipaldi sono un efferato zibaldone di parabole assurde, del tutto prive di compassione retorica e morale. Il poeta ci invita a interpretarle come «mezzi» per «evitare l’uscita dal mondo», esercizi - più carnali che spirituali - di liberazione dall’intellettualismo tramite una mistica dell’incongruo e dell’illecito che non prevede compromessi dettati dal buonsenso né risponde all’uso della ragione. La forma stessa delle poesie è sconnessa, anti-lirica, sgraziata: viene tramortita e risucchiata dalla velocità di riproduzione e dalla cruda intensità delle visioni. Tipaldi prende l’imbuto che dà la forma all’inferno di Dante e lo fa girare vorticosamente come la trottola di Inception. E qui corre l’obbligo di inquadrare un po’ meglio il titolo del libro: «spin» non è solo la parola inglese per dire il movimento rotatorio, ma anche un termine della fisica quantistica. In sintesi, si tratta di una misura definibile come il momento angolare delle particelle: lo spin di Tipaldi è l’impropria manipolazione letteraria del concetto di spin semintero, caratterizzato da un grado di asimmetria capace di dar luogo alla materia tangibile. Ma perché 11/10? Lo spin semintero assume solo valori multipli di 1/2, mentre la proporzione del titolo si approssima all’intero per eccesso. È il frutto di una licenza poetico-quantistica che solo la struttura del libro può spiegare. Le sezioni sono 11, ma l’ultima è molto diversa dalle altre: composta da un solo testo, nega l’illusione del numero pari eccedendo la misura dell’intero. Lo scarto minimo di asimmetria è chiamato a rompere lo spin delle altre sezioni, e infatti la parte 11 contiene un’inedita poesia di speranza («Vorrei dirti di non aver paura / che quel buio che vedi è ospitale»): se non è un’uscita dall’inferno, è comunque il segno di un possibile viatico. Infine, «Spin» svela anche un riferimento a Spinoza e alla formula metafisica del ‘Deus sive Natura’, per la quale Dio si identifica totalmente con la Natura, in quanto sostanza unica e necessaria da lui dipendente. Nelle poesie di Tipaldi tale identificazione non è pacificata: l’apparente incapacità di Dio a salvarci è implicita nei fatti oscuri del mondo, il mondo stesso è l’emanazione di un senso imperscrutabile che solo Dio conosce. Per il poeta l’esistenza del male è prova inconfutabile dell’esistenza di Dio, e viceversa; tuttavia un poeta leopardiano non può accettare passivamente la necessità del dolore come causa ultima dello stare al mondo. Nessuno potrebbe accettare la «mancanza di Dio», nemmeno Dio stesso. Calando una «fune sottilissima», Egli si è incarnato in Gesù Cristo, facendosi presenza sperimentabile tramite il mistero dell’Eucarestia, con la pretesa e la promessa di salvarci dal male. Per Tipaldi, così come la Resurrezione, il mistero cristiano della transustanziazione rappresenta una sfida fondamentale. La sezione 6, vero cuore del libro, è tutta incentrata su questo tema: la fede è solamente un atto di cannibalismo («Era buono da mangiare / il Dio»)? Sì, se neghiamo la natura divina di Cristo. La promessa di salvezza passa dalla reiterazione di un macabro rito sacro («Questo è il mio corpo […] / ripetete l’azione, mangiate»), la cui comprensione sfuggirà sempre alla misura dell’uomo. La poesia di Spin 11/10 cammina sul filo invisibile della blasfemia: definendolo «poeta religioso» farei accapponare la pelle ai conservatori. Eppure Tipaldi, da cronista infernale, ha il non comune coraggio della speranza: «forse gioiremo per averla / scampata / (amica mia) al mondo distrattamente si muore / ma anche / più distrattamente si nasce». di Bernardo Pacini ¬ top of page |
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